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              L’economia del calciodi Mauro Marè
 da 
              Ideazione, marzo-aprile 2003
 
 «Oggi si corre molto, troppo, per compensare la mancanza di 
              tecnica. E questo è un male generalizzato. Guardo le partite e non 
              distinguo la grande squadra da quella piccola. Tutti corrono allo 
              stesso modo. Ed è proprio su questo punto che si sbagliano tutti. 
              A correre deve essere il pallone, non i giocatori. Ma per fare 
              questo bisogna saper controllare la palla».
 
 Nella prefazione al bellissimo libro di Javier Marías, Selvaggi e 
              sentimentali: parole di calcio, Paul Ingendaay ricorda che Albert 
              Camus aveva affermato che tutto quanto di importante sapeva sulla 
              morale umana lo aveva imparato dal calcio. Pascal Boniface afferma 
              invece in un suo libro recente che «le football est certainement 
              le phénomène le Daily universel aujourd’hui, beaucoup Daily que la 
              démocratie ou l’économie de marché». In effetti, il ruolo che il 
              calcio esercita come cemento dell’identità nazionale di un Paese è 
              immenso; esso è stato spesso nascosto e trascurato, alle volte 
              negato e criticato, ma da qualche tempo lo si è accettato e anzi 
              studiato. Il calcio è diventato un elemento fondamentale 
              dell’identità nazionale, ha modellato la mente dei diversi popoli 
              fissando alcuni momenti essenziali dell’identità collettiva. Ha 
              sostituito forme antiche di competizione – compresa la guerra, per 
              nostra fortuna – ha convogliato l’orgoglio dei popoli e delle 
              nazioni in una disputa internazionale limitata al piano sportivo e 
              pacifica ma che ha un valore simbolico rilevantissimo. Esiste 
              un’evidente geopolitica del calcio, che si compone di conflitti, 
              di affermazioni dell’identità nazionale, di esacerbazione delle 
              passioni nazionali, di trasposizione nel dominio sportivo delle 
              ambizioni più nascoste e misteriose dei popoli.
 
 Chiedete in giro: non tutti – dovrei dire pochi – ricordano le 
              date fondamentali della nostra Repubblica ma quelle delle 
              battaglie calcistiche più famose, da Italia-Germania del 1970 in 
              Messico, fino a Italia-Brasile e Italia-Germania in Spagna nel 
              1982, o ancora a Brasile-Italia nella finale Usa, per non parlare 
              di Italia-Corea, sono scolpite nella memoria collettiva e 
              individuale di tutti noi, comprese le formazioni, i gol e le 
              emozioni. Ancora più forti sono poi i ricordi legati alla squadra 
              del cuore, specie quando si tratta di squadre che non hanno la 
              fortuna di vincere molto. Chiedete ai napoletani cosa sono stati i 
              due scudetti con Maradona. Sono certo che fra le date più 
              importanti della loro vita vi indicheranno quelle dei due 
              successi.
 
 È difficile capire perché il calcio affascina così tanto. Anche 
              noi stessi, prima tifosi e poi analisti del fenomeno, non 
              riusciamo il più delle volte a dare una spiegazione razionale o 
              coerente a tutto ciò. Agli occhi del disincantato e dell’infedele 
              appare assurdo che si possa avere fede in una Spa. Non riusciamo a 
              spiegare alle nostre mogli, madri, sorelle e figlie perché questo 
              virus tra il sabato e la domenica si accende e rovina le nostre 
              vite e in larga parte anche le loro. Anzi, col passar del tempo il 
              morbo le sta contagiando e si sta diffondendo anche all’universo 
              femminile. Emancipazione? Parità dei sessi? Ripiegamento sul 
              modello maschile? Oppure più semplicemente, il fascino del calcio 
              è talmente forte che non si può resistere. Né serve stare lontano, 
              non sentire o non vedere, perché come tutti sanno è peggio, la 
              testa è comunque altrove, e quindi tanto vale rassegnarsi e 
              lasciarsi andare ed essere spettatore. A mo’ di confessione 
              personale devo dire che la lettura del libro Tifosi Dop di Angelo 
              Bocconetti, con cui condivido un’angoscia comune che si ripete da 
              43 anni, mi ha riportato alla memoria cose e fatti che avevo 
              completamente dimenticato e mi ha permesso di effettuare «il vero 
              recupero settimanale dell’infanzia», di riassaporare quella parte 
              di follia che si è sviluppata a partire dai cinque anni. E la cosa 
              sorprendente è che per lo più è sofferenza allo stato puro, un 
              misto di paura e di rabbia pronta ad esplodere alla prima 
              ingiustizia. Infatti, eccetto che per due o tre squadre, i tifosi 
              italiani degli altri club sono sostenitori delle teorie più 
              strane, in particolare di quella del complotto, per non parlare 
              della questione arbitrale. E c’è poco da fare: una volta 
              contagiati non si guarisce. Si cambia idea politica, si possono 
              cambiare gusti e preferenze su molte cose, ma è impossibile, una 
              volta fatta la scelta, cambiare squadra.
 Scrive Nick Hornby, che di follia e di angoscia se ne intende, un 
              altro che ha «speso un sacco del suo tempo libero a logorarsi 
              miserabilmente al freddo», che d’altro canto «gli ossessionati non 
              hanno scelta; in occasioni come queste devono mentire. Se 
              dicessimo sempre la verità, non riusciremmo a mantenere rapporti 
              con chi vive nel mondo reale» .
 
 E quello che è terribile è che in fondo lo sappiamo che tutto ciò 
              serve a poco. Gli altri non capiscono, ci guardano con disprezzo, 
              con uno sguardo che associa alla compassione l’anatema morale e 
              intellettuale, uno sguardo che ho visto mille volte sul viso degli 
              altri, ogni volta che ho confessato la mia debolezza. Ma devo dire 
              che questo sguardo viene annullato da quello dei contagiati nei 
              momenti di felicità, quando la nostra squadra realizza un gol o 
              vince una competizione importante; viene guarito dallo sguardo del 
              compagno di avventura o di sedia che incrociamo quando succede 
              quello che aspettiamo any given sunday. Ma fin qui la passione e 
              il tifoso. Cerchiamo adesso invece di ragionare e di dare voce 
              all’analisi e all’interpretazione dei fatti.
 
