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              Orizzonti 
              della scienza, limiti della politicadi Giuseppe Sacco
 
 Lo scatenamento violento dell’enorme energia contenuta nell’atomo, 
              e di quella ancora più gigantesca ottenibile attraverso la fusione 
              di due atomi, è una realtà tecnologica e militare da oltre mezzo 
              secolo, dapprima con la bomba atomica e poi con quella 
              all’idrogeno. Ed entrambe queste tecnologie rimangono saldamente 
              in mano ad un piccolo gruppo di paesi, fermamente decisi a non 
              farvi accedere gli altri popoli. Tutti invece concordano sul fatto 
              che un “addomesticamento” dell’atomo a fini pacifici, per la 
              produzione di energia elettrica, sarebbe nell’interesse generale. 
              Questo addomesticamento è già riuscito, come è noto, per la bomba 
              atomica, ma non ancora per quella all’idrogeno, dal momento che 
              per essere realizzata all’interno di un reattore, la “fusione 
              termo-nucleare controllata” richiede temperature di 200 o 300 
              milioni di gradi centigradi. Non esiste sulla Terra un contenitore 
              capace di imprigionare il plasma incandescente (gas ionizzato) a 
              tali temperature. L’unica possibilità è quella di contenerlo in 
              strutture dalle pareti immateriali, cioè costituite da forti campi 
              magnetici. E’ quel che accade nel Tokamak una meraviglia 
              tecnologica messa a punto dai sovietici durante gli anni ’60 e poi 
              sensibilmente migliorata dagli americani (Tftr), dai giapponesi 
              (JT60), e dagli europei, che con il loro Joint european torus 
              (Jet), sono riusciti a mantenere per una manciata di secondi la 
              fatidica temperatura di 300 milioni di gradi.
 
 Ottenere queste elevatissime temperature all’interno di un 
              reattore non è però sufficiente ad innescare una reazione di 
              fusione che si auto-alimenti e produca più energia di quanta non 
              ne consumi. Per fare ciò occorre soddisfare tre condizioni, note 
              come “criteri di Lawson”. La prima condizione – come abbiamo visto 
              – è che temperatura del plasma, gas ionizzato di deuterio e 
              trizio, sia estremamente alta. La seconda è che il plasma sia 
              estremamente denso. E – terzo – bisogna riuscire a mantenere 
              queste due condizioni per una durata, detta “tempo di 
              confinamento”, di almeno alcune centinaia di secondi. Attualmente, 
              esistono impianti in grado di realizzare una di queste condizioni, 
              ma nessuno ha potuto finora ottenerle tutte e tre insieme. E’ 
              questo l’obiettivo del progetto Iter (International thermonuclear 
              experimental reactor), avviato ormai da venti anni, e che è giunto 
              ora – sia pure con forte ritardo sulle previsioni fatte a metà del 
              Ventesimo secolo –ad una svolta decisiva: la costruzione di un 
              primo impianto sperimentale, con una potenza di 500 megawatt. 
              L’impianto potrà entrare in funzione nel giro di dieci anni dalla 
              decisione ed essere sfruttato per circa venti. La sua missione è 
              di avvicinarsi il più possibile a quello che – con un concetto 
              derivato dall’economia – viene chiamato il “break even point”, 
              ovvero il punto in cui la fusione termo-nucleare genera più 
              energia di quanta non ne consumi per continuare a prodursi 
              indefinitamente. Risultati ancora più ambiziosi saranno possibili 
              a partire dal 2025 con la costruzione di Demo, un reattore 
              dimostrativo da 800 Mw il cui funzionamento verrà pagato 
              dall’elettricità prodotta. Il passaggio ai reattori commerciali è 
              previsto attorno 2050.
 
