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      Ideazione - luglio 1998IL FEDERALISMO
 E I MERIDIONALI
 di Pasquale Donvito
"L’economia
      di mercato tende al decentramento. Proprio questa convinzione ha ispirato
      l’avventura del grande mercato interno, mirante non solo a realizzare
      economie di scala, ma anche a liberare le energie dinamiche e la creatività
      connesse alle virtù della concorrenza. Oggi il decentramento rispecchia
      anche un cambiamento profondo dell’organizzazione delle nostre società,
      che dappertutto devono far fronte alla crescente complessità dei fenomeni
      economici e sociali nonché del quadro legislativo e regolamentare. Di qui
      la crescente importanza del livello locale, livello al quale i vari
      elementi dell’azione pubblica si integrano più agevolmente e le reti di
      associazione operativa si moltiplicano". Così
      si legge nel libro bianco "Crescita, competitività,
      occupazione", documento che ha determinato molte delle innovazioni
      introdotte nelle politiche dell’Unione europea. Innovazioni tra le quali
      certamente significativa è quella relativa alla crescente importanza
      assegnata ai governi regionali e locali. E tanto anche sulla base della
      considerazione che un loro più diretto ed immediato ruolo da protagonista
      consente una migliore percezione della costruzione europea da parte dei
      cittadini, nei confronti dei quali la Regione e l’ente locale
      rappresentano il referente politico-amministrativo più vicino. Parlare
      quindi di decentramento o, in modo ancora più incidente, di federalismo,
      significa tenere in debito conto questo dato di diritto e di fatto:
      l’esaltazione del localismo nell’unità europea che ha condotto di
      recente all’istituzione a Bruxelles di un organismo, seppure con compiti
      consultivi, il Comitato delle Regioni. Un decentramento, invero, che nella
      nostra cultura non dovrebbe essere visto come una novità, atteso che in
      più di un caso su questa direttrice l’Italia si è posta
      all’avanguardia anche rispetto all’Europa. L’importanza
      delle autonomie locali e del regionalismo, infatti, è consacrata, per
      quanto ci riguarda, sin dal 1948, anno di entrata in vigore della Carta
      Costituzionale. La consacrazione è contenuta in una norma madre, l’art.
      5: "La Repubblica una e indivisibile riconosce e promuove le
      autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più
      ampio decentramento amministrativo; adegua i princìpi ed i metodi della
      sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento". Nel
      dibattito sul federalismo che attualmente è in corso vi è chi infatti ha
      richiamato in campo questa norma: "L’art. 5 della Costituzione, nel
      proclamare l’unità e l’indivisibilità della Repubblica (Stato
      comunità) e non dello Stato-persona giuridica e nel riconoscere e
      promuovere le autonomie locali, implica di per sé una forma di Stato
      complesso (Stato federale) in cui interagiscono ordinamenti giuridici
      diversi (Stato e autonomie locali) subordinati ad un ordinamento giuridico
      complessivo che rappresenta la Comunità nazionale (Repubblica) ed alla
      quale spetta, in base a quanto previsto dall’art. 1 della Costituzione,
      la sovranità". Il
      titolo V, poi, specificamente dedicato a Regioni, Province e Comuni,
      all’art. 115 riconosce alle Regioni la dignità di "enti autonomi
      con propri poteri e funzioni"; all’art. 117 la competenza
      legislativa in determinate materie; all’art. 119 l’autonomia
      finanziaria, la possibilità di imporre tributi propri e la possibilità
      di disporre di un proprio demanio e patrimonio. L’art. 118 stabilisce
      che alle Regioni spettano le funzioni amministrative per le materie su cui
      le stesse hanno potestà legislativa ed elencate nell’art. 117 e
      richiama quelle funzioni che invece hanno un interesse esclusivamente
      "locale" e quindi attribuite alle Province, ai Comuni o ad altri
      enti locali. La
      stessa norma affronta il tema della delega - argomento di notevole
      rilevanza nell’ambito della corretta applicazione del principio del
      decentramento - immaginando un ordinamento che vede lo Stato delegare
      talune sue funzioni amministrative alle Regioni e queste ultime esercitare