 La crisi del calcio
 
 Negli ultimi anni il calcio ha vissuto un po’ dappertutto momenti 
              di difficoltà. La diffusione delle tecniche televisive e degli 
              eventi mediatici, la possibilità di fruirne in modi largamente 
              nuovi, la segmentazione degli orari dei campionati, la crescita 
              delle risorse televisive e pubblicitarie convogliate nel calcio, 
              tutto ciò ha definitivamente trasformato lo sport professionistico 
              più popolare del mondo in un vero e proprio business, come era già 
              avvenuto diversi anni fa per gli sport professionistici negli Usa. 
              Ma questa trasformazione non ha ancora avuto i riflessi necessari 
              nei comportamenti dei principali operatori del mondo del calcio, 
              che ne sono consapevoli ma sperano di ritardare il cambio di 
              sistema, né questo aspetto è ancora chiaro ai tifosi. La logica 
              del business, la legge del mercato stenta ancora ad affermarsi.
 
 Il calcio da fenomeno popolare, sportivo e di intrattenimento ha 
              assunto le sembianze di un’attività economica vera e propria, di 
              un’industria con natura e caratteristiche molto particolari, dove 
              l’offerta, ma prima ancora la produzione del bene, avviene 
              combinando in modo speciale, forse magico, i diversi fattori della 
              produzione. Ma è anche un settore dove le ragioni del profitto e 
              dell’equilibrio contabile devono fare i conti con quelle del 
              cuore, del tifo appassionato. Per molto tempo, le regole di 
              mercato e il vincolo di bilancio semplicemente non sono esistiti. 
              Il proprietario metteva di suo, rischiava il patrimonio personale. 
              In parte è ancora così, ma con l’allargarsi della dimensione 
              economica e del volume d’affari, con le quotazioni, il calcio è 
              stato obbligato a crescere, a cercare nuove risorse e nuovi 
              capitali, ad andare in borsa e a differenziare le entrate – che un 
              tempo provenivano essenzialmente dai botteghini dello stadio – con 
              la vendita di oggetti e la promozione del marchio, col 
              merchandising, con l’investimento nelle infrastrutture sportive in 
              cui si svolgono gli eventi. Ma al tempo stesso, negli ultimi anni 
              il calcio si è anche gonfiato in modo abnorme e adesso ha di 
              fronte a sé due strade: sgonfiarsi gradualmente, con opportune 
              misure, il più possibile rispettose del mercato, evitando la 
              catastrofe, ritornando alla normalità contabile, economica e 
              televisiva; oppure esplodere, con conseguenze rilevanti, per i 
              consumatori e i tifosi, sul piano industriale, economico e 
              sociale. Che fare? Come si è giunti a questa situazione? Chi sono 
              i responsabili della crisi? Poteva essere evitata? Qual è 
              l’interesse pubblico, se ne esiste uno, in questa vicenda? Vediamo 
              i punti principali.
 
 Gli errori gestionali e finanziari
 
 Lo stato di crisi e le difficoltà finanziarie del soccer sono da 
              attribuire a numerosi fattori – parlo di soccer perché è una 
              vicenda non solo italiana, anche se all’estero non si è arrivati a 
              questi eccessi e da tempo sono stati introdotti efficaci 
              correttivi. Si deve partire, in primo luogo, dalla gestione 
              economica e finanziaria delle società, che negli ultimi anni è 
              stata carente, alquanto miope e disinvolta. Si sono pagati troppo 
              i giocatori, questo è innegabile, si è assistito ad un’escalation 
              dei prezzi e delle remunerazioni che non ha precedenti nella 
              storia del calcio. Il compenso medio lordo per calciatore, nella 
              serie A italiana, è passato da 782 a 2.160 milioni di lire tra il 
              1994/95 e il 2001/02; nel 1995, i calciatori con un salario 
              superiore ai 2 miliardi erano circa il 7,4 per cento del totale 
              mentre nel 2002 raggiungevano circa il 30 per cento.
 La colpa non è però solo dei calciatori, essi hanno approfittato 
              del miscuglio di procuratori, intermediari, sponsor, dirigenti e 
              mercato drogato – doping in senso stretto compreso. I calciatori 
              potevano fare poco e hanno in definitiva firmato contratti 
              regolari. Condannarli per gli eccessi è un atteggiamento 
              demagogico, hanno ragione se si difendono e sostengono che sono in 
              buona fede, anche se non sono un valido esempio dal punto di vista 
              sociale.
 
 È vero, come vedremo più avanti, che hanno approfittato della 
              rendita che il mercato delle superstar ha permesso loro. Ma 
              l’evoluzione della domanda e dell’offerta andava in quella 
              direzione e non era facile fermarsi spontaneamente o limitarne gli 
              effetti più negativi. Se i presidenti hanno offerto quelle cifre 
              perché non accettarle. Certo devono convincersi che la festa è 
              finita, che il mercato del lavoro del futuro sarà molto diverso, 
              che l’intero sistema calcio sarà costretto a ridimensionarsi e a 
              rispettare regole contabili e leggi di mercato. Il calcio non può 
              pretendere di venir esentato dalle regole della concorrenza o da 
              quelle di un’ordinata e trasparente gestione economica.
 
