| 
               
 Un’altra idea del Mezzogiorno
 intervista a Massimo Lo Cicero
 
 La Fondazione Ideazione promuove, domani e venerdì 25 ottobre a 
              Bari, due giorni di confronto sui termini attuali della questione 
              meridionale. Si comincia con un seminario riservato a studiosi, 
              ricercatori universitari, giornalisti ed operatori economici del 
              Mezzogiorno e si prosegue, nel pomeriggio di giovedì 24, con un 
              confronto tra esponenti delle regioni meridionali e delle Giunte 
              comunali di alcune grandi città del Mezzogiorno. La mattina di 
              venerdì 25 si prosegue con un dibattito tra la Fondazione 
              Ideazione, la Fondazione Italianieuropei ed esponenti del governo. 
              Sono previsti interventi di Fabrizio Barca, direttore del 
              dipartimento per le politiche di coesione e di sviluppo; di 
              Gianfranco Miccichè, vice-ministro con delega alle politiche per 
              il Mezzogiorno. Alla manifestazione parteciperanno, per le due 
              fondazioni, due economisti molto impegnati nel dibattito sul 
              Mezzogiorno: Massimo Lo Cicero e Gianfranco Viesti. La due giorni 
              si colloca a cavallo tra le due manifestazioni sindacali, 
              annunciate per oggi e domani, e la riunione di Confindustria, che 
              si tiene a Bari nel pomeriggio di venerdì 25. Che cosa dice 
              sull’economia meridionale e sulle terapie da applicare alla 
              crescita mondiale la Fondazione Ideazione? Ne parliamo con Massimo 
              Lo Cicero, un economista che il pubblico del Denaro conosce bene e 
              che ha contribuito alla redazione dei documenti che la Fondazione 
              propone alla discussione di Bari.
 
 Perché “un’altra idea del Mezzogiorno”?
 
 Per prendere le distanze da due opinioni pericolose che si 
              affermano sulla scena della politica come su quella dell’analisi 
              economica. Le due idee pericolose sono la convinzione che la 
              categoria analitica del divario Nord-Sud sia obsoleta e che il 
              Mezzogiorno sia un problema che si deve affrontare solo in termini 
              di soldi pubblici da spendere il più presto possibile. La prima è 
              un’idea stravagante che ritiene irrilevante la misura della 
              distanza tra le due Italie, mentre la seconda è il suo contrappeso 
              opportunista. In Gran Bretagna la chiamerebbero una politica da 
              “keynesiani bastardi”: spendere perché è meglio farlo, 
              indipendentemente da quello che si realizza con i soldi che 
              vengono spesi. La prima circola in alcuni ambienti intellettuali, 
              la seconda è la mentalità dominante che si difonde nelle 
              amministrazioni pubbliche, nazionali e regionali.
 
 Ma perché è importante riproporre la misura 
              del divario e perché non si dovrebbero spendere rapidamente i 
              fondi disponibili?
 
 Pensiamo alla discussione in corso sul disegno di legge 
              finanziaria. Le condizioni di contorno, cioè la bassa congiuntura 
              internazionale e l’elevata incertezza alimentata dai conflitti 
              potenziali nel Mediterraneo e nel Medio Oriente faranno in modo 
              che quella discussione avrà, in ogni caso, un effetto modesto 
              sulla questione meridionale. Perché il Mezzogiorno rappresenta un 
              problema che non può esser affrontato con le manovre congiunturali 
              di assestamento dei conti pubblici. Ed anche perché i vincoli, che 
              rendono molto difficile l’aggiustamento dei conti pubblici, sono i 
              medesimi che hanno impedito al Mezzogiorno di svilupparsi 
              endogenamente e di superare le proprie patologie. Quei vincoli 
              sono il frutto delle mancate riforme degli apparati dello Stato e 
              delle regole che disciplinano i mercati dei fattori produttivi, 
              cioè i mercati finanziari e il mercato del lavoro. La rigidità 
              finanziaria della macchina pubblica e la fragilità economica del 
              Mezzogiorno sono le due facce, simmetriche, della scelta di 
              ingessare l’economia italiana in una rete di leggi e regolamenti 
              piuttosto che governarla attraverso politiche pubbliche capaci di 
              supportare l’espansione dei mercati. Non sarà facile liberarsi di 
              quella rete. Essa ha generato una vera e propria deformazione 
              negli atteggiamenti individuali e nei comportamenti sociali: la 
              percezione che la politica si riduca ad una concertata spartizione 
              dei fondi pubblici. La crescita fisiologica di un’economia, al 
              contrario, dipende dalle scelte di fondo in materia di opere 
              pubbliche, fiscalità, previdenza sociale, libera circolazione dei 
              mercati e dei capitali, difesa del consumatore e libertà di 
              accesso ai mercati per i nuovi progetti e le nuove idee.
 
