| 
               
 [IL DOCUMENTO DI BARI]
 La congiuntura e la cronaca dell’autunno 2002
 
 Il profilo del primo semestre 2002 registra sia l’apprezzamento 
              dell’euro sul dollaro che una crescita più lenta del previsto. 
              Queste due circostanze, unite al “gradino” di prezzo che 
              l’adozione dell’euro ha generato sui mercati meno competitivi, 
              potrebbero determinare, nel medio periodo, anche una deformazione 
              dei prezzi relativi ed un peggioramento della capacità produttiva 
              dell’intero sistema italiano.
 In questo caso i danni per il Mezzogiorno, che subirebbe un 
              processo di divaricazione ulteriore rispetto al recesso di un 
              sistema nazionale, slittando in basso nella gerarchia europea e 
              mondiale, sarebbero veramente preoccupanti. Ma, anche se non si 
              verificasse lo slittamento negativo dell’intero sistema, si 
              avrebbe, comunque, una situazione assai critica in Italia e nel 
              Mezzogiorno.
 
 Le elevate dimensioni del cuneo previdenziale e fiscale pesano su 
              tutte le imprese italiane ma scoraggiano, particolarmente, 
              l’espansione o l’avvio di nuove iniziative imprenditoriali nel 
              Mezzogiorno, a meno di stabilire un regime di sgravi in favore 
              delle stesse. Data l’enorme differenza tra tasso di attività e 
              tasso di occupazione tra le due sezioni del Paese, queste 
              circostanze rallentano il riassorbimento della disoccupazione al 
              Sud e consolidano, parallelamente, il tarlo dell’economia sommersa 
              che, a sua volta, genera un’incerta frontiera tra dimensione 
              legale e dimensione illegale della vita civile.
 Quando, in queste condizioni, viene dato corso ad un regime di 
              sgravi fiscali e previdenziali (come era accaduto per il credito 
              d’imposta) si genera un processo di spesa che è incompatibile, nel 
              medio periodo, con un regime rigoroso nella gestione della finanza 
              pubblica.
 
 Se l’investimento genera automaticamente diritti che si possono 
              spendere, in termini di compensazione, per chiudere debiti fiscali 
              e previdenziali, si genera anche una mancata entrata dello Stato: 
              che non è quantificabile a priori per definizione, essendo 
              derivata dalle decisioni imprevedibili delle imprese.
 Se questa fragilità nel sistema della finanza pubblica si affianca 
              al regime della dit (dual income tax), a quello della Tremonti bis 
              ed agli effetti delle possibili rivalutazioni onerose (ma che 
              alimentano ammortamenti successivi) degli assets esistenti in 
              bilancio, si genera, in aggiunta alle mancate entrate da credito 
              d’imposta, una complessiva contrazione delle entrate pubbliche: 
              come testimoniano i bilanci delle principali società italiane, per 
              il 2001, elaborati da Mediobanca.
 
 Il venir meno di queste entrate fiscali, in uno con la finanza 
              espansiva del ciclo che ha accompagnato la lunga stagione 
              elettorale che ha chiuso gli anni Novanta, ha indebolito la tenuta 
              dei conti pubblici. Questo effetto si è ingigantito in ragione 
              della prolungata stagnazione, largamente imprevista in tutti i 
              Paesi europei, del 2002.
 Il tutto si amplifica nel tempo con la mancata ripresa della 
              crescita del Pil, che deprime il gettito atteso.
 La contraddizione in cui versa oggi la finanza pubblica è 
              evidente: da una parte è opportuno applicare una “normativa 
              catenaccio” che impedisca la realizzazione di spese prive di 
              copertura, dall’altra, proprio l’applicazione di quella stessa 
              norma genera effetti iperdeflattivi ed asimmetrici nelle 
              conseguenze territoriali, in un panorama che vede molte misure 
              agevolative indeterminabili nelle conseguenze finanziarie sul 
              bilancio dello Stato.
 
 Paradossalmente si assiste ad una sorta di nemesi degli 
              automatismi. Se si fissano dei tetti di spesa affidando la 
              selezione degli interventi alla tempestività nella presentazione 
              delle richieste spontanee delle imprese è evidente che le imprese 
              grandi e tempestive esauriscono le disponibilità individuate dal 
              tetto di spesa.
 Essendo le imprese grandi e tempestive quelle del Centro-Nord è 
              evidente che si penalizza il già debole tessuto meridionale. 
              Questo problema nasce dal fatto che non si possono avere 
              provvedimenti aperti nelle conseguenze sulla finanza pubblica e, 
              contemporaneamente, un tetto di spesa per singoli capitoli 
              relativi a quei provvedimenti.
 