 D’altro canto, fa un certo effetto l’apprendere che un giocatore 
              possa percepire 6 milioni di euro netti a stagione; la cifra 
              appare spropositata, senza un fondamento relativo, fuori da ogni 
              logica. Ma allora questo gioco dello “scandalo” dovrebbe essere 
              applicato anche ad altri settori molto più “seri” sul piano etico 
              e sociale: ad esempio, i manager di alcune imprese private, 
              soprattutto di fronte a responsabilità gravi sul piano della 
              trasparenza nei confronti degli azionisti, a frodi e quant’altro. 
              Con questo ragionamento non se ne esce.
 Il mercato degli stipendi si è gonfiato, drogandosi. Invece che 
              rendersi conto della bolla, i dirigenti hanno seguito l’evoluzione 
              delle quotazioni sulla base di previsioni di entrate future da tv, 
              da diritti di vario tipo del tutto errate e falsate. L’aumento 
              vertiginoso delle entrate che il calcio ha avuto negli ultimi 5 
              anni è stato in larga parte trasferito ai giocatori, questo è il 
              vero problema, anziché a investimenti e al risanamento economico e 
              contabile. In Italia gli stipendi dei giocatori, in percentuale 
              del fatturato, sono passati dal 57 per cento del 1996, ad oltre il 
              75 per cento della metà del 2002. Una crescita vertiginosa, mentre 
              negli altri Paesi europei, dopo gli anni iniziali di crescita, già 
              da due anni si sta tornando indietro (in Germania siamo al 50 per 
              cento, in Inghilterra al 60 per cento. Se si considera l’intero 
              personale, compresi gli allenatori e i dirigenti, si sono 
              raggiunte cifre esorbitanti, insostenibili sotto qualsiasi punto 
              di vista (si veda la Tavola 1). Infatti siamo in media vicini al 
              90 per cento in termini di volume d’affari, con punte però per il 
              Piacenza del 173 per cento, per l’Empoli del 148 per cento, per la 
              Lazio e il Parma del 110 per cento, per l’Inter del 108 per cento, 
              fino al 79 per cento del Milan, al 77 per cento della Juventus e 
              al 68 per cento della Roma – anche se il Parma, la Juventus, 
              l’Inter e la Roma sono nell’ordine le squadre che più di tutte 
              hanno utilizzato lo strumento delle Dailyvalenze relative alla 
              compravendita dei giocatori.
 
 E quando le entrate, soprattutto da tv, sono venute meno – per la 
              crisi che paradossalmente lo stesso calcio ha determinato nelle tv 
              a pagamento – allora la bolla è scoppiata. L’avvio ritardato del 
              campionato nel settembre scorso, le resistenze delle pay-tv a 
              pagare prezzi ormai non sostenibili, l’assetto del mercato in 
              evoluzione delle tv a pagamento, con la struttura duopolistica 
              ancora incerta e instabile e la dipendenza vitale delle società 
              calcistiche dalle risorse televisive, tutto ciò ha prodotto un 
              avvitamento profondo del sistema calcio. Stream e Telepiù non sono 
              state in grado di offrire prezzi che potevano garantire le 
              campagne acquisti delle società, anzi le risorse a disposizione 
              non riuscivano a garantire l’esistenza stessa di alcuni club e la 
              vicenda è solo agli inizi. Lo squilibrio tra grandi e piccoli 
              squadre, l’asimmetria che esiste nel finanziamento del nostro 
              calcio, ma anche l’inevitabile interdipendenza tra le diverse 
              società, sono perciò emersi in tutta la loro evidenza. Il problema 
              di fondo, almeno nel breve periodo, non è lo sviluppo delle 
              entrate, la loro diversificazione, che resta comunque un fattore 
              importante, ma il contenimento dei costi, riportare il calcio a 
              cifre e dimensioni credibili e sopportabili. L’aumento delle 
              entrate era ed è chiaramente importante, come hanno cercato di 
              fare molti club europei, sviluppando il merchandising, 
              trasformando lo stadio in luogo multiattività e soprattutto 
              acquistandolo, oppure valorizzando il marchio della società. 
              L’elemento cruciale per le entrate è la diversificazione, 
              soprattutto in un contesto che vede una riduzione di quelle 
              televisive e una relativa stabilità (sarà ancora così in futuro?) 
              di quelle tradizionali da botteghino. La diversificazione richiede 
              però tempo, presuppone una trasformazione radicale della mentalità 
              del calcio italiano, necessita di una rivoluzione copernicana 
              nelle abitudini dei tifosi italiani, come anche nell’efficacia 
              dell’azione pubblica di tutela dell’ordine pubblico e di 
              repressione delle frodi. Basti pensare, come qualsiasi 
              frequentatore degli stadi sa benissimo, cosa potrebbe succedere se 
              si decidesse di aprire strutture ricreative – ristoranti, bar, 
              negozi, cinema, ecc. – prima di un derby o in occasione di un 
              match importante; oppure, quali prospettive possono avere 
              strategie di merchandising aggressive, quando larga parte dei 
              prodotti venduti non sono originali e derivano da mercati 
              sotterranei e paralleli, spesso stranieri.
 
 Ma l’evoluzione del quadro finanziario del calcio richiedeva 
              comunque un contenimento dei costi. Contenimento che era, sia 
              chiaro, difficile da raggiungere, richiedeva lungimiranza e 
              compromessi. I presidenti, anziché abbandonarsi all’azione 
              individuale e trovarsi coinvolti in una concorrenza, poco sensata 
              sul piano economico, a comprare a suon di milioni la star del 
              momento – che però rendeva sul piano della popolarità e del 
              consenso dei sostenitori – avrebbero dovuto parlarsi e trovare un 
              accordo che calmierasse il mercato; avrebbero dovuto fissare un 
              limite all’escalation delle quotazioni, oppure convergere su 
              qualche forma di salary-cap, come nel football e nel basket 
              americano.
 
 I diritti televisivi
 
 Un ruolo particolare ha naturalmente avuto il mondo della tv, sia 
              quella in chiaro, sia quella criptata. Infatti, a partire dagli 
              anni ’60, ma in particolare negli ultimi cinque anni, il ruolo 
              della televisione nel calcio è cresciuto in modo impressionante. 
              Essa svolge una funzione decisiva di stimolo e di traino del 
              business calcistico e del suo indotto, ha reso possibile 
              un’amplificazione enorme degli eventi e delle competizioni 
              trasmettibili, ha permesso di raggiungere un numero di persone 
              fino a qualche anno fa inimmaginabile.
 