 Lei parla di una politica liberale, capace 
              di non essere ciecamente liberista o ambiguamente statalista e, su 
              questo si può anche concordare. Ma perché difendete l’analisi 
              della questione meridionale in termini di divari e non accettate 
              che il Mezzogiorno di oggi sia una realtà contraddittoria, più 
              povera del Nord, ma variegata e capace di crescere?
 
 Leggendo la dinamica del mercato del lavoro in Italia e nel 
              Mezzogiorno si percepiscono due trend molto significativi. Il 
              Mezzogiorno presenta, negli anni Novanta, una caduta progressiva 
              del livello di occupazione, misurato in percentuale degli occupati 
              in Italia che, dal 1999, si trasforma in una lenta ripresa mentre, 
              dal 1993 al 2002, aumenta la disoccupazione del Mezzogiorno, 
              misurata in percentuale della disoccupazione in Italia: anche in 
              presenza di una riduzione in valore assoluto della popolazione 
              meridionale. Questa singolare misura del Mezzogiorno come quota 
              del totale italiano risale, nella pubblicistica economica, al 
              “mitico” capo degli industriali meridionali che producevano 
              energia elettrica, Giuseppe Cenzato. Egli, veneto emigrato nel 
              Sud, utilizzava queste misure per polemizzare contro gli avversari 
              della crescita meridionale. Da questa evidenza statistica si 
              capisce bene che il Mezzogiorno è un sistema economico che non 
              riesce ad attivare la propria capacità produttiva in termini 
              efficienti e lascia, quindi, disoccupate sia le proprie risorse 
              umane che le proprie risorse finanziarie: larga parte dei depositi 
              bancari del Mezzogiorno non si trasforma in impieghi per le 
              imprese di quell’area.
 
 C’è una patologia dell’economia meridionale di cui si leggono i 
              sintomi, ma non si dispone ancora né di una diagnosi attendibile, 
              né di una terapia adeguata. Tre circostanze oggettive rallentano 
              la messa in efficienza della “macchina produttiva” meridionale: - 
              il basso grado di integrazione internazionale delle imprese 
              esistenti, in un contesto mondiale in cui il tratto dominante 
              rimane la tendenza alla globalizzazione dei mercati; - 
              l’inesistenza di banche che abbiano nel Mezzogiorno il proprio 
              “nocciolo duro” in termini di proprietà e radicamento sociale del 
              top management, mentre la proprietà “conta” nelle decisioni 
              strategiche degli intermediari finanziari; contemporaneamente, 
              nessuna delle banche presenti nel Mezzogiorno prevede nella 
              propria agenda operativa il problema di un’espansione delle 
              proprie attività corporate nel Mezzogiorno perché tutte sono alle 
              prese con problemi di razionalizzazione e coordinamento delle 
              proprie strutture interne; - una stagione di bassa congiuntura e 
              di persistente depressione nel breve termine, che non consente 
              alle imprese di affrontare problemi di recupero strutturale della 
              propria inadeguatezza economica, né al governo di cimentarsi 
              adeguatamente con obiettivi di recupero per i divari di benessere 
              e per i divari di produttività che pesano sull’economia 
              meridionale. Insomma, i divari esistono e frenano una crescita che 
              sarebbe in ogni caso difficile; perché le imprese sono troppo 
              piccole e troppo locali, e perché non esistono mercati finanziari 
              capaci di farle crescere. In queste condizioni l’allargamento ad 
              Est dell’Unione Europea condanna ad una vera e propria marginalità 
              geopolitica l’economia e la società meridionali.
 