      "normalmente" le proprie attraverso la delega agli enti locali o
      avvalendosi dei loro uffici. Invero, l’art. 118, secondo comma - che
      avrebbe dovuto rappresentare sin dal 1972, anno dei decreti delegati di
      trasferimento di funzioni dallo Stato alle Regioni, il volano del
      decentramento - è rimasto, in particolare per le regioni del Mezzogiorno,
      l’occasione perduta per dare visibilità costante ad un’Italia delle
      autonomie. Questo pericolo viene oggi scongiurato nei decreti attuativi
      della legge Bassanini, dove si prevede espressamente il potere sostitutivo
      dello Stato a fronte di una possibile inerzia nell’azionare la delega
      agli enti locali da parte delle Regioni. Insomma,
      l’architrave costituito dalle norme costituzionali è di per sé
      sufficiente a dichiarare il nostro Paese un Paese delle autonomie e del
      decentramento. Su queste fondamenta programmatiche, infatti, si sono poi
      via via innestate norme ordinarie e programmi di intervento che della
      Carta Costituzionale hanno rappresentato la prosecuzione dispositiva. Si
      può così subito dire che se questo è un Paese ancora ricco di
      centralismo, le responsabilità non possono essere imputate al Parlamento. Rispetto
      infatti ad un federalismo ben disegnato, la sua mancata attivazione è
      dipesa da una sorta di nolontà di darvi contenuto. Questa omissione ha
      poi portato all’accumulo di un grave ritardo nell’adeguamento
      organizzativo, procedurale e metodologico che oggi è l’elemento
      perverso da superare per conformarsi alle impostazioni cui l’Europa
      chiama. Il
      decentramento allora vive nelle norme, vive ed è vissuto anche - in molti
      casi - nelle procedure fissate per l’intervento pubblico a sostegno
      dello sviluppo, in particolare del Mezzogiorno. Se a quella esistenza si
      fosse data attuazione, oggi l’Italia sarebbe esemplare su questo
      versante e persino le voci che invocano la necessità di divisione del
      Paese non avrebbero avuto alcuna ragione di levarsi. Vale anche qui quanto
      sono solito affermare: le norme nel nostro ordinamento esistono, quella
      che è mancata è la loro applicazione. Ed
      in questa cornice sono tenuto a riferire che esistono norme - oggi
      dimenticate, auspico non sconosciute - di grande valore espressivo e di
      robusto contenuto solutivo che più di trent’anni fa indicavano i
      percorsi necessari da seguire per fare dell’Italia un Paese moderno in
      quanto operante sulla base di una distribuzione di funzioni e di poteri
      tra i diversi livelli territoriali. Norme che, se attuate, avrebbero
      costituito la linfa di quel processo di continua trasformazione utile per
      essere sempre al passo con le nuove esigenze delle comunità amministrate,
      soprattutto di quelle che vivono in un Sud sempre al centro di una
      questione meridionale. Erano
      norme concepite in anni in cui i mutamenti economici, quelli sociali,
      quelli finanziari non erano così repentini come oggi, sì da poter
      disporre dei tempi fisiologici per dotarsi di un adeguato assetto
      istituzionale ed organizzativo. Norme ispirate da una non comune saggezza,
      che guardavano lontano, proiettate verso il futuro. E
      così ancor oggi - nonostante la legislazione Bassanini - si dibatte sui
      percorsi effettivamente produttivi per la riforma della pubblica
      amministrazione. Una riforma strategica ed essenziale per "assicurare
      all’apparato amministrativo la capacità di intervenire nel processo
      economico con maggiore rapidità, agilità ed efficacia". Questi
      concetti si ritrovano espressi con decisione in una lontana ma a me sempre
      presente legge del 1967, la n. 685, con la quale si approvava il Programma
      economico nazionale per il quinquennio 1966-70. Trent’anni fa, allora,
      nell’ambito di un Programma di sviluppo che interessava particolarmente
      il Mezzogiorno, si prescrivevano, tra l’altro, come funzionali alla sua
      realizzazione: l’ammodernamento della struttura degli organi
      amministrativi; la razionalizzazione e semplificazione delle procedure
      amministrative; il massimo rendimento dell’apparato burocratico;
      l’aggiornamento e la semplificazione delle leggi. La
      specificazione di questi singoli accapo risulta ancora più significativa.
