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      Ideazione - gennaio 1998LA SCONFITTA DEL
 "NUOVO MERIDIONALISMO"
 di Massimo Lo Cicero
I caratteri del
    "nuovo meridionalismo" si vennero a determinare negli anni
    immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale e si formarono
    nell’ambito di una singolare e mai più ripetuta rete di relazioni, che si
    formalizzò negli ultimi mesi del 1946 con la nascita della Svimez,
    l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno.
    L’iniziativa di coagulare quelle energie venne assunta da un ministro in
    carica, l’onorevole Rodolfo Morandi, ma le singole personalità coinvolte
    rappresentavano un gruppo ed una cultura omogenei ben prima di dare vita
    all’Associazione (nota 1). I legami
    esistenti tra loro e la comune analisi dei problemi che impedivano la
    crescita dell’economia italiana, così come le linee generali lungo le
    quali ricercare la soluzione di quei problemi, venivano da una tradizione
    ancora più remota: la lezione politica ed umana di Francesco Saverio Nitti;
    la scuola manageriale di Alberto Beneduce; la radice di una tradizione
    meridionalistica che, dal 1910, aveva dato vita all’Associazione nazionale
    per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia (nota
    2). La definizione di
    "nuovo meridionalismo" doveva, nell’opinione di quel gruppo
    intellettuale, marcare insieme la continuità con l’impegno civile per la
    ricomposizione del dualismo economico esistente nell’economia italiana e,
    nel medesimo tempo, segnalare la rottura metodologica che essi proponevano
    sul piano analitico come nell’architettura degli strumenti e
    nell’indicazione delle terapie per superare il dualismo stesso (nota
    3). Le opzioni capaci di identificare emblematicamente l’apporto
    innovativo che essi intendevano innestare sulla tradizione cui si
    richiamavano erano tre: affiancare l’Italia al grande sforzo che le
    energie intellettuali del mondo occidentale promuovevano per diffondere e
    sostenere l’idea di uno sviluppo economico, promosso da azioni
    intenzionali ma realizzato senza rinunciare al paradigma più generale della
    libera iniziativa in campo economico; affidare all’espansione
    dell’industria la funzione di variabile chiave per ottenere la chiusura
    del dualismo territoriale che divideva il Paese e realizzare questa
    espansione attraverso la creazione di un sistema di esternalità favorevoli
    all’espansione industriale; creare un’organizzazione dotata di
    reputazione finanziaria internazionale, abilità tecnica ed ampia autonomia,
    dal sistema dell’amministrazione pubblica come delle assemblee
    rappresentative, alla quale affidare la missione di generare le condizioni
    favorevoli all’espansione. I punti di riferimento
    di questa triplice prospettiva sono, a distanza di molti anni, assai più
    evidenti di quanto allora poteva apparire: dietro l’impegno di quel gruppo
    intellettuale si vede, con il senno del poi, la grande suggestione
    alimentata dalla creazione della Banca internazionale per la ricostruzione e
    lo sviluppo, oggi più nota come Banca mondiale. Ma sarebbe ingeneroso
    limitare le radici dell’operazione a questa specie di American dream (nota
    4). Dietro il gruppo, riunitosi nella Svimez, c’erano anche le
    esperienze maturate nella lunga e difficile stagione che aveva consentito
    all’Italia di superare due grandi crisi bancarie: ai primi del secolo e
    negli anni Trenta. C’erano, insomma,
    tutta l’esperienza e la passione accumulate dalle élites manageriali del
    Paese nel tentativo, riuscito, di evitare il dissesto del sistema bancario,
    superare i limiti della banca mista, importata su basi fragili dal modello
    "continentale" di crescita economica, consolidare le fondamenta
    patrimoniali della rete primaria delle infrastrutture e dell’industria
    pesante nazionale. Imprese, tutte, che erano state portate a termine grazie
    alla singolare creazione di una rete di enti finanziari, pubblici solo per
    l’esserci, ed alla parallela promulgazione di una legislazione bancaria
    che confinava il sistema delle aziende di credito nella ridotta sfera di
    attività tipica della banca di sconto e di deposito (nota
    5). La combinazione tra
