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      Ideazione - settembre 1998UN MEZZOGIORNO
 A DUE VELOCITA'
 di Massimo Lo Cicero
Alla
      vigilia dell’estate, come ogni anno, la Svimez ha reso noto il testo del
      proprio rapporto annuale sulla situazione economica del Mezzogiorno. Il
      lavoro conserva l’impianto tradizionale che lo rende in ogni caso utile,
      per la possibilità di ottenere una serie di indicatori che coprono un
      lungo periodo di tempo nel solco di una comune e costante impostazione
      metodologica. Si potrà discutere l’impianto dell’analisi e la
      "cultura dei divari" che ne anima la logica interna, ma resta il
      fatto che siamo in presenza, per ora, dell’unico rapporto periodico
      capace di catturare le modificazioni di lungo periodo nella dinamica
      dell’economia meridionale. Della "cultura dei divari" si è già
      detto abbastanza: essa è stata per anni vittima di una sorta di illusione
      ottica. Il fatto che il reddito del Mezzogiorno si espandesse in maniera
      modesta ma positiva rispetto a quello del resto del Paese ha alimentato la
      convinzione che, almeno tendenzialmente, questa circostanza potesse
      "chiudere" il divario di benessere tra le due parti
      dell’Italia. Il grande critico di questa impostazione è stato Paolo
      Savona, che ha utilizzato una potente metafora per mettere in evidenza il
      nocciolo duro della propria analisi. Sostiene da tempo Savona che
      l’economia meridionale è stata, per tutti gli anni Ottanta, una grande
      pentola bucata in cui il travaso di fondi garantito dai trasferimenti
      pubblici generava una potente sollecitazione della domanda effettiva, ma
      che quella domanda effettiva, in assenza di una crescita proporzionale
      della capacità produttiva endogena, finiva per alimentare
      un’altrettanto significativa quota di importazioni nette dal resto
      dell’economia nazionale. Come accade quando si versa liquido in una
      pentola bucata, così travasare fondi attraverso la spesa pubblica nel
      sistema economico meridionale non è servito a riempirlo, ma solo a
      trasferire fuori della pentola quello che si è versato. Il
      Rapporto Svimez di quest’anno è interessante per due motivi: perché,
      con i dati relativi al 1997, si viene a disporre di una serie di
      informazioni statistiche che copre ormai anche gli anni Novanta, quelli
      che hanno registrato l’interruzione della dipendenza finanziaria
      dell’economia meridionale dalla spesa pubblica; perché l’impianto
      tradizionale del rapporto stesso è arricchito di tre parti, viene voglia
      di dire monografiche, che offrono una seria conferma della criticità
      assunta dal problema meridionale nel nostro contesto nazionale. Cominciamo
      dal secondo motivo di interesse: le tre parti monografiche che danno una
      misura delle dimensioni nazionali del problema. Il Rapporto Svimez offre
      una mappa analitica, per regione, del mercato del lavoro e della presenza,
      su quel mercato, dei soggetti che si dichiarano in cerca di occupazione.
      Nel 1997 queste persone hanno superato la quota di 2 milioni ed
      ottocentomila unità in Italia. Un milione e seicentomila unità si
      trovavano nel Mezzogiorno; oltre cinquecentomila nella sola Campania. Per
      avere un ordine di grandezza del fenomeno si pensi che il mercato del
      lavoro in Campania registrava una presenza di persone in cerca di
      occupazione più elevata dell’intero triangolo industriale (Piemonte,
      Liguria e Lombardia). Se si guarda la cosa da un altro punto di vista, si
      può osservare che, nel 1997, per ogni cento abitanti di età superiore ai
      15 anni, nel triangolo industriale lavorano 46 persone ed in Campania solo
      32. La Campania, per continuare, registra un numero di persone in cerca di
      occupazione pari a tre volte circa quelle che cercano occupazione nel
      Nord-Est. E, di nuovo, nel Nord-Est, su 100 persone dall’età superiore
      ai quindici anni, ne lavorano quasi 47 contro le 32 della Campania. Queste
      cifre dimostrano che il problema dell’arretratezza economica del
      Mezzogiorno e quello della disoccupazione italiana coincidono
      geograficamente e che la sola politica economica capace di dare un colpo
      alla disoccupazione è quella che eleva il tasso di attività nel
      Mezzogiorno o, in alternativa, quella che è capace di spostare almeno un
      milione di persone dal Mezzogiorno verso altri mercati, domestici, europei
      od esterni all’Europa. Ogni altra alternativa è priva di contenuto
      aritmetico prima che di significato economico. Il
      secondo elemento che il Rapporto Svimez documenta quantitativamente è
      l’aumento del costo del lavoro per unità di prodotto che, nel
      Mezzogiorno, è tanto più intenso che nel Centro-Nord da porre, nel 1997,
      il livello di questa grandezza, cruciale per la determinazione degli
      investimenti privati, oltre quello del Centro-Nord in valore assoluto. Sia
      nel 1996 che nel 1997 il livello della domanda aggregata nel Mezzogiorno
      è cresciuto della metà di quanto sia avvenuto nel Centro-Nord. Questa
      parte del Paese a sviluppo ritardato, dunque, che ospita circa un terzo
      della popolazione residente, è stata stretta in una tenaglia dalle due
      lame: la bassa espansione della domanda e la rilevante crescita del costo
      del lavoro per unità di prodotto. Non sorprende che siano caduti gli
      investimenti privati, in quota sul totale nazionale e che, area per area,
      rispetto all’anno precedente, essi siano nel 1996 diminuiti con maggiore
      intensità nel Mezzogiorno e, nel 1998, sempre nel Sud siano aumentati
      della metà di quanto è avvenuto nel Centro-Nord. A
      fronte di questa accumulazione di nuovi divari, ben più temibili di
      quelli che limitavano il proprio effetto al mero benessere disponibile, il
      Rapporto Svimez espone con dovizia di elementi le dimensioni della
      politica economica di cui è stato destinatario il Mezzogiorno. Sono tre,
      allo stato, le leve potenziali della crescita cui possono fare riferimento
      gli attori locali: la legge sull’imprenditorialità giovanile; la legge
      sugli incentivi all’industria; gli strumenti della programmazione
      negoziata, patti e contratti d’area, con annessi vari. Le prime due
      hanno ragionevoli ritmi di funzionamento ma rappresentano solo una goccia
      nella pentola bucata del Mezzogiorno, per restare alla metafora di Savona.