      A proposito della struttura degli organi amministrativi, il Programma
      indicava con chiarezza, tra l’altro, che era necessario
      "predisporre la riorganizzazione dei singoli servizi dei ministeri
      con la realizzazione di un maggior decentramento sia gerarchico che
      autarchico. Il decentramento autarchico, in attuazione del primo comma
      dell’art. 118 della Costituzione, senza incidere sulle competenze
      proprie della Regione, dovrà conferire alle Province, ai Comuni ed agli
      enti locali più ampie funzioni amministrative nelle materie di interesse
      locale". In ordine alla razionalizzazione dei servizi,
      particolarmente significativi i passaggi che richiamano la necessità di
      predisporre una nuova legislazione sulla Contabilità generale dello Stato
      "in particolare su quelle parti che incidono sulla speditezza
      dell’azione amministrativa"; l’esigenza di "semplificare la
      normativa dei rapporti contrattuali tra Stato e privato"; la
      semplificazione delle procedure amministrative. Sul
      tema, che ci interessa, del decentramento, questa stessa legge del 1967 -
      non erano nate le Regioni - evidenzia che attraverso l’attuazione
      dell’ordinamento regionale avrebbero potuto trovare adeguata
      collocazione, nell’ambito delle grandi scelte compiute a livello
      nazionale, conformemente alle competenze stabilite nella Costituzione, i
      bisogni e le aspirazioni locali, sia per quanto ne riguarda il
      soddisfacimento, sia per quanto attiene all’equilibrata distribuzione
      degli interventi a sostegno dello sviluppo. Si
      pensi che queste affermazioni si ritrovano in documenti comunitari sulla
      rilevante questione della sussidiarietà e costituiscono così la palese
      dimostrazione che, sul piano della formazione delle leggi in materia di
      decentramento, l’Italia ha da sempre precorso i tempi. Per
      trovare una legislazione importante sul versante del decentramento bisogna
      passare dal 1967 al 1977, superando l’istituzione delle Regioni ed i
      conflitti di competenza tra le Regioni stesse e l’apparato dello Stato,
      pervicace nel mantenere la forza del centralismo e quindi indisponibile
      nel riconoscere ai nuovi enti l’autonomia loro riconosciuta dalla
      Costituzione; tanto che in più occasioni interveniva la Corte
      Costituzionale per ristabilire i limiti di legittimità. Conflitti che
      hanno contribuito non poco all’appesantimento dell’apparato pubblico e
      che hanno inciso altrettanto pesantemente sulle neonate Regioni. Conflitti
      che hanno ostacolato così il processo di formazione di amministrazioni
      venute alla luce soprattutto per svolgere un ruolo di sostegno al
      progresso economico attraverso un’organizzazione ed un assetto
      procedurale coerente rispetto alla rappresentazione di quello che oggi
      viene da più parti invocato come un modello ideale di sviluppo "dal
      basso". Conflitti che hanno condotto nel tempo le Regioni, con gravi
      danni per quelle del Mezzogiorno, ad appiattirsi su un modello
      ministeriale di tipo verticale del tutto inadatto a quel ruolo di
      sostegno, e ad arroccarsi, a loro volta, su posizioni neo-centralistiche
      che hanno bloccato il processo di delega di funzioni amministrative agli
      enti locali che la Costituzione con l’art. 118, secondo comma, sanciva
      come "normale". Come
      è stato da altri giustamente osservato, "la macchina regionale ha
      stentato a dimostrarsi una realtà nuova proprio perché tutta calata
      all’interno del vecchio Stato". Emblematica delle distorsioni che
      hanno viziato nascita e crescita delle Regioni è l’impropria
      applicazione di quanto previsto dall’art. 119 della Costituzione.
