| Globalizzarsi o perire di Michele Bagella
 da Ideazione, marzo-aprile 2004
 
 Si discute molto negli ambienti politico-finanziari se il 2004 
              sarà un anno di ripresa per la economia italiana oppure no. 
              Essendoci varie scadenze elettorali alle porte, sapere se il tasso 
              di crescita del Pil sarà maggiore o minore della previsione del 
              governo, è una notizia più politica che economica, come pure lo 
              sono le notizie provenienti dalle inchieste sui crac della 
              Parmalat e della Cirio. Nel “botta e risposta” che si è creato tra 
              governo e opposizione sulle interpretazioni e responsabilità nei 
              fallimenti in corso, l’opinione pubblica assiste perplessa e 
              sembra avere difficoltà a metabolizzare il senso delle polemiche, 
              travolta com’è day by day da notizie negative a cascata, ora sugli 
              scioperi selvaggi, ora sull’inflazione, ora sulle pensioni, ora 
              sui tanti temi delle riforme istituzionali. A queste si sono 
              aggiunte quelle sui bonds in caduta libera, e dire che c’è 
              disorientamento, è un modo per cercare di non drammatizzare oltre 
              il dovuto.
 Una 
              possibile via per dare un senso a ciò a cui assistiamo può essere 
              forse quella di fare un passo indietro. Bisogna cominciare col 
              chiedersi se e come i cambiamenti intervenuti nel decennio appena 
              finito hanno modificato, se lo hanno fatto, i modi di pensare e di 
              comportarsi degli italiani. Di cambiamenti infatti ce ne sono 
              stati tanti, e la chiave per capire il presente sta proprio qui. 
              Un dato di fatto che spesso si sottovaluta è che con la caduta del 
              muro di Berlino si è aperta una nuova stagione di scontro 
              ideologico. Chi pensava che la politica sarebbe rapidamente 
              cambiata, non ha percepito subito che al dualismo 
              socialismo/capitalismo se ne sarebbe sostituito presto uno nuovo, 
              meno netto e più confuso: capitalismo sì/capitalismo no, e che le 
              ragioni storiche di tale antagonismo si sarebbero tradotte in 
              nuove pregiudiziali, tanto care al mondo latino e italiano in 
              particolare. Così i programmi di riforme annunciati vengono 
              valutati esasperando le polemiche “da destra” e “da sinistra”, in 
              molti casi senza che si capisca l’effettivo peso della loro 
              importanza, se non dal punto di vista di acquisizione o difesa di 
              posizioni di potere. Siamo molto distanti da quel pragmatismo 
              anglosassone che sarebbe stato assai utile in questa fase se si 
              fosse affermato come la base ideologica della nuova politica 
              economica. Insomma non siamo divenuti, almeno finora, né 
              “americani” né “inglesi”.
       
              Oggi, se in Europa e in Italia il ciclo stenta a ripartire, è 
              perché vi sono ostacoli ancora insuperati che vengono percepiti 
              non come tali, ma piuttosto come la “trincea” da difendere per 
              salvaguardare questo o quel privilegio. Poco si parla di 
              liberalizzazioni, poco si parla di mercati efficienti, poco si 
              parla di integrazione internazionale. Persino l’euro viene messo 
              in discussione, quando la sua introduzione è stata una conquista 
              per favorire la stabilità e lo sviluppo. La sensazione è che si 
              dia scarso peso a tutto ciò, e che si privilegi la critica di 
              parte. Frutto di una visione della economia con poco mercato o del 
              tutto anticapitalistica diffusa tra i cittadini? Forse sì. Non si 
              notano dialettiche convergenti tra governo e opposizione miranti 
              ad ottenere risultati condivisi almeno in principio da questo o 
              quel provvedimento. Piuttosto si assiste a strumentalizzazioni 
              delle misure proposte, indipendentemente dal loro impatto sulle 
              performance economiche. Continuiamo a vivere nella transizione, 
              mentre altrove la crescita economica è ripresa, Stati Uniti in 
              testa. Che il ritardo europeo e italiano su reddito e occupazione 
              si intrecci con le questioni strutturali e sistemiche degli 
              assetti istituzionali non è una novità, anzi non lo è mai stata né 
              nella teoria economica né nella azione pubblica nel nostro paese. 