 La questione di fondo che ha animato l’avvio del campionato 
              quest’anno sono le risorse che le pay-tv e la Rai dovrebbero 
              pagare alle società e alla Lega. Innanzitutto anche le tv sono in 
              crisi. Gli stessi errori commessi dalle società di calcio nella 
              previsione delle entrate, sono stati anche fatti dai dirigenti 
              delle società televisive, in particolare di quelle a pagamento, 
              sicuri della crescita dei ricavi pubblicitari e degli ascolti. In 
              un Paese campione della falsificazione e dell’economia sommersa, è 
              poi “normale” che circa la metà degli spettatori abbia visto gli 
              incontri in modo illecito. Non si poteva fare qualcosa di più? La 
              repressione della frode – rectius, dell’illecito amministrativo – 
              poteva essere sicuramente potenziata. Ecco una buona ragione per 
              l’intervento pubblico.
 
 Ma tornando ai diritti tv, il quadro che si sta delineando è 
              quello della relativa incapacità delle risorse televisive – in 
              forte diminuzione – a finanziare un bene sempre più costoso come 
              il calcio, soprattutto di fronte all’esplosione del costo del 
              lavoro. Sarà necessario scovare nuove risorse e forse, seguendo 
              l’esempio americano e inglese, trovare nuovi equilibri di 
              finanziamento e di assetto industriale. Ma, come già detto, si 
              dovrà soprattutto agire sul piano dei costi.
 
 Una prima questione interessante è quella di chiedersi se sia 
              sensato imboccare la strada americana, che porti alla soluzione di 
              leghe chiuse ed ermetiche. Nel futuro del calcio europeo e di 
              quello italiano c’è una sua americanizzazione? Penso e soprattutto 
              spero di no; mi sembra che in Italia non vi siano le condizioni 
              sociali e culturali per intraprendere tale direzione, ma il caso 
              americano solleva questioni che varrebbe la pena di discutere 
              meglio. In secondo luogo, sembra ormai irrinunciabile introdurre 
              qualche forma di cap o di accordo sulle remunerazioni. Le spese 
              per i talenti rappresentano ormai più dei 3/4 del fatturato dei 
              club di serie A. Ogni tetto può produrre distorsioni nel mercato, 
              un accordo collettivo sulle remunerazioni può essere visto come un 
              cartello o come una distorsione del mercato del lavoro o una 
              limitazione della sua flessibilità, ma in questa situazione può 
              anche avere l’effetto positivo di evitare competizioni 
              distruttive. La questione rilevante è la vendita dei diritti 
              televisivi poiché ha conseguenze sul futuro del calcio stesso. 
              Forse andrebbe ripensata la vicenda della vendita collettiva dei 
              diritti da parte della Lega a posto di quella separata da parte 
              dei singoli club. Se è giusto il principio che afferma 
              l’individualità dei diritti, che non possono che appartenere ai 
              singoli club, che sono quelli che organizzano l’evento e ne 
              sopportano le spese, si deve anche tenere conto della specificità 
              del “bene calcio”. Il prodotto commerciale è sì la singola partita 
              ma anche il campionato nel suo insieme. L’evento calcio, più che 
              la partita individuale, è l’intero campionato, composto dagli 
              incontri di tutte le squadre. Vanno perciò forse riesaminate le 
              modalità di vendita dei diritti e dei meccanismi di mutualità e di 
              redistribuzione delle entrate. Anche perché una squadra famosa può 
              anche spuntare un prezzo elevato, ma senza Como, Brescia e Chievo 
              non esisterebbe più il campionato. Se queste squadre decidono di 
              non giocare, si può dire addio al campionato. Se sono troppo 
              deboli, il campionato perde di interesse perché è scontato il 
              vincitore e quindi crollano le entrate a vario titolo. Se 
              falliscono il danno è ancora maggiore. Quindi v’è un interesse 
              collettivo a far sì, anche da parte dei grandi club, che quelli 
              minori abbiano risorse per vivere e partecipare al campionato e 
              che questo sia il più equilibrato possibile.
 
 La particolare natura del bene calcio: 
              vincere senza dominare
 
 È un aspetto evidenziato da Neale nel 1964. Il calcio, come altri 
              sport professionistici, è intrinsecamente differente dagli altri 
              business tradizionali. Infatti, in ogni industria le imprese 
              cercano di conquistare quote di mercato a scapito dei concorrenti, 
              esse avranno maggior successo se riescono ad eliminare la 
              concorrenza e ad acquisire un certo grado di monopolio. Ogni 
              impresa cerca di far fallire le altre e dal fallimento trae 
              elementi di affermazione. Nel calcio non è così: il bene venduto 
              non è la singola partita ma anche – dovrei dire soprattutto – il 
              campionato nel suo insieme.
 
 Se alcune imprese “falliscono” si hanno conseguenze rilevanti sul 
              campionato. Vi sono degli spillover evidenti e ciò a causa della 
              natura congiunta della produzione del bene calcio. Sì 
              naturalmente, un’impresa fallita può essere sostituita da 
              un’altra, ma il collegamento forte con il territorio, la 
              tradizione calcistica italiana molto legata alle varie città e 
              alla realtà locale rendono il prodotto scarsamente sostituibile. 
              Se scompare una squadra svanisce la domanda e con essa anche 
              quella per le prestazioni delle altre squadre più forti. È 
              legittimo voler vincere il campionato ma le grandi squadre sanno 
              bene che conviene farlo senza dominare, anzi con una dose di 
              incertezza più o meno grande.
 
 Vive la concurrence: l’importanza di un 
              competitive balance
 
 L’equilibrio tra le squadre è fondamentale. Campionati squilibrati 
              attraggono meno spettatori, diversamente l’incertezza genera 
              suspense e interesse. Il migliore esito finale, forse non per la 
              salute dei tifosi, è sempre quello dell’assegnazione del titolo 
              all’ultima giornata, della selezione delle squadre retrocesse 
              all’ultimo match. La riduzione del grado di concorrenza può avere 
              effetti negativi sulla domanda di biglietti da stadio e di eventi 
              pay-tv; essa può anche ridurre gli incassi da pubblicità e da 
              sponsorizzazioni. Nel calcio non è remunerativo accumulare talenti 
              fino al punto in cui svanisce l’incertezza dell’esito delle 
              partite, in cui la competizione ne risulta sostanzialmente 
              ridotta. Oltre un certo punto, avere troppe star presenta 
              rendimenti decrescenti. La mutualità tra squadre non è un regalo 
              delle grandi e potenti alle piccole, ma un meccanismo necessario 
              per la sopravvivenza delle stesse grandi squadre, senza il quale 
              il calcio finirebbe per tutti, anche per loro.
 