    questa capacità di dare vita ad organizzazioni, che presentavano la
    reputazione dello Stato nazionale, unita all’abilità manageriale ed alla
    possibilità finanziaria di agire come grandi intermediari creditizi, si
    saldò con l’esperienza nel governo di grande concentrazioni industriali,
    che la guida di quelle organizzazioni aveva affinato. Alla scuola di Nitti e
    di Beneduce, quindi, era maturata la convinzione, per molti tra coloro che
    dettero vita e corpo al "nuovo meridionalismo", che solo un grande
    sforzo in direzione di una ripresa del processo di accumulazione industriale
    avrebbe generato la ricchezza necessaria al risanamento del sistema
    finanziario, compromesso dalle crisi attraversate e dalle singolari e
    negative abitudini dei circoli dirigenti della borghesia nazionale (nota
    6). Questa fiducia nella necessità dell’accumulazione industriale
    come primo motore dell’allargamento possibile del benessere nazionale si
    colloca alla base della convinzione che solo l’industria avrebbe potuto
    consentire la soluzione definitiva per il problema dell’arretratezza
    dell’economia meridionale. La convinzione, altrettanto radicata, che non
    dovesse essere compito della politica economica dare vita a nuove iniziative
    industriali, ma solo creare le condizioni perché quelle iniziative
    venissero perseguite e realizzate da gruppi privati, indicò nella creazione
    di una rete di infrastrutture e nella modernizzazione delle condizioni di
    vita e di produzione nel sistema dell’agricoltura meridionale il compito
    esclusivo del nuovo ente economico cui affidare la missione di rendere
    possibile l’industrializzazione del Mezzogiorno. La relazione tra
    queste convinzioni di principio e le soluzioni organizzative adottate non
    spinga il lettore ad immaginare una sorta di deformazione tecnocratica,
    manageriale od organizzativa per la cultura del "nuovo
    meridionalismo": una specie di deformazione professionale in chiave
    aziendalistica e microeconomica. Alla capacità analitica del gruppo non
    sfuggiva la dimensione tipicamente macroeconomica del problema che essi
    dovevano affrontare: trovare una possibile compatibilità tra
    un’accelerazione della crescita in una parte importante per dimensioni
    dell’economia nazionale senza compromettere l’equilibrio dei conti con
    l’estero dell’intero Paese. E, inoltre, realizzare questo traguardo in
    presenza dei corposi patrimoni liquidi, eredità dei recenti trascorsi di
    illegalità e disordine nelle transazioni commerciali in ragione della
    guerra appena terminata. La soluzione che essi costruirono rispettò i
    vincoli esistenti e consentì il raggiungimento degli obiettivi. La chiave
    di volta di questa compatibilità venne individuata nel finanziamento della
    crescita aggiuntiva attraverso i prestiti erogati dalla Banca mondiale alla
    neonata Cassa del Mezzogiorno. Anticipando in tal modo la tecnica delle
    sovvenzioni finanziarie globali che la stessa Banca mondiale adotterà per
    alimentare la crescita dei Paesi deboli negli anni Ottanta (nota
    7). L’ente economico
    nazionale, la Cassa del Mezzogiorno, assumeva su di sé le funzioni di
    screening e monitoring necessarie per l’individuazione e la realizzazione
    dei grandi progetti infrastrutturali al centro della politica domestica di
    espansione; la reputazione del nuovo ente garantiva la Banca mondiale dal
    rischio di azzardo morale implicito nella natura e nella dimensione delle
    operazioni; la credibilità personale e la capacità di coordinamento e
    cooperazione dimostrata dagli appartenenti al gruppo manageriale, che si
    poneva alla testa di quell’esperimento di politica economica e sociale,
    rappresentavano un’ulteriore garanzia della performance attesa e
    l’argine contro la possibile degenerazione della soluzione individuata (nota
    8). Pasquale Saraceno
    traccia nel 1962 un bilancio appassionato dei risultati raggiunti applicando
    i princìpi che abbiamo cercato di riassumere, ed individua i termini di una
    possibile integrazione della formula originaria attraverso una politica
    attiva per l’espansione ed il consolidamento della natura industriale
    nell’economia meridionale (nota 9). In