      All’autonomia finanziaria, che è alla base della programmazione, grazie
      alla determinazione delle risorse necessarie per gli interventi di
      sviluppo sul territorio si è quasi integralmente sostituito un sistema di
      finanza derivata che ha letteralmente ingabbiato ogni attività in quel
      senso delle Regioni, radicando una vera e propria incapacità di lavorare
      per programmi. Per di più va osservato che in un tale regime di finanza
      derivata non vi è stato neppure un idoneo coinvolgimento delle Regioni
      nella determinazione dell’indirizzo e delle scelte politiche generali,
      sicché le stesse sono nel tempo diventate enti erogatori di spesa che
      hanno gestito l’ordinario e il quotidiano, largamente e prevalentemente
      condizionati dalla permanenza del vecchio Stato. Nel
      1975, sull’esperienza così maturatasi, il Parlamento, ancora una volta
      puntuale legislatore, approva la legge n. 382, normativa quadro per
      realizzare con il successivo Dpr 616 del 1977 una disciplina analitica di
      competenze e funzioni delle Regioni e degli enti locali, potendo contare
      sull’alta consulenza del professor Massimo Severo Giannini. Il
      capolavoro del professor Giannini, sul fronte che ci interessa, è
      sicuramente l’art. 11 del Dpr 616. Giannini è l’architetto di quel
      procedimento di partecipazione attiva e responsabile di Stato, Regioni,
      Province, Comuni e Comunità montane alle scelte di programmazione. Un
      processo di programmazione "scalare" che postula apparati
      organizzativi, metodi e procedure omogenei, coerenti rispetto alla
      realizzazione efficace del disegno. E Giannini rafforza la sua costruzione
      quando sul finire degli anni ’70, da ministro per la Funzione pubblica,
      presenta al Senato, che lo approva, il Rapporto Giannini. Un documento
      storico, sempre attuale, nel corpo del quale viene fatta l’anatomia
      dell’organizzazione della macchina pubblica, vengono indicati i percorsi
      di riforma e prospettati i mezzi di intervento; tutto per rendere questa
      organizzazione idonea a reggere le azioni per lo sviluppo ed a sostenere
      quindi il peso di un’azione determinante per lo sviluppo del
      Mezzogiorno. Si è detto, giustamente, che il Rapporto Giannini ha avuto
      un grande merito storico-culturale-politico: quello di aver posto con la
      chiarezza propria di chi ne è stato ideatore l’esigenza di affrontare,
      per una riforma seria e fondata della pubblica amministrazione, non
      soltanto i problemi di carattere normativo ed istituzionale, ma anche
      quelli di carattere operativo ed organizzativo, ed ha sottolineato in
      particolare il peso che un’attenta valutazione dell’efficienza e
      dell’organizzazione del lavoro può avere nel concorrere a risolvere i
      mali di una pubblica amministrazione che voglia essere servente dello
      sviluppo. Occorre raccordare questa valutazione con una riflessione di
      chiusura del Rapporto che assegna allo Stato, nelle sue articolazioni -
      richiamando l’art. 5 della Costituzione -, la fisionomia di un apparato
      di servizio per i cittadini e non invece quella di una realtà a sé
      stante, quella di "un amico sicuro ed autorevole" e non di
      "creatura ambigua, irragionevole, lontana". Una situazione che
      il Rapporto definiva in quel momento essere ancora "gravissima ma non
      irreversibile", lungimirante profezia di possibili manifestazioni di
      insofferenza nel caso in cui non si fosse attivato il necessario processo
      di riforma e adeguamento di un apparato pubblico che fosse idoneo
      strumento per avvicinare il cittadino al governo pubblico dell’economia. E
      che il decentramento fosse un sostegno dello sviluppo nel Sud il
      legislatore lo conferma nel Nuovo intervento straordinario nel
      Mezzogiorno. La legge 64 del 1986 assegnava alle Regioni centralità nella
      programmazione degli interventi sul territorio, in collegamento con gli
      enti locali per un verso e con lo Stato per l’altro. Stato che, avendo
      il compito di elaborare a monte il Programma triennale, approvava i
      progetti di sviluppo contenuti nei piani annuali. Il disegno, insomma,
      dell’art. 11 del Dpr 616 veniva riprodotto. La legge 64, inoltre,
      rappresentava altro primato nazionale rispetto alla normativa comunitaria
      perché introduceva, insieme alla centralità delle Regioni, il principio
      dell’operatività per programmi e non per progetti, principio che sarà
      il nucleo della riforma dei fondi strutturali nel 1988. Un
      principio, ancora, che la Comunità europea iniziava a praticare, nel
      1986, con i Programmi integrati mediterranei, i meglio conosciuti Pim.