              Ma nella fase attuale tale combinazione assume una rilevanza 
              maggiore che in passato per via della esposizione più forte della 
              nostra economia alla concorrenza internazionale. In pochi però ne 
              sembrano consapevoli. Nel 
              nuovo scenario geopolitico della globalizzazione il nostro sistema 
              economico va avanti con fatica. Permangono punti di debolezza, 
              alcuni dei quali storici, tra cui il Mezzogiorno, mentre altri 
              dipendono da riforme non adeguatamente avviate in passato che 
              hanno determinato cali preoccupanti di competitività. Inoltre, 
              sono venuti meno alcuni dei pilastri fino a ieri fulcro della 
              nostra crescita, come la grande impresa che tanto ha dato allo 
              sviluppo economico del paese nel secolo appena finito, mentre la 
              espansione della piccola non sembra adeguarsi bene al nuovo 
              contesto. Soffre, si dice, di nanismo, che mal si presta alle 
              aggregazioni internazionali e alla presenza su mercati lontani se 
              non a costi elevati e a rischi corrispondenti.
       Nel 
              settore finanziario con gli anni Novanta è finita l’epoca della 
              banca specializzata ed è cominciata quella della banca universale, 
              con i conflitti di interesse tra banca e impresa che tendono ad 
              aumentare in maniera patologica. Correlativamente è finita l’epoca 
              della banca pubblica ed è iniziata quella della banca privata, con 
              l’entrata di nuovi intermediari internazionali nella proprietà e 
              il sorgere di lotte di aggregazione, domestiche e non, per poter 
              contare di più. Nonostante gli incentivi introdotti dal Testo 
              unico sulla finanza (Tuf), le imprese, specie quelle medie, non si 
              sono fatte coinvolgere più di tanto nel mercato del capitale di 
              rischio. Caratterizzate come sono da una forte propensione ad 
              assetti proprietari di tipo familiare, in poche hanno preferito 
              quotarsi in borsa per cercare di ridurre l’indebitamento bancario. 
              Infine, c’è l’introduzione dell’euro e la partecipazione 
              dell’Italia alla Unione monetaria europea, che ha fatto venire 
              meno il modello nazionale di promozione delle esportazioni, via 
              svalutazione del tasso di cambio, e aperto l’economia a una dose 
              più forte di penetrazione dei nostri mercati da parte di operatori 
              esterni. 
              Senza trascurare l’importanza delle riforme della scuola, della 
              università e della pubblica amministrazione: mettendo tutto 
              insieme, si avverte che la economia e il capitalismo italiano sono 
              ad una svolta decisiva. O entrambi si adeguano, oppure c’è un 
              rischio serio di un declino più o meno lento. La riflessione che 
              segue tenta di fissare qualche idea sul processo in corso. In 
              primo luogo descriveremo i cambiamenti proprietari avvenuti nel 
              settore bancario e finanziario e i loro riflessi sulla economia e 
              sulla politica. Quindi passeremo alla evoluzione della struttura 
              industriale e alle sue conseguenze sulla competitività. Infine 
              analizzeremo il futuro del nostro capitalismo, e la collocazione 
              dell’Italia nei nuovi equilibri mondiali. 
              Poca Borsa molta Mediobanca
 I rapporti banca impresa sono oggi molto criticati. Fin quando la 
              legge del ’36 – la legge bancaria per eccellenza – era in vigore 
              vigeva la separazione totale tra banca e industria: le imprese non 
              potevano partecipare al capitale delle banche, così come le banche 
              non potevano partecipare al capitale delle imprese. Questa rigida 
              divisione nasceva da fatti storici drammatici accaduti agli inizi 
              degli anni Trenta, che avevano visto le banche miste di allora, 
              così si chiamavano, entrare in crisi a seguito della svalutazione 
              del proprio attivo costituito da partecipazioni industriali. Era 
              allora intervenuto lo Stato tramite l’Iri a ricapitalizzare la 
              Banca Commerciale Italiana, il Credito Italiano e la Banca di 
              Roma, che da allora sono entrate a fare parte della galassia 
              crescente, specie dagli anni Sessanta in poi, delle partecipazioni 
              statali. Dopo la guerra queste banche escluse dal circuito degli 
              affari e relegate nello stretto cunicolo del credito commerciale 
              hanno dato vita a una banca di credito a medio termine, 
              Mediobanca. Da allora, era il 1949, essa è divenuta la numero uno 
              in Italia come banca di affari, visto che per statuto le veniva 
              consentito non solo di fare credito di investimento ma anche di 
              detenere partecipazioni azionarie, che erano lo strumento per 
              avere più facile accesso alle informazioni societarie. Molti dei 
              cambiamenti avvenuti nel capitalismo italiano sono passati per via 
              dei Filodrammatici la sede storica di Mediobanca.