 Vi sono alcuni lavori che evidenziano che il grado di concorrenza 
              può avere effetti sulle risorse ottenibili, sulle performance 
              delle squadre nei tornei internazionali e sulle squadre nazionali. 
              Marques (2002) ha messo in evidenza negli ultimi anni una crescita 
              della competitive balance nel campionato portoghese, anche se 
              risulta accresciuta al tempo stesso la differenza tra la squadra 
              più forte e quella più debole. Haan-Koning-van Witteloostuijn 
              (2002) trovano invece sorprendentemente che l’avvio della 
              Champions League con le nuove regole e la Sentenza Bosman non 
              hanno prodotto significative variazioni della competitive balance 
              dei tornei nazionali, mentre hanno accresciuto le differenze 
              qualitative delle competizioni internazionali. La decisione 
              recente dell’Uefa, di rivedere il sistema di fees relativi ai 
              trasferimenti dei giocatori è una sorta di de-liberalizzazione che 
              tenderà a creare due mercati del lavoro: per i giocatori giovani e 
              per quelli meno giovani. Sarà interessante capire quali saranno 
              gli effetti di questo provvedimento sul grado di concorrenza delle 
              competizioni nazionali e di quelle internazionali.
 
 Szymanski evidenzia invece che il gate sharing – la divisione in 
              parti più o meno uguali dei ricavi tra club che riceve e club 
              ospite – tende a ridurre il grado di competitive balance mentre la 
              ripartizione dei ricavi dalla vendita di diritti televisivi può 
              aumentare il grado di concorrenza. Infine, altre ricerche recenti 
              hanno messo in evidenza che la struttura del calcio inglese, e 
              probabilmente anche quella del calcio europeo, quindi in 
              definitiva il grado della competitive balance, sarà sempre più 
              demand-driven. Perciò vi potrà essere una riduzione della 
              competitive balance e uno squilibrio nella distribuzione delle 
              risorse tra club forti e club piccoli. Il grado di competitive 
              balance ha effetti ovviamente anche sulla decisione se sia 
              preferibile vendere i diritti singolarmente o collettivamente. Una 
              ricerca recente ha evidenziato che se la Lega massimizza la 
              domanda per gli eventi sportivi, allora uno schema di pagamenti 
              basato sulle performance – come quello usato dei più importanti 
              club europei di calcio negli accordi di vendita dei diritti 
              televisivi – sembra essere la soluzione ottimale; se la Lega 
              agisce invece come un cartello e cerca di massimizzare i profitti 
              congiunti dell’attività sportiva di tutti i club – come nel caso 
              statunitense – allora sembra preferibile uno schema di full 
              revenue sharing. In un lavoro recente (Marè, 2003) ho messo in 
              evidenza, usando l’indice di Herfindahl, che il grado di 
              concorrenza tra il 1945 e il 2002 nei principali campionati 
              europei non è in generale aumentato, anzi in alcuni casi si è 
              ridotto. I dati lasciano trasparire una situazione alquanto 
              competitiva per Francia e Germania, un po’ meno per Regno Unito e 
              Italia, ancora più concentrata per la Spagna. L’analisi per 
              sottoperiodi mette in evidenza inoltre che, pur con qualche 
              eccezione, si registrano delle riduzioni della competitive balance 
              all’incirca dappertutto. I diversi casi nazionali, in particolare 
              il nostro Paese, sono caratterizzati da fenomeni ciclici più o 
              meno ampi – intorno ai 7-10 anni – anche se la durata del periodo 
              “monopolistico” – definita come il periodo in cui il torneo è 
              stato sempre vinto dalla stessa squadra o dalle stesse due squadre 
              – si è ridotta in media dal dopoguerra ad oggi – ciò appare 
              comprensibile se si considera che il ciclo “naturale” di una 
              squadra tende a collocarsi tra i 4 e i 6 anni. In termini 
              generali, si può quindi dire che questa evoluzione avrà effetti 
              rilevanti sulla struttura industriale del calcio, sui sistemi di 
              finanziamento e sulle risorse ottenibili. Quanto ai tifosi il 
              suggerimento è più semplice: fans need to be patient.
 
 Un gioco a somma zero o negativa?
 
 Il calcio ha una struttura particolare, v’è una forte 
              interdipendenza che può scatenare una rincorsa all’acquisto dei 
              giocatori e tutto ciò può avere effetti devastanti. Si può passare 
              da una situazione di equilibrio ad un’altra – in genere sono 
              equilibri instabili – con un peggioramento del benessere, con 
              natura simile ma costi differenti. Tipico esempio è quello di una 
              squadra che per rafforzarsi e mutare la sua forza relativa si 
              lancia nell’acquisto di un giocatore. Questo movimento produce 
              però una reazione nelle altre squadre che sono costrette, in un 
              certo modo, dai tifosi, dai procuratori e dalla logica di sviluppo 
              del mercato, a seguire la squadra che si è rafforzata nella 
              competizione. Esse finiranno per effettuare altri acquisti e 
              questo scatena una guerra, che tende a produrre una lievitazione 
              dei prezzi e degli ingaggi per i giocatori. Gli effetti negativi 
              di tutto ciò è che con molta probabilità la forza relativa delle 
              squadre nel nuovo equilibrio non è mutata, tutte si sono 
              rafforzate, nessuna è riuscita a prevalere, ma nel passaggio da un 
              equilibrio all’altro si è verificata una lievitazione dei costi. 
              Niente è cambiato in termini di forza relativa ma ora i costi sono 
              nettamente più elevati, i bilanci più appesantiti ed esposti, 
              quindi in definitiva le società hanno perduto nel movimento da una 
              situazione all’altra. L’introduzione di meccanismi che limitino 
              tale “corsa all’acquisto” dei talenti può avere perciò effetti 
              positivi. Ma questi vincoli sono difficili da definire – un tetto 
              alla somma spendibile annualmente in valore assoluto? Oppure una 
              cifra per ogni singolo giocatore? O, ancora, una percentuale del 
              fatturato? Oppure un meccanismo tipo il rookie draft americano, 
              che da un diritto di prelazione alle squadre più deboli?
 