    quegli anni l’Italia ha compiuto il primo e decisivo passo in direzione
    della crescita e dell’integrazione con gli altri Paesi industriali. Le
    ricette suggerite dal "nuovo meridionalismo" hanno consentito di
    impiegare il risparmio del resto del mondo, canalizzato attraverso la
    relazione tra Banca mondiale e Casmez, per espandere il livello
    dell’attività economica nelle regioni meridionali: questa espansione ha
    alimentato la domanda di beni di consumo e di investimento nei confronti
    dell’altra sezione territoriale del Paese. L’integrazione commerciale
    tra l’economia nazionale e l’economia mondiale ha allargato i mercati
    delle industrie settentrionali ed è iniziato il processo migratorio che
    sposterà una larga quota delle risorse umane dal Sud al Nord del Paese. Si
    avvertono i limiti e si misurano i traguardi raggiunti, mentre si prende
    atto della necessità di adeguare strumenti e comportamenti a un cambiamento
    più generale che investe il quadro europeo e quello mondiale (nota
    10). La ricerca di un
    aggiornamento nella terapia di politica economica si affianca alla
    discussione ed al confronto per individuare un nuovo equilibrio politico. La
    convergenza tra cattolici e socialisti, che darà vita al centro-sinistra,
    si intreccia con i temi di una possibile diversa strumentazione economica. I
    rappresentanti di un punto di vista laico e liberale, che avevano avuto
    parte importante nell’affermarsi della formula organizzativa e strategica
    proposta dal "nuovo meridionalismo", avvertono il rischio di una
    compressione del proprio ruolo derivante dalla saldatura tra socialismo
    riformista e cattolici democratici. Il leader indiscusso di questo gruppo,
    Ugo La Malfa, avverte inoltre l’ulteriore possibile saldatura tra
    cattolicesimo democratico e movimento comunista, e si sforza di trovare un
    equilibrio possibile tra i contenuti di una diversa politica economica e la
    nuova configurazione che il sistema politico potrebbe assumere. Qualora,
    infatti, l’equilibrio delle forze si fosse fondato su cattolici
    democratici, sinistra socialista e movimento comunista, sarebbe stata
    compromessa la relazione fiduciaria, alternativa, tra cattolicesimo
    liberale, riformismo socialista e tradizione laica e risorgimentale (nota
    11). Si osservi come l’intero paradigma culturale ed il riferimento
    politico naturale del "nuovo meridionalismo" fossero interamente
    risolti nella seconda tra le due triadi e come l’unico punto di contatto
    tra le due architetture possibili dell’alleanza strategica necessaria
    fosse rappresentato dal Partito repubblicano. Si osservi ancora come il
    tentativo, soggettivo, di Ugo La Malfa rappresentasse l’ipotesi di
    collegare attraverso un personale politico "illuminato"
    l’insieme delle forze in campo mentre, in parallelo, quel medesimo
    collegamento veniva realizzato, sotto un profilo oggettivo, attraverso una
    grande organizzazione capace di assorbire entrambe le prospettive al proprio
    interno, la Democrazia Cristiana. Questa lunga parentesi
    ci ha costretto ad abbandonare il terreno della politica economica in senso
    stretto, ma ci ha anche consentito di segnalare le ragioni che conducono
    all’esaurimento della spinta propulsiva del "nuovo
    meridionalismo". Il successo politico incontrato dalla convergenza
    culturale tra cattolicesimo democratico e movimento comunista impone alla
    politica economica un accentuarsi dei caratteri statalisti nel processo di
    programmazione ed amministrazione della presenza pubblica. Si esauriscono,
    da una parte, i margini per un intervento pubblico "amico" dei
    mercati così come era stato disegnato dai fondatori della Svimez. Quella
    politica, d’altra parte, aveva toccato i propri limiti quando era stata
    posta di fronte al problema del finanziamento dell’espansione industriale
    in un contesto di progressiva liberalizzazione dei mercati finanziari
    internazionali (nota 12). L’opzione di
    canalizzare attraverso gli Istituti di credito speciale un addendum di
    risorse finanziarie, intermediate dalla pubblica amministrazione,
    direttamente verso le imprese impegnate nell’allargamento della base
    industriale nel Mezzogiorno mostrerà la corda nei due decenni successivi.