 Anche Ciampi ha indicato nella disoccupazione il nemico da 
              battere, ma il presidente ha anche indicato nell’Europa lo 
              strumento per vincere questa guerra contro la marginalità e la 
              lentezza della crescita economica meridionale. Il presidente 
              Ciampi ha ricordato i problema, misurando dal grado di 
              disoccupazione l’ampiezza e la gravità sociale del fenomeno, ed ha 
              indicato una terapia intelligente e necessaria che, tuttavia, non 
              è ancora sufficiente: il ricorso più tempestivo ai fondi ed alle 
              provvidenze messe a disposizione dalla politica regionale europea. 
              Quei fondi, per la procedura di carattere sussidiario che ne 
              disciplina l’utilizzazione, non si possono attivare se non in 
              presenza di un cofinanziamento da parte della finanza pubblica 
              nazionale: cofinanziamento che, in tempi di stretta fiscale, non 
              si può probabilmente attivare se non nelle forme spurie della 
              “sponda” con le spese ordinarie della Pubblica Amministrazione. 
              L’obiettivo di una maggiore rapidità e di una maggiore robustezza 
              endogena della crescita, tuttavia, impone di capire le ragioni 
              della patologia meridionale e di attivare la spesa di quei fondi 
              in direzioni capaci di attenuare la negatività di quelle 
              patologie. Se si condivide questa diagnosi, se ne devono trarre 
              tutte le conseguenze logiche e metter in discussione l’imperativo 
              della spesa “a tutti i costi e rapidamente”. Non conta, insomma, 
              la velocità, ma la qualità della spesa di quei fondi e la loro 
              efficacia relativa nella rimozione degli ostacoli allo sviluppo. 
              Temi ed interrogativi, questi ultimi, sui quali non esistono 
              neanche le condizioni di conoscenza di base per potere formulare 
              giudizi razionali. Il tempo per attivare questi processi è 
              drammaticamente breve: perché esso viene limitato oggettivamente 
              dal basso profilo delle congiuntura mondiale prima e, subito dopo, 
              dall’ingresso di nuovi paesi nell’Unione e dalla conseguente 
              diversa articolazione delle politiche regionali alla nuova scala 
              europea. L’individuazione della dote di risorse, disponibili nel 
              disegno di legge finanziaria, per il Mezzogiorno, declassato alla 
              definizione di area sottoutilizzata, conferma l’esistenza di una 
              disponibilità potenziale di spesa, ma riduce la questione 
              meridionale ad un problema che deriva dalla sottoutilizzazione 
              delle risorse finanziarie in termini di velocità della spesa e la 
              scia in ombra due problemi ben più rilevanti: - la natura delle 
              procedure e la qualità degli apparati che determinano il contenuto 
              reale, gli effetti, di quella spesa; - la efficacia di quella 
              spesa, una volta individuata nei suoi risultati effettivi, per 
              contrastare e ridimensionare le tre evidenti manifestazioni della 
              patologia meridionale e le cause della stessa.
 
 E la crisi della Fiat entrerà nelle vostre analisi?
 
 La crisi dell’industria fordista non è cominciata ieri e, 
              paradossalmente, negli anni Novanta Torino ha lavorato per 
              rendersi più autonoma dalla Fiat, mentre la politica economica per 
              il Mezzogiorno ignorava questo tragico appuntamento con la fine 
              annunciata di un modello industriale. Siderurgia, chimica, e 
              meccanica sono le gambe di un processo che, nel futuro del mondo 
              europeo, presenta solo spazi residuali. Questi settori erano la 
              frontiera della crescita nel dopoguerra, ma ora sono la retrovia 
              dell’economia industriale. Negli anni Novanta il Mezzogiorno si è 
              cullato nell’idea che le piccole imprese potessero essere gli 
              attori dello sviluppo meridionale. Essi, per la verità, sono solo 
              i necessari comprimari di grandi imprese e di grandi investitori 
              che devono trovare nel Sud ragioni obiettive per collocare le 
              proprie risorse in progetti innovativi. La Comit, fondata da 
              capitali tedeschi all’inizio del ventesimo secolo, è stata la 
              guida e la base finanziaria dell’espansione delle imprese padane. 
              I meridionali non hanno saputo difendere le proprie banche negli 
              anni Novanta ed ora sono disarmati di fronte agli appuntamenti 
              della globalizzazione.
 
 (da Il denaro 
              del 23 ottobre 2002)
 |