      Il terzo strumento non è liquido: nel senso che, come si legge anche nei
      recenti elaborati del ministero del Tesoro, deve ancora trovare il proprio
      ritmo di erogazione e si dubita che possa farlo, progressivamente
      ingabbiato come è dalle procedure Cipe che prevalgono sull’originario
      spirito bottom up, come ha denunciato il padre teorico di questa politica,
      Giuseppe De Rita. Resta
      da chiarire quale sia il contenuto conoscitivo relativo alla possibilità,
      che viene offerta dal Rapporto Svimez, di disporre di una serie di valori
      sul reddito meridionale relativa al decennio degli anni Novanta: quello
      che ha visto la crisi dell’equilibrio esterno, la stabilizzazione e
      l’interruzione del circolo vizioso tra debito e spesa pubblica in
      deficit. Il Rapporto ci fornisce un quadro veramente interessante,
      disaggregando per regione le vicende dell’economia italiana in questo
      lungo periodo. In un grafico davvero eloquente si leggono, per ogni
      regione, il livello del reddito pro capite, a prezzi correnti, nel 1991 e
      lo scostamento dal tasso medio annuale di crescita del reddito nel
      quinquennio 1992/1997. Per
      dirla con parole povere si osserva che i poveri, cioè le regioni
      meridionali, sono cresciuti assai meno dei ricchi. È aumentato il divario
      tra Nord e Sud ma è anche aumentato il divario tra le regioni
      meridionali: la Calabria, l’Abruzzo ed il Molise tendono alla media
      nazionale; la Campania e la Puglia sono le peggiori, cioè le più
      distanti dal tasso medio nazionale di espansione. Le migliori, cioè le più
      veloci rispetto alla media nazionale, sono il Veneto, il Friuli e
      l’Emilia. Negli
      anni Novanta, insomma, si interrompono i trasferimenti ed i divari
      aumentano, invece di richiudersi come avveniva negli anni Ottanta: seppure
      limitatamente ai soli effetti di benessere. Che cosa possiamo ricavare da
      questo quadro così preoccupante che, nella brevità della sintesi,
      abbiamo anche troncato di ulteriori ed interessanti elementi quantitativi
      sulle ragioni della mancata espansione industriale in termini endogeni per
      le regioni meridionali? Proviamo a formulare qualche conclusione. Senza
      una ripresa della crescita italiana non esistono le condizioni per tentare
      una manovra di espansione dell’economia meridionale che abbia effetti
      significativi sui livelli di occupazione. I tassi di crescita,
      nell’ordine di un magro 2% annuo che si attendono per il 1998, non
      lasciano alcuna speranza di registrare un miglioramento apprezzabile nelle
      condizioni macroeconomiche del Mezzogiorno. Ci sarà anche qualche rondine
      ma, senza voler fare cattiva ironia, non farà primavera. Senza
      una ripresa della fiducia nelle opportunità di crescita delle regioni
      meridionali non esistono le condizioni di lungo periodo perché, una volta
      che si fosse riavviato il processo di crescita, una parte importante degli
      effetti di questo fenomeno espansivo possa tracimare a sud della linea
      gotica. Per aumentare la fiducia il governo dovrebbe garantire la ripresa
      degli investimenti nelle infrastrutture materiali ed in quelle intangibili
      che generano esternalità positive per la crescita: come l’ordine
      pubblico, l’educazione e la ricerca scientifica di base. La
      pubblica amministrazione e la spesa corrente che l’alimenta andrebbero
      ridimensionate e tenute a freno: il margine disponibile derivante da
      queste riduzioni di spesa pubblica andrebbe impiegato per generalizzate
      misure di detassazione. Andrebbero incentivate soluzioni contrattuali a
      livello aziendale rispetto alle gabbie rigide dei contratti collettivi
      nazionali che, applicati a realtà eterogenee, vorrebbero assicurare equità
      e generano tragiche diseguaglianze: perché riducono ulteriormente la
      propensione ad investire dei privati. Il
      governo dovrebbe risanare le banche che controlla ed affidare ad esse la
      selezione di nuovi progetti imprenditoriali. Al contrario, si orienta a
      creare agenzie ed organismi pubblici che coordinino quelli già esistenti,
      che non vengono smantellati o liquidati; propone misure generalizzate di
      assistenza come tamponi temporanei della piaga sociale della
      disoccupazione; non intende rinunciare ad una opzione di stabilizzazione
      fiscale attraverso la dilatazione delle imposte piuttosto che attraverso
      il contenimento delle spese correnti. In
      queste condizioni, parlare di crescita meridionale e di recupero dei
      divari è aritmeticamente infondato ma è anche molto discutibile sul
      piano della lealtà verso i cittadini, destinatari di quelle misure. Essi,
      infatti, in perfetta buona fede, formulano aspettative e richieste
      espansive, ritenendo i governanti idonei a trovare una soluzione alle
      domande che pongono. Sono le risposte offerte a quelle domande, e non le
      domande, che vanno rifiutate. Massimo
      Lo Cicero
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