    Essa, probabilmente, fu condizionata nell’esito negativo anche
    dall’orizzonte più generale che veniva restringendo il campo della
    politica economica nazionale. Si era affermata una singolare miscela di
    intermediazione pubblica nell’uso delle risorse, che spinse Mario Monti a
    parlare dello Stato italiano come "banchiere occulto", e di
    rifiuto sistematico all’integrazione tra il mercato finanziario domestico
    e quello internazionale. Opzioni collegate tra loro dalla mutua necessità
    di isolarsi dal processo più generale di globalizzazione per accentuare il
    carattere di indirizzo politico ed amministrativo sul ciclo economico
    domestico e la necessaria parallela dilatazione del debito pubblico. Testimoniano questa
    profonda degenerazione, ed uno scostamento dai princìpi culturali del
    "nuovo meridionalismo", la crescente farraginosità delle
    procedure e del sistema dei controlli che si leggono nella legge 183 del
    1976 e, in termini ancora più antistorici e plateali, nel molto mediocre
    testo della legge 64 del 1986. Con esse si interrompe la storia positiva
    dell’intervento straordinario. Gli anni Ottanta, inoltre, anche in seguito
    alla legislazione promossa per intervenire sugli effetti del sisma che colpì
    la Campania e la Basilicata all’inizio del decennio, registrano una
    pesante trasformazione della condizione economica meridionale: sovrapponendo
    agli effetti dell’arretratezza un nuovo e diverso meccanismo di formazione
    e distribuzione delle risorse. Al Mezzogiorno che ricercava il catching up
    del Centro-Nord si viene sostituendo, secondo un processo che Paolo Savona
    ha definito come l’effetto "pentola bucata", un Mezzogiorno
    dipendente dai trasferimenti finanziari ricevuti dal Centro-Nord.
    Circostanza che riduce i divari di benessere esistenti nei confronti
    dell’altra sezione del Paese, ma lascia immutati i divari di produttività:
    creando le premesse di una sostanziale marginalità rispetto al nucleo duro
    dell’economia nazionale (nota 13). Lo shock del 1992, che
    interrompe drasticamente il ciclo della dipendenza, apre una stagione di
    marcata deflazione nell’economia meridionale. Alla deflazione si
    accompagna, come era prevedibile, una diffusa crisi strutturale nel sistema
    delle banche, in ragione dell’insolvenza generalizzata che la contrazione
    del volume d’affari alimenta nel sistema delle imprese. Concorre nella
    crisi bancaria l’eredità negativa derivante dalla mancata
    internazionalizzazione del mercato dei capitali, che penalizza il
    Mezzogiorno in misura ancora maggiore, vista la sostanziale estraneità del
    suo sistema imprenditoriale anche al mercato internazionale delle merci,
    nonché la ventennale deformazione dell’attività bancaria, nel credito
    mobiliare, in direzione dei servizi di cassa e valutazione per conto della
    pubblica amministrazione, nell’erogazione di crediti agevolati e
    trasferimenti alle imprese in conto capitale. Si guardi alle dinamiche del
    prodotto interno lordo e dell’investimento pro capite, misurate in
    percentuale delle medesime grandezze osservate nel Centro-Nord, per il lungo
    periodo che separa il 1951 dal 1995 (nota 14).