      Questo nostro primato subì, com’è noto, un processo di mortalità
      infantile: la legge 64 ebbe breve vita. Ed a tale proposito ancora
      giustamente si disse: "A fallire non è stato l’intervento
      straordinario. A fallire è stata la classe dirigente italiana". E
      l’essere l’area meridionale d’Italia ancora oggi area depressa ha
      fatto anche affermare che il problema "poteva essere risolto non con
      reiterati interventi a pioggia ma con la sostanziale attribuzione
      dell’autonomia politica costituzionalmente garantita agli enti
      territoriali minori, i quali possono essere i principali artefici di
      qualsiasi forma di autosviluppo della propria area in quanto soli in grado
      di individuare specificatamente ed immediatamente le esigenze della
      propria comunità". A
      distanza di anni, nel 1990, il legislatore si ripete. Dopo una gestazione
      difficilissima per la sostituzione nell’ordinamento del più che vetusto
      T.U. 383 del 1934, il Parlamento approva la legge 142 di Riforma delle
      autonomie locali. L’art. 3 riprende il disegno organizzativo della
      programmazione scalare e fa uscire da una sorta di limbo chiaroscurale gli
      enti locali che si presentano finalmente titolari istituzionali dello
      sviluppo dal basso. È ancora la sublimazione di Giannini che nel suo
      Rapporto affermava che "se i Comuni non funzionano non funziona lo
      Stato". Importante è anche, a questo proposito, una considerazione
      che provenne dalla parte politica che, valutando il Rapporto, a quattro
      anni dalla sua approvazione in Senato, riferendosi a quello che Giannini
      aveva definito il "torso regionale" per indicare le
      neo-istituite Regioni, commentava: "sia testa che piedi non sono
      sostanzialmente cambiati a sufficienza" e riteneva possibile "il
      rischio dell’atrofizzazione del torso riformato". Un
      rischio reale se lo stesso Giannini ha poi definito le Regioni
      "gigantografie del Comune". In sintonia con quanto ho prima
      affermato, altri hanno anche sottolineato che le Regioni, nel tempo, hanno
      assunto una fisionomia che le rende "enti di decongestione
      amministrativa, prive di qualsiasi autonomia politica in quanto
      sistematicamente esautorate di gran parte dei poteri loro garantiti
      costituzionalmente". Dal
      1990 si susseguono provvedimenti legislativi finalizzati al miglioramento
      di un’organizzazione pubblica in collegamento con il processo di
      decentramento. Basti citare il D.Lgs. 29 del 1993, che, recando norme in
      materia di razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni
      pubbliche e di revisione della disciplina in materia di pubblico impiego,
      si preoccupa in particolare di definire i confini tra attribuzioni di
      indirizzo e controllo e di amministrazione. Si intravedono in queste
      disposizioni le direttrici della normativa Bassanini: la legge-delega n.