 Il mercato dei calciatori: il potere di 
              mercato delle star
 
 Come si è visto, ad essere accusati sono i calciatori. Gli 
              stipendi troppo elevati sono all’origine delle difficoltà 
              finanziarie? Prima facie, potrebbe sembrare così e in parte lo è. 
              Ma è noto che questa è solo una piccola parte della storia. 
              L’esplosione del costo del lavoro è senza dubbio responsabile del 
              dissesto finanziario delle società; ma per capire come si arrivati 
              a questa situazione, si devono prendere in considerazione tutti 
              gli elementi. All’avidità dei calciatori va sommata 
              l’irresponsabilità e la leggerezza dei dirigenti e dei presidenti 
              e la struttura perversa del mercato stesso che ha condotto 
              naturalmente a questa situazione.
 
 D’altro canto, una situazione di questo tipo si era già avuta 
              negli Usa, ed aveva caratterizzato molti sport professionistici. 
              La peculiare economia del calcio conferisce ai talenti – o 
              superstar secondo la definizione di Rosen – un potere 
              monopolistico rilevante che viene usato per spuntare ingaggi 
              elevati. Gli spettatori vogliono vedere i calciatori più famosi, 
              Zidane o Rivaldo, Maradona o Platini, non bravi professionisti 
              poco noti. Quindi, di fronte ad una situazione di scarsa 
              sostituibilità tra giocatori (e prodotti), i presidenti in fin dei 
              conti potevano fare poco. Poiché gli spettatori sono disposti a 
              pagare molto per le superstar, meno, se non niente, per gli altri 
              giocatori, naturalmente tenderà ad emergere una certa asimmetria 
              tra le diverse squadre. Le squadre con i calciatori famosi possono 
              godere di una rendita e ottenere premi elevati dagli sponsor e 
              dalle tv. Quelle senza superstar avranno minori prospettive di 
              reddito e di ricavo e saranno costrette a vincere, ad ottenere 
              maggiori successi, per avere ritorni accettabili.
 
 L’esempio americano: i vantaggi dei 
              salary-caps
 
 Negli Usa esistono, da molto tempo e in vari sport, forme di 
              limitazione dei compensi, di mutualità e redistribuzione. In 
              genere si usa un salary-cap, legando il monte salari a una certa 
              percentuale dei ricavi. Forse il 50 per cento è la cifra giusta, 
              tra l’altro è quello verso il quale tendono francesi e inglesi. È 
              noto il caso di Michael Jordan che è stato costretto a ridursi lo 
              stipendio per far comprare alla società in cui militava un altro 
              giocatore e poter restare all’interno del tetto. Negli Usa, come 
              si è detto, esiste anche il rookie draft: la squadra che arriva 
              ultima sceglie i giocatori più forti. È legato alla struttura dei 
              college e al meccanismo di avvio delle matricole alla carriera 
              professionistica tipico di questo Paese. Naturalmente non è 
              riproponibile sic et simpliciter in Italia. Infine, si deve 
              riflettere sul fatto che un vincolo anche stringente agli stipendi 
              potrebbe non risolvere il problema se facilmente aggirabile. Le 
              squadre potrebbero infatti offrire remunerazioni in natura anziché 
              in denaro o altre forme di fringe benefit. L’intera struttura dei 
              compensi andrebbe perciò monitorata. Last but not least, si 
              dovrebbero valutare queste misure sul piano degli effetti che esse 
              possono avere sulla tutela della concorrenza e più in generale 
              dell’antitrust. L’attuale impostazione comunitaria in materia di 
              diritto della concorrenza non sembra essere incline ad accettare 
              soluzioni come quella adottata dalla Corte Suprema degli Stati 
              Uniti il 20 giugno 1996, che ha di fatto sottratto alla normativa 
              sulla concorrenza l’accordo sulle remunerazioni dei giocatori 
              stabilito tra questi ultimi e le società.
 
 Un’analisi più approfondita del caso statunitense relativo ai 
              diversi sport professionistici mette in evidenza che questo 
              sistema di caps risulta molto complesso e macchinoso, di difficile 
              funzionamento e applicabile e monitorabile in modo largamente 
              imperfetto. Frequenti sono stati i casi di aggiramento dei tetti 
              con un accorciamento della durata dei contratti o con una 
              differenziazione delle forme dei compensi. L’introduzione di forme 
              temporanee di luxury tax anche rilevanti nelle dimensioni, come 
              strada alternativa per effettuare un riequilibrio delle risorse, 
              non sembrano aver offerto risultati promettenti. L’intera 
              struttura dei caps non sembra infine aver avuto un effetto 
              positivo sulla competitive balance dei diversi sport 
              professionistici, che nel complesso risulta variata in modo poco 
              apprezzabile e anzi in alcuni casi appare nettamente peggiorata.
 In sintesi, l’idea di un tetto è in sé interessante ma non sembra 
              attuabile rapidamente nel caso italiano. Essa va senza dubbio 
              esplorata insieme all’altra strada di legare gli stipendi dei 
              calciatori e dei dirigenti alle performance sportive e 
              all’andamento economico e contabile dei vari club. Infine, una 
              misura di questo tipo realizzata in un solo Paese avrebbe poco 
              senso se non venisse attuata anche dalle altre leghe a livello 
              europeo e comunitario: l’effetto sarebbe quello di un player-drain 
              dal campionato italiano alle altre leghe europee.
 
 Profitti o prestigio: cosa massimizzano le 
              società?
 