    La prima fase, quella orientata dai princìpi del "nuovo
    meridionalismo", quando essi erano coerenti con il quadro
    internazionale e sostenuti da un equilibrio politico domestico
    ragionevolmente coerente con la loro applicazione, mostra una sostenuta
    crescita degli investimenti ed una ragionevole crescita del prodotto locale.
    Dagli anni Settanta si inverte la dinamica degli investimenti e si allinea
    ad una sostanziale stazionarietà il livello del prodotto interno: sono gli
    anni della dipendenza economica e finanziaria del Mezzogiorno. Gli anni
    Novanta, infine, segnalano chiaramente come sia in atto un precipitoso
    scostamento dal trend pluriennale di crescita che aveva caratterizzato la
    dinamica del prodotto interno locale rispetto a quello del Centro-Nord: esso
    infatti ritorna ai livelli osservati negli anni Sessanta. Rimane da chiedersi se
    esista, ad oggi, ancora una lezione vitale nell’esperienza del "nuovo
    meridionalismo" ed in che cosa essa debba essere individuata. La prima
    risposta è dovuta con chiarezza ed è affermativa. Nelle ridotte dimensioni
    di questo scritto, si è cercato di mostrare come il "nuovo
    meridionalismo" sia stato piuttosto sconfitto dalle dinamiche profonde
    del sistema economico e politico nazionale piuttosto che da errori interni
    di valutazione o di impostazione. Al gruppo dei suoi eredi, piuttosto che a
    quello dei suoi promotori, deve forse essere contestata la mancata
    percezione delle nuove condizioni date all’indomani della prima crisi
    energetica (nota 15). Come accade quando
    mutamenti strutturali deformano le condizioni dell’ambiente nel quale
    occorre sviluppare una politica economica la grande lezione, ancora feconda,
    che ereditiamo dagli uomini che dettero vita al "nuovo
    meridionalismo" è quella del metodo e dello stile di comportamento. Il
    metodo, ancora tutto da condividere, era e rimane quello di una visione
    generale dei problemi che si intende affrontare: nella prospettiva di
    soluzioni strumentali capaci di raggiungere una dimensione efficace della
    propria applicazione e di essere compatibili con la situazione
    macroeconomica e l’ambiente di riferimento più generale. L’ulteriore
    lezione è quella di scegliere soluzioni che forzino i tempi, imposti dalla
    lenta capacità di adeguamento alle aspettative, dei mercati sui quali si
    interviene ma che non rappresentino una radicale rottura con i princìpi che
    consentono a quei medesimi mercati di funzionare. Perché, in tal caso, come
    dimostrano in negativo l’improduttiva opzione italiana degli anni Settanta
    per l’autarchia dei mercati finanziari e la commistione tra attività
    bancaria ed incentivi finanziari erogati dallo Stato, in una logica di pieno
    dirigismo, gli effetti sono assai diversi dalle aspettative ed i costi,
    includendo anche quelli necessari per ritornare ad un ordinato svolgersi del
    ciclo economico, sono veramente eccessivi. La diffidenza verso le
    potenzialità che il governo assegna alla propria capacità di sostituirsi
    ai mercati e l’esigenza di accelerare il ritmo di espansione del reddito
    prodotto nell’area meridionale, invece di finanziarne un livello fragile
    di benessere attraverso trasferimenti di risorse spendibili ai soggetti
    sociali residenti, sono le due grandi coordinate di politica economica che
    appaiono compatibili sia con le motivazioni alle origini del "nuovo
    meridionalismo", sia con le regole di comportamento suggerite oggi dal
    medesimo organismo cui si richiamavano i suoi fondatori, la Banca mondiale (nota
    16). Senza dimenticare, nella parte ancora vitale di quell’approccio,
    la necessità di creare organizzazioni coerenti con le finalità assegnate
    ed affidarne la guida a soggetti dotati di reputazione e adeguato profilo
    professionale. Circostanze, entrambe, capaci di minimizzare i rischi di
    "fallimento del mercato": le prime perché rappresentano
    esternalità positive per l’intero processo di crescita, i secondi, cioè
    i managers cui vengono delegate funzioni di indirizzo, perché concorrono a
    minimizzare il rischio di azzardo morale implicito nella delega. Non è poco in un
    clima che sembra premiare il metodo della concertazione e del coinvolgimento
    delle parti sociali sul merito delle azioni da intraprendere e sulla
    valutazione analitica dei costi e dei benefici associati a singole scelte
    pubbliche. La globalizzazione del mercato finanziario internazionale e
    l’accettazione dei princìpi enunciati nel trattato di Maastricht, infine,
    impongono di abbandonare ogni suggestione per una politica industriale
    fondata sulla deformazione per via amministrativa dei comportamenti bancari.