      59 del 1997 per il conferimento di funzioni e compiti alle Regioni ed enti
      locali, per la riforma della pubblica amministrazione e per la
      semplificazione amministrativa; la legge n. 127 del 1997 con la quale si
      introducono misure urgenti per lo snellimento dell’attività
      amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo. Ancora
      norme che hanno un obiettivo univoco: coniugare il decentramento con la
      riforma degli apparati. Una riforma che è coadiuvante rispetto a quella
      stabilità organizzativo-istituzionale, elemento necessario di credibilità
      sul fronte europeo, come si evince dalle conclusioni del vertice di
      Amsterdam con riguardo alla stabilità economico-finanziaria. Ancora
      norme che caricano sulle amministrazioni regionali, provinciali e comunali
      funzioni e compiti sempre più impegnativi, primo tra tutti quello di
      essere la postazione di riferimento sul territorio delle istanze di
      crescita economica e delle speranze di occupazione. La legislazione che ha
      disciplinato la contrattazione programmata - la legge 662/96 e la
      collegata delibera Cipe del 21 marzo 1997 - aziona la concertazione tra
      istituzioni, privati e forze sociali. In particolare, con i patti
      territoriali vengono impegnati i Comuni, protagonisti di una difficile
      opera di coordinamento di soggetti ed esigenze differenziate al fine di
      produrre progetti di sviluppo dell’area di loro competenza. I risultati
      di questo istituto, che è sulla carta e nelle intenzioni di grande
      valenza, fanno però verificare ancora una volta come la sola emanazione
      di nuove disposizioni non sia sufficiente a produrre gli effetti
      concepiti. Ed
      anche per questo Giannini insegna. Giannini, infatti, coordinò, agli
      inizi degli anni ’80, una speciale Commissione di esperti, presieduta
      dal professor Barrettoni Arleri, che produsse un pregevole studio sulla
      fattibilità delle leggi che, tra l’altro, metteva in luce come
      l’emanazione di una legge dovesse essere preceduta da un’analisi atta
      a verificarne la relativa applicabilità. Tanto in altre parole significa
      che è inutile e dannoso legiferare se prima non si sono valutati gli
      effetti che la norma produrrà non solo nei confronti dei destinatari ma
      anche nei confronti degli apparati che dovranno applicarla. È
      in questa cornice che va sistemato il quadro che vede, sia sul fronte
      nazionale che su quello europeo, la spinta verso l’esaltazione del
      governo decentrato. Sicché torna con forza l’esigenza e la convinzione
      che l’intero complesso normativo finora descritto, che nel tempo ha
      acquisito caratteristiche di sempre maggior dettaglio, non è utile, da
      solo, a far decollare un reale progetto di decentramento. Perché,
      finalmente, il decentramento diventi una realtà, perché sia un fenomeno
      positivo per lo sviluppo dal basso, gli apparati istituzionali locali e
      regionali devono sottoporsi ad un definitivo processo di modernizzazione
      complessiva. Oggi occorre, per di più, essere veloci per recuperare i
      ritardi accumulati ed essere pronti ad affrontare difficoltà certamente
      maggiori rispetto a quelle che si sarebbero poste se tale processo di
      adeguamento fosse stato costante e progressivo nel tempo. Ed
      occorre che l’elemento umano sia pronto, deciso e motivato. In
      un ente locale soggetto di sviluppo tutte le risorse umane devono averne
      consapevolezza, dando al proprio impegno un significato diverso. Non è
      infatti sufficiente che all’interno dell’ente esista l’ufficio, con
      relativa targa, per la programmazione o per le politiche comunitarie. È
      l’intera organizzazione in tutte le sue responsabilità che deve
      motivare in modo nuovo la propria attività. Devono diventare fisiologici
      e non eccezionali i "momenti di coordinamento trasversali,
      orizzontali" perché "una diversa efficacia e quindi una reale
      produttività si ha quando l’orientamento delle persone, gli strumenti e
      il modo di operare cambiano e si orientano non più alla prestazione ma al
      risultato". In
      assenza di tutto ciò, è arduo ritenere di inserirsi nei processi di
      coesione economica che incentivano lo sviluppo e creano occupazione.