 Il progetto dovrebbe costare attorno ai 4,7 miliardi di dollari 
              solo per la costruzione, che dovrebbe richiedere una decina di 
              anni, ed attorno ai 4,8 miliardi di euro per quanto riguarda i 
              costi di esercizio, calcolati su un periodo di venti anni. Si 
              stima inoltre che circa 40 miliardi di euro siano già stati spesi 
              a partire dagli anni Sessanta. Complessivamente si tratta di un 
              costo inferiore solo a quello della Stazione spaziale 
              internazionale, ma come ha scritto il Financial Times “un prezzo 
              assai piccolo per dare al mondo una ragionevole possibilità di 
              disporre, tra alcune generazioni, un’alternativa in campo 
              energetico”. E’ infatti difficile esagerare quando si sottolineano 
              gli straordinari progressi che potrebbero derivare dal passaggio 
              della produzione di energia elettrica attraverso la fissione (cioè 
              la bomba atomica controllata) a quella ottenuta attraverso la 
              fusione termo-nuclerare (cioè la bomba all’idrogeno controllata). 
              La fusione potrà offrire all’umanità una fonte di energia 
              pressoché inesauribile. Le riserve conosciute di litio – 
              l’elemento dal quale verrà ottenuto il tritio necessario al 
              processo di fusione –bastano per almeno un milione di anni. Ed 
              anche il deuterio è così abbondante che un lago di media grandezza 
              potrebbe da solo bastare ad assicurare i bisogni di elettricità 
              del pianeta per migliaia di anni. In realtà, siccome in futuro si 
              giungerà probabilmente a realizzare anche più difficili reazione 
              di fusione, oltre a quella di deuterio e tritio, l’uomo ha a 
              disposizione milioni di anni di riserve utilizzabili.
 
 Rispetto alla realtà odierna della produzione energetica e del 
              conseguente problema ambientale, ci si può limitare a considerare 
              che bastano un chilogrammo di deuterio e 10 di litio per produrre 
              lo stesso quantitativo di energia per il quale un reattore atomico 
              di quelli oggi più avanzati necessita di 500 chili di uranio, 
              mentre una centrale termica brucia cinquemila tonnellate di olio 
              combustibile oppure diecimila tonnellate di carbone. Se il 
              progetto Iter avrà successo, i reattori cui questo primo impianto 
              sperimentale aprirà la strada avranno tre caratteristiche 
              assolutamente positive. In primo luogo, la sicurezza è, nel caso 
              della fusione, nettamente migliore che non con le centrali “a 
              fissione” attualmente operative. La minima fuga di gas che 
              potrebbe inquinare l’ambiente provoca infatti una brusca caduta 
              della temperatura: la macchina inevitabilmente si raffredda ed il 
              processo si ferma. Per quel che riguarda le scorie, che 
              costituiscono il principale aspetto negativo delle centrali oggi 
              in uso, i rifiuti radioattivi generati dalla fusione non solo sono 
              assai scarsi, e trattenuti all’interno dell’impianto, ma sono 
              anche di attività radiante piuttosto bassa, e la durata è 
              infinitamente più corta degli avanzi del materiale radioattivo 
              della fissione. Mentre alcuni dei residui delle attuali centrali 
              hanno bisogno di migliaia di anni per dimezzare la loro attività, 
              il tritio, che è il principale prodotto della fusione, ha un tempo 
              di vita media di circa 15 anni. Infine, per quel che riguarda le 
              materie prime, esse sono, a differenza dell’uranio, disponibili 
              ovunque.
 
 Per la realizzazione del progetto Iter, si sono associate l’Unione 
              Europea, gli Stati Uniti, la Russia, il Giappone, la Cina, il 
              Canada, e la Corea del Sud. Purtroppo, però, il progetto, anziché 
              coalizzare tutto il mondo tecnologicamente avanzato, soffre fin da 
              oggi delle rivalità tra i vari paesi, per ragioni eminentemente 
              politiche, ed estremamente miopi. Due siti sono infatti in 
              concorrenza per la costruzione dell’impianto. E’ innegabile che 
              l’Europa, per il suo grado di avanzamento tecnologico in questo 
              campo, sia la naturale candidata ad accogliere l’impianto, a 
              Cadarache, in Costa Azzurra. Ma anche il Giappone si è fatto 
              avanti, proponendo il sito – piuttosto insicuro – di 
              Rokkasho-Mura, dove sono concentrate gran parte delle sue capacità 
              atomiche. Sino a qualche mese fa, non sembravamo esserci molti 
              dubbi che l’impianto sarebbe stato costruito in Europa. Solo un 
              meschino ricatto spagnolo aveva gettato un’ombra sull’unità degli 
              europei, con l’insistenza di Madrid per ottenere, nel quadro della 
              ripartizione del lavoro tra europei, contratti particolarmente 
              favorevoli per la sua arretratissima industria atomica. Ora, la 
              vera novità viene invece dall’America, che nelle fasi finali della 
              presidenza Bush sarebbe tentata – come scrive il quotidiano 
              britannico Financial Times, certo non sospetto di un atteggiamento 
              pregiudizialmente favorevole ai francesi – di favorire la 
              localizzazione giapponese per “punire” la Francia, colpevole di 
              non essersi prontamente schierata con Washington nell’avventura 
              irachena.
 