    Allargamento del mercato dei capitali, regole chiare per la corporate
    governance, competizione tra banche italiane e banche straniere
    rappresentano il riferimento necessario per la futura espansione industriale
    e, per questo aspetto, rendono assolutamente inadeguate ed obsolete le
    soluzioni di finanza aziendale "amministrata" che riempirono il
    vuoto di proposte del "nuovo meridionalismo" all’indomani della
    crisi energetica del 1973. Riferimenti
    bibliografici AA.VV., Donato
    Menichella, Testimonianze e Studi raccolti dalla Banca d’Italia, Laterza,
    Roma-Bari 1986. Guido Carli,
    Cinquant’anni di vita italiana, Laterza, Roma-Bari 1993. Francesco
    Compagna, La questione meridionale, Garzanti, Milano 1963. Ash Demirguç-Kunt
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    Stylized facts, in "The World Bank Economic Review", Volume 10
    number 2, may 1986. Bruno Leoni, La
    sovranità del consumatore, Ideazione Editrice, Roma 1997. Ross Levine,
    Financial Development and Economic Growth: Views and Agenda, in
    "Journal of Economic Literature", Volume XXXV number 2, June 1997. Massimo Lo Cicero,
    Concentrazione, competizione e crescita: il mercato del credito in Italia,
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    Scritti e discorsi scelti. 1933-1966, Banca d’Italia, Roma 1986. V. Negri
    Zamagni-M. Sanfilippo, Nuovo meridionalismo ed intervento straordinario, Il
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    sviluppo, storia di una credenza occidentale, Bollati Boringhieri, Torino
    1997. Paolo Savona,
    Strutture finanziarie e sviluppo economico, Guerini e Associati, Milano
    1989. Paolo Savona,
    Divari di benessere, divari di produttività, in "Delta",
    maggio-giugno 1984. L. Prosperetti-F.
    Varetto, I differenziali di produttività nord-sud nel settore
    manifatturiero, Il Mulino, Bologna 1991. Andrew Schotter,
    L’economia del libero mercato, Editori Riuniti, Roma 1991. Joseph E.
    Stiglitz, The Rule of the State in Financial Markets, in "Proceedings
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    World Bank 1994. Pasquale Saraceno,
    Il nuovo meridionalismo, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli
    1986. Pasquale Saraceno,
    L’unificazione economica dell’Italia è ancora lontana, Il Mulino,
    Bologna 1988. Pasquale Saraceno,
    Sottosviluppo industriale e questione meridionale, Il Mulino, Bologna 1990. Svimez,
    L’unificazione economica dell’Italia, Il Mulino, Bologna 1997. Svimez, Un
    programma per il Mezzogiorno, Il Mulino, Bologna 1988. F.M. Tamagna-D.
    Qualeatti, Sviluppo economico e intermediazione finanziaria, F. Angeli
    Editore, Milano 1978. World Development
    report 1997, The State in a changing World, The World Bank 1997. Note 1.
    Si vedano Negri Zamagni e Sanfilippo, 1988 e Svimez,1997.(torna al testo)
 2.
    Così come riportato da Rossi-Doria in AA.VV., 1986.(torna al testo)
 3.