 Uno dei primi lavori scientifici in materia aveva suggerito un 
              approccio originale all’analisi del funzionamento del calcio: 
              l’ipotesi ovvero, che le società anziché massimizzare i profitti 
              potessero tendere a soddisfare il successo personale dei 
              presidenti; i club, più che cercare di ampliare i profitti, 
              potrebbero massimizzare il livello di utilità dei proprietari e 
              dei tifosi. E se questo (era ed) è davvero l’obiettivo – più che 
              il profitto o l’equilibrio contabile – è evidente che poi si 
              riterrà il calcio un settore dove le regole di mercato, che 
              funzionanonelle altre industrie, possono trovare un’applicazione 
              del tutto particolare.
 
 Il calcio è stato per lo più usato come veicolo di lancio 
              pubblicitario, come uno strumento rapido per acquisire notorietà, 
              per avere forme di spillover su altri settori e marchi industriali 
              legati alla proprietà delle società calcistiche, più che come 
              strumento di ricerca del profitto. Gli squilibri che si creavano 
              venivano ripianati con l’uso dei patrimoni personali dei 
              proprietari. Ora però la trasformazione in business – e la 
              quotazione di molte società – spingono il calcio ad essere sempre 
              più attento al vincolo di bilancio e quindi in definitiva ai 
              profitti. Il calcio è ormai un’industria a tutti gli effetti e 
              quindi la “massimizzazione delle utilità” deve essere bilanciata 
              da quella dei profitti e dei ricavi.
 
 L’interesse pubblico e gli utenti
 
 Infine, l’intervento pubblico. Esiste un interesse pubblico nel 
              calcio? Le immagini dei gol e delle partite sono un bene pubblico? 
              Sul piano generale non vi sono elementi per sostenerlo. Perché il 
              calcio e non un altro sport? Perché non la musica? Chi dovrebbe 
              poi deciderlo? E secondo quali criteri? È comprensibile che il 
              governo agisca da mediatore e cerchi di trovare un accordo tra le 
              parti. Ma le società di calcio sono società per azioni o di 
              capitali, alcune anche quotate. Non vi sono quindi ragioni di 
              interesse pubblico per affermare che l’aiuto a singole società per 
              azioni, con agevolazioni fiscali o altre forme indirette sia 
              giustificato; anzi esso risulterebbe sicuramente distorsivo.
 
 Ma lasciare il calcio a se stesso è una decisione delicata, con 
              conseguenze largamente impopolari. In primo luogo, v’è la 
              questione della tv pubblica: deve pagare o no i prezzi che 
              richiedono i club? Il prezzo richiesto dalla Lega, soprattutto con 
              il frazionamento degli incontri, è chiaramente esagerato perché il 
              prodotto non è più lo stesso. Ma la decisione ha conseguenze 
              rilevanti: infatti se la tv pubblica non compra resta solo 
              l’opzione a pagamento. Qualsiasi cittadino per vedere una partita 
              o un pezzo di essa dovrà pagare. Sarebbe la privatizzazione 
              definitiva di un bene che si era ritenuto per molto tempo pubblico 
              ma che ora l’evoluzione del mercato ha trasformato in privato. Ciò 
              avrebbe conseguenze redistributive notevoli, i consumatori si 
              troveranno a pagare di più. Ma i consumatori possono decidere 
              anche di non spendere cifre elevate per il calcio. Una riduzione 
              della domanda potrebbe avere paradossalmente anche un effetto 
              positivo, di selezione nel mercato.
 
 A me sembra che l’evoluzione sia ormai segnata e vada in questa 
              direzione e che si possa fare poco per fermarla. Scriveva tempo fa 
              l’Herald Tribune che «il calcio è diventato un affare e negli 
              affari il ricco divora il povero». Il calcio è ormai un business 
              dove si richiede di pagare un prezzo per partecipare o solo anche 
              per vedere. Se vado al cinema pago, così dovrebbe essere anche nel 
              calcio. Ma l’intera vicenda è anche un’occasione d’oro per 
              rieducare il modello sociale e mentale del nostro popolo su cosa 
              significhi davvero l’interesse pubblico, per trasformare la 
              psicologia sociale – dovrei dire calcistica? – degli italiani che 
              magari, poveri loro, dovranno leggere un libro! Per esperienza 
              diretta so che francesi e inglesi non hanno le possibilità 
              televisive calcistiche gratuite – e non – degli italiani, ma 
              vivono bene lo stesso e seguono con passione, ma forse con più 
              selettività, il calcio. Tutto ciò potrebbe anche migliorare le 
              prestazioni della nostra squadra nazionale e dei singoli club nei 
              tornei internazionali, negli ultimi anni molto deludenti. Ma il 
              nostro paese è pronto a compiere questo salto? Soddisfare la 
              passione collettiva nazionale e la pace sociale ci costringerà a 
              soluzioni subottimali e a compromessi?
 
 La legge del mercato o quella dei tifosi?
 
 Ma se il calcio è davvero un business, deve allora rispettare le 
              leggi del mercato, i vincoli di bilancio e quelli contabili, deve 
              adeguarsi alla disciplina della concorrenza e alle sue regole, 
              comprese quella del fallimento. Ma come fare sul piano sociale, 
              per non parlare del tema dell’ordine pubblico? La vicenda della 
              Fiorentina dovrebbe aver insegnato qualcosa sul piano delle 
              conseguenze sul tessuto sociale di una città.
 
 Quindi ci si deve chiedere perché è opportuno salvare il calcio? 
              Ha senso ed è giustificata sul piano economico la recente misura 
              che permette alle aziende calcistiche di distribuire in un arco di 
              10 anni le minusvalenze derivanti dalla svalutazione del 
              patrimonio giocatori? Vi sono due tipi di ragionamento: uno basato 
              sui principi e perciò di tipo normativo, l’altro legato ai fatti 
              concreti. Sul piano dei princìpi non vi sono ragioni consistenti 
              per giustificare questo provvedimento. Innanzitutto, alcune 
              domande: perché solo le società di calcio e non anche altri 
              settori? Perché non la Fiat? Perché non applicarlo alle società di 
              produzione cinematografica? In fondo è sempre una forma di 
              divertimento!
 
