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 [IL DOCUMENTO DI BARI]
 Cause e delle conseguenze del divario tra Nord e Sud
 
 La macroeconomia ci dice che, nel periodo compreso tra il 1996 ed 
              il 2001, il Mezzogiorno cresce ad un ritmo superiore a quello del 
              “triangolo industriale” e dell’intero Centro-Nord. Il Mezzogiorno, 
              tuttavia, cresce meno dell’Italia centrale o dell’Italia del 
              Nord-Est: la mitica “terza Italia” delle piccole imprese, dei 
              distretti industriali e delle banche locali. Partendo da questa 
              evidenza il DPEF 2003/2006 aveva sviluppato un vero e proprio 
              “Progetto Mezzogiorno” che si fonda sull’obiettivo di una 
              sistematica accelerazione della crescita nell’area debole del 
              Paese rispetto a quella osservabile nell’area forte. A supporto 
              dell’obiettivo erano individuati strumenti e misure per attivare 
              sia una dimensione critica di spesa per investimenti capaci di 
              sostenere ed allargare l’accelerazione della crescita che un 
              complesso di misure organizzative e di procedure “premiali” capaci 
              di sviluppare comportamenti coerenti con l’obiettivo di 
              massimizzare gli effetti della crescita potenziale nell’area 
              debole del Paese.
 
 L’impianto logico del DPEF e le misure contenute nel disegno di 
              legge finanziaria, che tengono conto anche del mutato clima 
              congiunturale e delle diverse previsioni per i risultati del 2002, 
              rappresentano i termini di confronto e riferimento per le analisi 
              e le ipotesi di politica economica sviluppate nel seguito. Nel 
              tempo che separa la redazione di queste note dal seminario di 
              Bari, sia il confronto tra i partecipanti alla nostra discussione 
              che la valutazione di nuove proposte emerse dal dibattito 
              parlamentare dovrebbero offrire ulteriori idee e chiavi di 
              interpretazione per i problemi affrontati. Siamo abituati a 
              considerare solo una arcadica rappresentazione della “terza 
              Italia”: una Italia che residuava rispetto a quella della grande 
              industria fordista privata – il triangolo industriale - ed a 
              quella della grande industria burocratica di Stato. Ma questa 
              rappresentazione ha lasciato da tempo il campo ad una nuova e più 
              adeguata percezione.
 
 Nella “terza Italia” si trovano oggi i nuovi protagonisti del 
              mercato mobiliare italiano, come il gruppo Benetton, e le banche 
              che hanno aiutato quei protagonisti a diventare tali: la Popolare 
              AntonVeneta o la Popolare di Verona. Eppure, nella seconda metà 
              degli anni Novanta, nonostante questo sviluppo dell’economia di 
              mercato, quando questi nuovi protagonisti sommano le proprie 
              dimensioni, ed il ritmo della crescita di quelle dimensioni, con 
              le corrispondenti grandezze del “triangolo industriale” 
              l’aggregato sembra più lento del lentissimo Mezzogiorno. In 
              effetti si discute solo del secondo decimale: se il Sud cresce, 
              come media annuale, al 2,1% l’anno il Centro-Nord viaggia 
              all’1,9%.
 
 Non ci troviamo di fronte ad un’accelerazione del Mezzogiorno, che 
              continua ad andare piano, come accadeva da vent’anni, ma solo di 
              fronte al parziale recupero della crisi dei primi anni Novanta. 
              Quando, dopo la svalutazione del 1992, la fine dell’intervento 
              straordinario, e la politica del rigore necessaria per tagliare i 
              traguardi di Maastricht, lo misero veramente in ginocchio. In 
              Italia, al contrario, ci troviamo, di fronte alla crisi della 
              grande industria privata di stampo fordista: che rappresenta il 
              problema più grande della politica economica per il futuro del 
              nostro Paese.
 
 Il problema viene amplificato dalla grande dispersione delle 
              dimensioni industriali: la media italiana non arriva a 4 addetti 
              per unità locale. L’industria fordista in crisi che operava nel 
              “triangolo industriale” ed i nuovi attori economici del Nord-Est 
              sono assai più grandi. Esiste, in altre parole, un problema 
              d’estrema frammentazione del residuo tessuto industriale ed, in 
              aggiunta, il Paese sconta l’esistenza di una declinante capacità 
              di competere sulla scena internazionale, come ha detto Fazio nelle 
              sue ultime “considerazioni finali”. Il commercio mondiale è 
              cresciuto del 45% nella seconda metà dei Novanta e le esportazioni 
              italiane sono aumentate solo del 25%. L’economia italiana, 
              insomma, non attraversa una crisi congiunturale ma deve 
              fronteggiare molti nodi strutturali che vengono al pettine.
 