      Questo evento si realizza solo se vi è vero riscontro della progettualità
      che proviene dal basso. Senza questo cambiamento sarà il Mezzogiorno che
      rischia, se non mette in campo capacità che fanno del decentramento
      un’opportunità e non un mezzo di separazione. Se,
      infatti, federalismo significa semplificazione, velocizzazione, maggiore
      cura degli interessi di un territorio; se federalismo significa possibilità
      di impegno e gestione diretta di masse finanziarie in funzione di esigenze
      rilevate e riconosciute meritevoli di soddisfacimento; se federalismo
      significa migliorare la qualità della vita dei cittadini, degli operatori
      economici, rendendo agevoli i loro rapporti con l’apparato pubblico; se
      federalismo significa dare concreto significato ad un’autonomia
      "ordinata", così come disegnata nelle norme costituzionali,
      allora il federalismo deve anche essere un abito mentale, un convincimento
      profondo, un atteggiamento dinamico. Niente di passivo, allora. È un
      monito che va rivolto alla pubblica amministrazione e alla società
      meridionale. Una società che si porta dietro il retaggio della tradizione
      di tipo "monarchico". Un Meridione per secoli "regno"
      e quindi abituato a forme di governo verticistico, in contrapposizione
      alla cultura dei Comuni, che già in tempi lontani contraddistingueva le
      aree del Nord del Paese. La
      storia - e Federico II ne rappresenta l’emblema - ricorda che
      feudalismo, burocraticismo, assolutismo erano alla base della prosperità
      del regno. La voglia di autonomia delle città, nel Mezzogiorno, trovava
      immediata risposta nell’incorporazione delle stesse nel regno normanno e
      nella loro soggezione ad un sistema diffuso di funzionari locali che
      rispondevano direttamente al monarca. La vita economica e sociale era
      regolata dall’alto, secondo i dettami di un sistema centralistico e
      verticalistico. Questo accadeva mentre nell’Italia settentrionale si
      cominciavano a manifestare forme di governo locale autonomo, con la
      nascita dei Comuni, talché le successive alterne vicende storiche non
      sono mai riuscite a soffocare quella cultura, mantenendosi così vive le
      espressioni di impegno civile e di senso di responsabilità dei cittadini.
      Al contrario, nel Mezzogiorno, il sistema verticistico continuò ad
      imperare anche sotto i Borboni, impedendo lo sviluppo di quei "legami
      di solidarietà orizzontale" che nel tempo si sono trasformati nel
      non essere il più delle volte consapevoli della propria identità locale:
      fatto diverso dal campanilismo o dall’attaccamento alla propria terra.
      Quella consapevolezza è indispensabile per avere comportamenti attivi che
      rispecchino un’altrettanto convinta volontà di partecipazione. Sicché
      se nel Nord i cittadini e gli operatori - pubblici e privati - si sentono
      tutti parte attiva dello sviluppo - inteso anche nel senso più ampio di
      "qualità della vita" -, nel Mezzogiorno cittadini ed operatori
      si sentono nella maggior parte dei casi "comparse" in una
      rappresentazione in cui altri giocano il ruolo di protagonisti. Questo non
      significa che non si registrino significativi tentativi - ed anche qualche
      successo - di cambiamento. Il
      più delle volte, invero, si tratta di un cambiamento imposto, magari
      favorito da una delle nuove forme di intervento pubblico, senza che vi
      siano scelte consapevoli. Non può quindi che prendersi atto - da
      meridionale, con tanta amarezza - che "il Sud ha bisogno di società
      civile", che "colmare il gap infrastrutturale o produttivo è
      certamente condizione necessaria per innescare uno sviluppo economico e
      sociale sostenuto e duraturo, ma non può essere condizione sufficiente se
      non viene accompagnata, anche finanziariamente, da un parallelo impegno
      nella produzione di quei beni relazionali che sono così importanti per
      una forte società civile. D’altra parte, solo attraverso lo sviluppo
      virtuoso di reti di credibilità, fiducia e cooperazione gli investimenti
      infrastrutturali e produttivi potranno esplicare appieno tutte le loro
      esternalità positive". Mi
      viene in mente, a questo proposito, la questione dell’attrazione degli
      investimenti. Progetto di grande attualità sul quale molto si sta