    "Nuovo meridionalismo" è una definizione voluta e creata proprio
    dal gruppo che si riunì nella Svimez: le ragioni del nome vengono
    meticolosamente riproposte da Saraceno in molti suoi scritti. Tra gli altri
    si vedano Saraceno, 1986 e Saraceno, 1988.(torna al testo)
 4.
    Guido Carli ritornerà molte volte sulla prospettiva atlantica ed
    occidentale delle élites italiane e sulla funzione positiva che essa
    assolve nello svolgersi della vita nazionale. Si veda Carli, 1993. Le
    caratteristiche tecniche e domestiche della proposta si leggono nei
    contributi di Saraceno riportati in Negri, Zamagni e Sanfilippo, 1988 ma
    anche in Saraceno, 1990.(torna al testo)
 5.
    Si vedano alcuni testi di Menichella raccolti in Menichella, 1986 ma anche
    la relazione di Saraceno e gli interventi di Finoia e Pescatore in AA.VV.,
    1986. Per una ricostruzione più analitica degli effetti di quella stagione
    sulla struttura finanziaria nazionale sia consentito rimandare a Lo Cicero,
    1996.(torna al testo)
 6.
    A Menichella viene fatto risalire un simile giudizio, anche per
    l’influenza che ebbero sulla sua formazione i giudizi di Pantaleoni, così
    come è indicato da Carli sia in AA.VV., 1986 che in Carli, 1993. Dai
    medesimi testi si apprende della diffidenza di Menichella verso una rapida
    liberalizzazione per i flussi internazionali di capitale finanziario.(torna al testo)
 7.
    Nel volume più volte citato (Carli, 1993) è proprio l’ex
    governatore a paragonare quelle operazioni agli impact loan successivamente
    sperimentati dalla Banca mondiale.(torna al testo)
 8.
    La singolarità di un ente, attore dominante della politica
    pubblica ma estraneo ai controlli ed alle procedure della p.a., non sfugge
    ad un liberale dichiarato. Si vedano le pagine 108 e 109 in Leoni, 1997. La
    sua analisi, tuttavia, illumina il rischio di azzardo morale implicito nella
    gestione ed individua, per differenza, i limiti cui era, e sarebbe stata,
    progressivamente sempre più esposta una simile struttura organizzativa.(torna al testo)
 9.
    Si veda Sareceno, 1990.(torna al testo)
 10.
    Una diagnosi lucida ed anticipatrice della nuova agenda di politica
    economica viene proposta da Francesco Compagna; si legga Compagna, 1963.(torna al testo)
 11.
    Ancora una volta occorre citare Carli, 1993, per la ricchezza di dettagli
    autobiografici come per la fredda lucida cronaca di anni che vedevano
    l’allora governatore tra i protagonisti degli eventi descritti.(torna al testo)
 12.
    Tra i pochi contributi che posero la questione della relazione tra finanza e
    crescita, si veda Tamagna e Qualeatti, 1978. Sulla necessaria compatibilità
    tra governo e mercati si veda Shotter, 1991 ma si leggano anche Leoni, 1990
    e Stiglitz, 1994.(torna al testo)
 13.
    Si vedano Savona, 1984 e Savona, 1989 nonché il tentativo microeconomico di
    contestare la tesi di Savona in Prosperetti e Varetto, 1991.(torna al testo)
 14.
    I dati sono esposti in Svimez, 1997.(torna al testo)
 15.
    Si leggano, ad esempio, il testo di Un programma per il Mezzogiorno in
    Svimez, 1988 come Saraceno, 1988 per verificare la distanza ormai esistente
    tra le ipotesi avanzate dalla Svimez e la natura dei problemi da affrontare,
    in Italia e nel Mezzogiorno.(torna al testo)
 16.
    Si vedano il WDR del 1997, i contributi di Kunt Levine, 1986 e di
    Levine, 1997 nonché quello di Stiglitz, 1994.(torna al testo)
 Su molte delle
    questioni sollevate in tema di azioni pubbliche e sviluppo fornisce
    singolari suggestioni la lettura di Rist, 1997. Massimo
    Lo Cicero
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