 Per produrre, in condizioni di emergenza finanziaria, un effetto 
              selettivo in favore del Sud è necessario rendere esplicito un 
              diverso regime fiscale e previdenziale tra le due diverse sezioni 
              territoriali dell’economia nazionale. Ma proprio questo è il punto 
              negoziato assai male dai Governi dell’Ulivo a Bruxelles e sul 
              quale già allora Confindustria è fu costretta a recedere per la 
              decisione di Monti di non ammettere un doppio binario fiscale e 
              previdenziale, neanche come anticipazione di un nuovo e diverso 
              regime unitario nazionale più favorevole al contribuente.
 
 La crisi della copertura finanziaria nelle decisioni 
              d’investimento meridionali è aggravata, infine, per il venir meno 
              del supporto alimentato dalla legge 488, dalle agevolazioni per 
              l’imprenditoria giovanile e femminile e da quelle che alimentavano 
              il prestito d’onore.
 Tutte misure, queste, che sono, al contrario, gestibili per tetti 
              definiti annualmente e per bandi competitivi tra le imprese 
              medesime, per allocarne la destinazione finale.
 
 Il Sud si trova, quindi, stretto tra le due lame della forbice: da 
              una parte esiste un rischio burocrazia nella gestione di 
              provvidenze determinate ex ante e selezionate con riferimento a 
              criteri espliciti; dall’altra esiste un rischio “tagliola” che 
              deriva dalla necessità di non autorizzare provvedimenti di spesa 
              la quantificazione dei quali non sia possibile ex ante.
 Ricadono in quest’ultima tipologia, evidentemente, anche tutte le 
              forme di contrattazione negoziata tra autorità, locali o centrali, 
              e gruppi industriali per il co-finanziamento d’investimenti: le 
              dimensioni dei progetti approvati ed il timing della loro 
              realizzazione sfuggono a criteri di previsione troppo rigidi in 
              termini di liquidità necessaria per le casse pubbliche.
 In molti casi, del resto, quei provvedimenti si autoalimentano con 
              il diritto delle imprese di ritenere parzialmente contributi e 
              versamenti fiscali e, dunque, ricadono essi stessi nelle categorie 
              di spesa a rischio con provvedimenti di blocco della spesa per 
              tetti di periodo.
 
 Emerge chiaramente come questa vicenda derivi dalla sfasatura, che 
              si accentua in periodi di bassa congiuntura, tra bilancio di cassa 
              e bilancio di competenza ed emerge come sia il deficit di cassa, e 
              non quello di competenza, che è quello su cui si misurano gli 
              indicatori del patto di stabilità, che invece determina effetti 
              economici diretti, espansivi o depressivi rispetto alle attese.
 
 Nel lungo periodo, in ogni caso, bisogna ridurre la fragilità 
              strutturale dell’economia meridionale per rendere endogena la 
              capacità espansiva del Sud: questo criterio supporta la decisione 
              di favorire ogni genere di intervento che ecciti la produttività 
              del sistema economico locale.
 Rientrano in questa tipologia di azioni:
 - la creazione di infrastrutture materiali;
 - il potenziamento delle reti per la produzione di energia e per 
              le telecomunicazioni;
 - la riduzione dei costi di monitoraggio ed accesso ai mercati 
              internazionali;
 - il rafforzamento del mercato finanziario locale.
 
 Nel breve periodo bisogna immaginare, ancora e per quanto sia 
              possibile, una rete di protezione per l’economia meridionale e, 
              contemporaneamente, bisogna alimentare il flusso della spesa per 
              risorse comunitarie: che avrebbe effetti compensativi di ordine 
              macroeconomico rispetto alla contrazione della spesa pubblica 
              domestica.
 La rete di protezione andrebbe costruita a partire dall’utilizzo 
              esclusivo di strumenti agevolativi che, tuttavia, andrà certamente 
              rinegoziato con Bruxelles.
 
 L’effettiva adozione di un’agenda di Governo che includa la 
              riduzione del cuneo fiscale e contributivo e che riporti la 
              contrattazione del salario al livello dell’impresa, dove si forma 
              - e si osserva meglio - la dinamica della produttività, renderebbe 
              assai più credibile l’ipotesi che simili “agevolazioni 
              meridionali” rappresentino solo una sorta di laboratorio per un 
              riforma liberale dei mercati del lavoro e della previdenza su 
              tutto il territorio nazionale.
 
 novembre 
              2002
 |