 Il reddito meridionale continua ad essere alimentato, seppure con 
              minore intensità, da spesa pubblica nazionale e da trasferimenti 
              europei e si nutre della spalla invisibile dell’economia sommersa, 
              dell’arte di arrangiarsi, tradizionalmente diffusa nelle grandi 
              aree metropolitane del Sud, e di abilità e talenti disseminati 
              nella comunità che, con grande fatica, vivono come isole nella 
              corrente. Un’analisi più approfondita sulle componenti e le 
              determinanti della domanda aggregata nel Mezzogiorno dovrebbe 
              anche rivelare quali siano gli effetti che quella domanda 
              aggregata genera sulla struttura produttiva locale: in relazione 
              al tono congiunturale del mercato non locale ed al grado di 
              apertura delle imprese locali agli scambi verso il mercato non 
              locale.
 
 Questa è l’asimmetria territoriale del caso italiano ma essa non 
              cancella, ed anzi per certi versi alimenta, l’asimmetria 
              dimensionale che Fazio ha denunciato come radice della caduta di 
              produttività a livello di sistema. In Italia ci sono moltissimi 
              imprenditori e poche imprese: ci sono circa 4 milioni di imprese 
              ma il numero medio degli occupati non arriva alle quattro persone. 
              La metà di queste imprese ha meno di 10 addetti ma produce più di 
              un terzo del valore aggiunto con un quarto dei lavoratori 
              dipendenti. Un altro quarto dei lavoratori dipendenti si trova 
              nelle imprese con oltre 250 addetti ma produce solo un quarto del 
              valore aggiunto: meno di quanto ne produce la marea sterminata 
              delle piccole imprese.
 
 Nella graduatoria mondiale, che viene redatta ogni anno dal 
              Financial Times, sulle prime 500 imprese, per livello di 
              capitalizzazione sul mercato, nel 2002, ci sono solo 11 imprese 
              italiane. Tutte operano su reti di servizi, nella finanza, nelle 
              telecomunicazioni e nell’intrattenimento, nella produzione o nella 
              distribuzione di energia (Eni, Telecom, Tim, Enel, Generali, 
              Unicredito, Intesaci, San Paolo Imi, Olivetti, Mediaset, Ras).
 La produzione industriale in senso stretto, in Italia, non viene 
              realizzata da imprese quotate, visibili al top della piramide dei 
              mercati finanziari nel mondo. Anche se possiamo essere sicuri che 
              questa pattuglia di leader esista, le dimensioni di questi 
              “campioni nazionali” li tengono in seconda linea sulla scena 
              europea. La morfologia del sistema delle imprese italiane, 
              insomma, è veramente singolare. Esse esistono, producono, 
              assorbono occupazione ma non sono organizzate come strutture 
              stabili ed indipendenti dalla figura dell’imprenditore. Ne segue 
              che esse non possono essere comprate e vendute sul mercato 
              finanziario.
 
 In queste condizioni non esistono né contendibilità del controllo 
              aziendale né la possibilità di utilizzare la ricchezza, che una 
              stabile organizzazione rappresenta, come leva per conquistare 
              altre organizzazioni. Ed infatti, non si può diventare soci di un 
              “distretto industriale” mentre gli “azionisti” di una “filiera 
              industriale”, non avendo titoli rappresentativi di quella 
              ricchezza, non possono utilizzarli per conferirli in altre 
              organizzazioni stabili: al fine di assumerne il controllo e 
              sostituire inadeguati gruppi dirigenti. Ovviamente si possono 
              comprare imprese o realizzare scalate e fusioni: ma bisogna 
              passare per le strade opache del mercato locale, della trattativa 
              da imprenditore ad imprenditore. Oppure bisogna indebitarsi e 
              dilatare enormemente i rischi e, solo in caso di successo, i 
              rendimenti dell’operazione.
 
 La famiglia e l’impresa coincidono assai più di quanto non insegni 
              il marketing finanziario anglosassone: dove corporate e retail 
              sono considerati mercati così distanti da richiedere, a chi vende 
              servizi finanziari, organizzazioni distinte e separate. Le recenti 
              vicende sulla difficile soluzione del caso Fiat supportano questa 
              affermazione. L’assenza di un mercato finanziario, insomma, è 
              insieme la causa e l’effetto della frammentazione organizzativa. 
              O, meglio, quella assenza è solo l’altra faccia dell’inconsistenza 
              organizzativa dell’impresa.  Ai mercati finanziari si 
              sostituiscono il sistema bancario e le agevolazioni erogate dallo 
              Stato. Ma le banche patiscono euforia e depressione: subiscono il 
              ciclo economico e reagiscono in termini prociclici, come ricorda 
              spesso Alan Greenspan. Lo Stato, invece, offre benefici, le 
              agevolazioni, che riducono il costo dei nuovi investimenti. Chi 
              vuole crescere, dunque, riceve un incentivo ad acquistare in 
              proprio nuove macchine e non prende in considerazione l’idea di 
              rilevare un’altra impresa.
 
 Il sistema si avvita su se stesso. Perché le imprese devono 
              gestire ogni volta l’intera parabola della propria crescita, dalle 
              origini alla maturità, e non si possono fare salti in avanti: a 
              meno di non avere al fianco banche amiche ed una fase espansiva 
              del ciclo che le renda euforiche.
 
 novembre 
              2002
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