      dibattendo e decidendo, e per favorire il quale il governo sta
      concertando, per parte sua, federalismo ed incentivi per le imprese,
      attivando, tra l’altro, sportelli unici "antiburocrazia" nei
      Comuni e procedure semplificate per favorire nuovi insediamenti
      produttivi. Anche in questo caso, per quanto attiene il Mezzogiorno, se è
      vero che gli investimenti di imprese provenienti da altre parti del Paese
      o dall’estero non potranno che rappresentare un elemento positivo perché
      senz’altro contribuiranno a creare occupazione, deve contestualmente
      esservi quel tipo di coinvolgimento partecipativo che faccia sentire alla
      comunità il peso dell’impegno e l’importanza del ruolo svolto dagli
      attori locali. Occorre eliminare il rischio che il fenomeno venga vissuto
      come estraneo e proveniente dall’alto. In
      questo senso, chi parla della necessità di sviluppare "reti di
      credibilità, fiducia e cooperazione" è nel giusto. Ben vengano
      quindi tutte quelle ipotesi operative che vedono la costruzione di tavoli
      comuni su temi di interesse altrettanto comune. Ben venga il superamento
      delle barriere di competenza. Ben vengano amministrazioni locali aperte
      che svolgano quello che è il loro ruolo naturale: rappresentare e
      difendere gli interessi del proprio territorio e dei propri cittadini, che
      non sono più una parte d’Italia ma una parte d’Europa. Un’Europa
      che oggi è "Europa delle regioni". Un’Europa impegnata, per
      parte sua, in azioni di sostegno, di promozione e di salvaguardia di
      lingue e culture regionali o minoritarie nella convinzione che esse
      rappresentano "un mosaico estremamente ricco ed eterogeneo che va
      rispettato e preservato", costituendo una testimonianza della
      ricchezza del patrimonio culturale europeo. Ausiliare
      in tutto questo potrà diventare, nel corpo delle future riforme
      istituzionali, il Senato delle Regioni, soggetto di rappresentanza delle
      autonomie locali e dei territori. Una sede di stimolo e di controllo nel
      cui ambito le istanze reali del Mezzogiorno, per quanto ci riguarda,
      potranno trovare risposta. Potrà trovarsi risposta, per esempio,
      sull’effetto occupazionale generato da risorse per 24mila miliardi
      assegnate a gruppi industriali con i contratti di programma e potrà anche
      trovare impulso, per la sua auspicabile ricomposizione, il Comitato delle
      Regioni meridionali che è tornato ad aleggiare a Napoli in sede di
      costituzione dell’Osservatorio sul Mezzogiorno. Ed a questo
      Osservatorio, sicuramente mezzo utile per i nostri fini, assegnerei un
      mandato: organizzare, in uno con dati econometrici, in uno con la relativa
      elaborazione, in uno con approfondimenti e orientamenti critici e
      costruttivi, una banca-dati di valori professionali. L’impresa
      Mezzogiorno che vivrà nel federalismo avrà bisogno, come non mai, di
      essere guidata da valori, cioè da persone che devono possedere le
      seguenti caratteristiche: 1)
      essere profondamente votate alla causa; 2)
      essere pronte a dare il meglio di sé e sempre; 3)
      sentire le organizzazioni come proprie e sentirsi profondamente
      responsabili; 4)
      saper assumersi il rischio e prendere iniziative in ogni momento. Serve
      questo, in conclusione, per contribuire alla necessaria, progressiva e
      costante opera di riqualificazione politico-burocratica e di
      valorizzazione delle autonomie locali, che eviti il pericolo di "un
      federalismo all’italiana" che subentri ad un "ambiguo
      regionalismo". Se
      si condivide che "lo Stato regionale, al pari di quello federale,
      altro non è che una species dell’ampio genus Stato unitario
      decentrato", è legittimo chiedersi se il federalismo potrà riuscire
      dove il regionalismo ha fallito. Un interrogativo che avrebbe altrettanto
      legittime radici se si conviene che "il fallimento del regionalismo
      è da imputare alla sua mancata attuazione". Per
      quanto attiene il nostro Mezzogiorno, infine, non vorrei fosse buon
      profeta chi paventa ancora che "il federalismo oggi per le aree
      depresse del territorio nazionale sarebbe come una Ferrari nelle mani di
      un bambino". Pasquale
      Donvito
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