 
              Dalla nazionalizzazione della Edison alla ristrutturazione della 
              chimica, ai nuovi assetti della Fiat e della Olivetti, negli 
              ultimi quarant’anni questa banca è stata l’ago della bilancia di 
              molte ristrutturazioni proprietarie. All’inizio della sua attività 
              essa condivideva questo ruolo con Efibanca, banca nata prima della 
              guerra e che nel dopoguerra era diventata una leva finanziaria 
              soprattutto per le piccole e medie imprese con vocazione 
              all’esportazione. Il suo statuto molto simile a quello di 
              Mediobanca le consentiva di avere partecipazioni azionarie e di 
              svolgere un ruolo importante nella organizzazione di finanziamenti 
              rivolti soprattutto alle imprese lombarde e piemontesi dei settori 
              meccanico e tessile. Fintanto che Cesare Merzagora ne è stato 
              presidente, prima di diventare presidente del Senato agli inizi 
              degli anni Cinquanta, Efibanca ha avuto una funzione preminente 
              soprattutto nel favorire i rapporti delle imprese italiane con 
              l’America. In quegli stessi anni in Mediobanca un altro 
              personaggio storico, Enrico Cuccia, ne faceva crescere la 
              reputazione negli ambienti finanziari nazionali ed europei, specie 
              francesi, reputazione che è divenuta rapidamente di leadership 
              dopo che Efibanca e gli altri istituti di credito hanno 
              abbandonato la attività di merchant banking.
       La 
              nuova impostazione data allora al sistema finanziario italiano, 
              fortemente bancocentrica, prevedeva la nascita dei Mediocrediti 
              regionali, e lasciava al credito il compito di finanziare gli 
              investimenti. Il ricorso al capitale di rischio veniva lasciato 
              senza alcun incentivo, tant’è che progressivamente i risparmiatori 
              si sono allontanati dalla Borsa, la cui attività è andata sempre 
              più riducendosi. Non vi era allora alcuna autorità di controllo 
              della Borsa, contrariamente a quanto accadeva negli Usa, dove già 
              negli anni Trenta era stata costituita la Sec, la Security 
              exchange commission. In Italia la Consob verrà costituita a metà 
              degli anni Settanta e solo dieci anni dopo verrà emanato il suo 
              regolamento di attuazione. Così il nostro sistema ha finito per 
              fondarsi unicamente sui finanziamenti bancari, mentre la Borsa è 
              divenuta un piccolo mercato in cui agivano i pochi attori storici 
              della grande industria italiana, spesso accompagnati nelle loro 
              operazioni di mercato da Mediobanca, il cui CdA veniva indicato 
              per questa ragione come “il salotto buono della finanza italiana”.
       Nel 
              sistema finanziario italiano la centralità del credito, diviso tra 
              banche ordinarie e istituti di credito speciale, è andata avanti 
              fino agli inizi degli anni Novanta. Tale sistema ha fatto sì che 
              le banche divenissero il collettore della finanza esterna dello 
              Stato e delle imprese, favorite da un regime di proprietà 
              pubblica. Non essendovi la possibilità di acquistare attività 
              estere, i risparmiatori sono stati incentivati da rendimenti 
              elevati ad acquistare i titoli di Stato, e da mancanza di 
              alternative interne, sia di carattere finanziario sia di carattere 
              reale. Il circuito finanziario nazionale faceva sì che i flussi di 
              risorse intermediati dalle banche affluissero agli operatori 
              pubblici e privati che li rimettevano in circolo con la loro 
              spesa. Due eventi hanno incrinato questo meccanismo: la 
              liberalizzazione dei mercati finanziari e la adesione dell’Italia 
              al Trattato di Maastricht. Con la liberalizzazione finanziaria ha 
              avuto inizio un cambiamento strutturale del sistema finanziario 
              italiano: potendo i risparmiatori italiani investire in azioni 
              estere, i mercati di borsa di tutto il mondo sono divenuti per 
              essi interessanti ed accessibili.
       
              Contemporaneamente la volontà dell’Italia di entrare fin 
              dall’inizio, previsto alla fine degli anni Novanta, a far parte 
              dell’Unione monetaria europea ha messo in moto una profonda 
              revisione delle politiche di bilancio, per rispettare i parametri 
              di ingresso nell’Ume. In presenza di tassi di inflazione calanti 
              sono progressivamente diminuiti i tassi di interesse, e diminuendo 
              il vantaggio di acquistare Bot e Cct, è cresciuta la propensione 
              da parte degli investitori a detenere attività finanziarie estere. 