 E’ evidente la sproporzione tra i motivi che dettano il 
              comportamento di alcuni paesi ed il carattere epocale del 
              progetto. Tra qualche anno pochi si ricorderanno dei dissensi 
              sull’Iraq e sulle presunte armi di distruzione di massa; anzi, 
              come ha scritto su Time il falco neo-conservatore Charles 
              Krauthammer, persino “l’effetto 11 settembre sta svanendo”. 
              Invece, del reattore Iter si parlerà a lungo. Se esso avrà 
              successo, si potrà passare tra una decina d’anni alla 
              progettazione e costruzione di vere e proprie macchine “di 
              potenza” e poi verso la metà del secolo alla eliminazione totale 
              dell’uso dei combustibili fossili, che producono il riscaldamento 
              ambientale, e delle centrali atomiche, che determinano l’accumulo 
              nel pianeta Terra di veleni ineliminabili e di fatto ingestibili. 
              Una tale sproporzione tra comportamenti politici e orizzonte del 
              progetto non è credibile. Forse bisogna pensare piuttosto ad una 
              più comprensibile rivalità nascente tra l’Europa e gli altri 
              grandi attori globali per accaparrarsi la leadership in un campo 
              della tecnica di importanza assolutamente cruciale. Comunque, se 
              per pietose ripicche il progetto Iter dovesse essere ritardato, o 
              addirittura naufragare in quanto progetto mondiale, esso sarebbe 
              certamente ripreso dall’Unione Europea, tanto più che già oggi si 
              prevede che il 50 per cento delle spese venga comunque sopportato 
              dal paese ospite, in questo caso la Francia.
 
 Non è chiaro invece cosa farebbero gli Stati Uniti, che riguardo 
              al progetto Iter si sono impegnati a sostenere solo il 10 per 
              cento delle spese (quanto la Corea del Sud!), e soprattutto Russia 
              e Cina che oggi sostengono la posizione di Bruxelles, dove la 
              Commissione ha dichiarato che andare avanti da soli è “dal punto 
              di vista finanziario, fattibile”. Il progetto unitario appare 
              indubbiamente come quello più logico. Ma c’è da tener presente che 
              – nei progetti internazionali di ricerca scientifico-tecnica – 
              quanto più alto è il numero dei paesi partecipanti, e soprattutto 
              quanto più diversi sono i loro obiettivi e le loro culture, tanto 
              più grandi sono le difficoltà di gestione, le duplicazioni di 
              costo e le inefficienze. Dal lato dei benefici, poi, è evidente 
              che la scelta del sito di Cadarache accentuerebbe ancora di più la 
              trasformazione di un’area – la Costa Azzurra – assai vicina 
              all’Italia, in uno straordinario centro di eccellenza 
              intellettuale e tecnologica dal ruolo, nei prossimi decenni, 
              probabilmente superiore a quello di Silicon Valley o di qualsiasi 
              delle sue imitazioni. Le prospettive, insomma, sono abbastanza 
              straordinarie da rendere conveniente per il nostro paese uno 
              sforzo di partecipazione anche più grande di quello che Roma ha 
              già previsto nel quadro dell’originario progetto a partecipazione 
              universale.
 
              
              	24 febbraio 2004
 sacco_g@tin.it
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