 Qualsiasi forma di intervento, che prenda la forma di un aiuto 
              diretto – monetario – o indiretto – regolamentativ o fiscale – 
              deve essere considerata come una distorsione del mercato, come una 
              violazione della concorrenza e andrebbe perciò respinta. Esiste un 
              interesse pubblico nel calcio? I goal o le partite sono un bene 
              pubblico? Come si è visto non vi sono elementi per sostenerlo. È 
              comprensibile che il Parlamento e il governo si trovino coinvolti 
              e cerchino di trovare una soluzione allo stato di crisi. Ma le 
              società di calcio sono società di capitali, di cui tre quotate, 
              che devono rispondere ai vincoli del mercato, che devono 
              sopportare le conseguenze economiche delle loro scelte senza 
              scaricare sulla collettività gli eventuali costi di un fallimento.
 
 Sul piano concreto, il fallimento di alcune società potrebbe 
              compromettere il futuro del campionato stesso di serie A. Perciò 
              lasciare il calcio a se stesso è una decisione delicata, mi sembra 
              che vada presa pesando i possibili effetti e le probabili 
              conseguenze, fortemente impopolari, di questa decisione. Non è 
              difficile capire quali potrebbero essere le risposte degli 
              spettatori, per non parlare di quella dei tifosi. Altro che 
              questione pensionistica!
 
 Soddisfare la passione degli italiani non ci costringerà a 
              soluzioni imperfette? Penso proprio di sì. Anche se il salvagente 
              deve valere una sola volta e solo per quest’anno, perché credo tra 
              l’altro che questo possa rivelarsi insufficiente per risolvere la 
              crisi. Meglio sarebbe invece il lancio di un vero piano di 
              ristrutturazione più che una misura tampone dalla dubbia 
              efficacia. Né mi sembra sensata l’idea che circola questi giorni 
              di un campionato a 40 squadre. La crescita delle partite farebbe 
              aumentare la domanda per i giocatori e le superstar, dato che 
              comunque si dovrebbe allargare la rosa; e perciò, dovendo fare una 
              previsione ragionevole, anche gli stipendi dei calciatori. Quindi 
              una direzione opposta… a quella necessaria.
 
 E infine una postilla... sulla tecnica
 
 Tutti hanno un giocatore preferito, un mito che spesso ci ha 
              colpiti da bambini, quando la passione è difficile da controllare. 
              Ma la severa realtà del calcio dei nostri giorni è molto diversa, 
              la logica del mercato, la qualità dei tornei nazionali e 
              internazionali ma anche la quantità degli eventi ne hanno 
              profondamente mutato la natura e la sua fruibilità. I giocatori 
              bandiera sono sempre più rari, non sono più compatibili con la 
              logica industriale del calcio. Alcune squadre non possono 
              permetterseli, altre sì ma con difficoltà sempre maggiori. Spesso 
              il rapporto con i tifosi finisce per deteriorarsi. Possono 
              diffondersi forme di disaffezione, causate dall’eccesso di offerta 
              di immagini e di eventi. Il calcio-business ha trasformato 
              profondamente il prodotto. Lo stesso tifo ha cambiato pelle, è 
              molto diverso da quello che io ricordo nella mia infanzia.
 
 Uno dei calciatori che più ho amato ha scritto che «il football 
              che si pratica oggi in Italia non mi piace. Il tempo sembra 
              essersi fermato. Lo stile è noioso e irritante. Il pallone è un 
              fastidio, nessuno lo vuole perché nessuno vuole attaccare. E se io 
              non attacco e tu non attacchi, non si sbaglia: non succede niente. 
              Addio all’emozione. La paura e il calcio non sono stati mai amici. 
              E le squadre italiane hanno paura di perdere. Il loro comandamento 
              è: il risultato innanzitutto. Non si può giocare così. Il peggio 
              che può capitare non è perdere. Se perdi è più facile accorgersi 
              di cosa devi correggere. Il peggio è vincere 1-0, giocando a 
              casaccio, tutti all’indietro, maltrattando la palla, cercando il 
              fallo, nella convinzione che questa sia la strada, la formula, la 
              filosofia».
 
 E ancora «perché c’è tanta omologazione nel calcio? Nessuna 
              differenza fra buoni a cattivi calciatori. Come si spiega? Molto 
              facile. I motivi sono due: Primo: negli ultimi anni la qualità 
              tecnica, fondamentale per sottolineare le differenze tra i 
              giocatori e le squadre, è diminuita in modo allarmante. Secondo: 
              troppe partite. Sommiamo il primo e il secondo motivo. Che cosa 
              risulta? Se la qualità tecnica diminuisce, tutto finisce per 
              basarsi sul fisico. Di correre sono capaci tutti. E che cosa 
              accade quando tutto si basa sul fisico? Che quante più partite si 
              giocano, tanto maggiori sono i problemi. Si assiste a veri e 
              propri pareggi a base di dolore». E tutto ciò lo pensa un 
              calciatore che correva davvero molto, che aveva, per i suoi tempi, 
              una velocità impressionante, ma che conosceva il segreto profondo 
              del calcio, la tecnica e l’arte che si deve possedere per giocarlo 
              davvero.
 
 Basta guardare un vecchio filmato – poi non così tanto vecchio, 
              basta andare al 1970 o al 1980 – e ci si rende conto delle 
              differenza di velocità, di come il gioco si sia evoluto, della 
              dimensione atletica così diversa, ma anche della qualità in larga 
              parte scemata, dell’involuzione tecnica, del dribbling sempre più 
              raro e difficile. E allora una possibile strada non è forse quella 
              di ridurre il numero delle partite giocate e non quella di 
              aumentarle? Sono consapevole che i club non amano questa strada, 
              così come gli sponsor e le tv. Ma non è detto che la qualità non 
              possa compensare la quantità; d’altro canto, la quantità, 
              riducendo inevitabilmente la qualità, non finirà per ridurre anche 
              l’interesse? Del resto… penso anch’io che i giorni della settimana 
              non siano nient’altro che lo spazio di tempo tra una partita e 
              l’altra e che il lavoro sia un modo per ingannare l’attesa. Ma 
              forse quest’ultima parte è stata scritta dal tifoso più che 
              dall’economista.
 
 27 febbraio 2004
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