              Queste novità hanno fatto emergere l’esigenza di rafforzare il 
              mercato finanziario nazionale agendo su due fronti: trasformando 
              le banche pubbliche in Spa e cambiando la legge bancaria. Sotto la 
              minaccia della concorrenza estera – ed in particolare di quella 
              tedesca – le cui banche potevano fare qualunque tipo di 
              operazione, si è consentito alle banche italiane di adeguarsi a 
              questo modello e di avere anche partecipazioni azionarie, e di 
              essere a loro volta partecipate da società non finanziarie. Si è 
              trattato di un profondo cambiamento strutturale che ha aperto la 
              strada alle questioni di cui oggi molto si discute, il conflitto 
              di interessi tra banche e imprese e le fusioni e acquisizioni.
       Per 
              poter essere più competitivi a livello europeo innanzitutto si è 
              favorita la creazione di grandi gruppi bancari-finanziari. La 
              Banca d’Italia ha monitorato questi processi consentendo che le 
              aggregazioni tra banche nazionali non fossero l’occasione per 
              l’acquisizione del loro controllo da parte di banche estere. Ciò 
              ha portato alcuni a pensare che in tal modo si limitava la 
              concorrenza nel settore bancario e non si rispettava lo spirito di 
              libertà insito nei Trattati europei. In verità, questo 
              atteggiamento non è stato solo della Banca d’Italia ma anche delle 
              altre banche centrali europee che hanno sempre ostacolato 
              acquisizioni di banche importanti da parte di operatori di altri 
              paesi. Da questo punto di vista a livello europeo siamo rimasti 
              indietro. Nonostante sia stato liberalizzato il movimento dei 
              capitali, non si è fatto molto per liberalizzare la proprietà e il 
              controllo. Cosicché oggi assistiamo ancora a forme di “barriere 
              all’entrata” nel settore bancario e assicurativo, che 
              difficilmente saranno superate senza un accordo specifico tra i 
              paesi dell’Ue. Il settore viene infatti considerato strategico e 
              come tale viene trattato. Senza passi avanti verso l’unione 
              politica è difficile immaginare che i governi siano disposti a 
              mettere in discussione la proprietà dei loro sistemi finanziari. 
              C’è tuttavia da osservare che nonostante tutte le difficoltà, la 
              integrazione dei mercati finanziari va avanti, e prima o poi sotto 
              la sua spinta l’evoluzione dei gruppi bancari nazionali verso 
              gruppi bancari europei avverrà. Le modalità di questo processo si 
              capiranno più avanti. L’importante è muoversi di conseguenza.
 I conflitti d’interesse banche-imprese
 
 Sui conflitti di interesse tra banche e imprese c’è da aggiungere 
              che essi sono insiti negli stessi rapporti societari. Il problema 
              non è impedire i legami proprietari tra banca e impresa, 
              ritornando indietro alla legge del ’36. Semmai vanno impediti 
              comportamenti che possono rivelarsi dannosi per gli azionisti sia 
              attraverso forme di autoregolamentazione che attraverso nuove 
              forme di controllo. La revisione del diritto societario in 
              funzione di una maggiore tutela dei piccoli azionisti, il 
              rafforzamento dei controlli sui bilanci bancari, nonché le nuove 
              norme relative ai requisiti di capitale richiesti alle banche dai 
              nuovi accordi di Basilea vanno in questa direzione, e nell’insieme 
              mettono in evidenza come il sistema finanziario europeo, e non 
              solo italiano, stia divenendo molto di più “orientato al mercato” 
              di quanto lo fosse in passato. Spingono in questa direzione la 
              maggiore concorrenza e la maggiore efficienza, che per le banche 
              significano non solo nuovi metodi di gestione ma anche una 
              proprietà capace di fare della banca una impresa. Da questo punto 
              di vista le banche italiane si stanno muovendo intelligentemente, 
              utilizzando una classe di banchieri-managers che in questi ultimi 
              anni ha dato in generale buona prova di sé.
 
              Resta ancora da vedere come emergerà (semmai accadrà) una classe 
              di banchieri-proprietari, e, altro punto critico, se e come il 
              nostro sistema bancario si internazionalizzerà. Non si può infatti 
              pensare a un sistema incapace di accettare la sfida competitiva 
              nei mercati almeno dell’Europa allargata. Pur non ipotizzando 
              sviluppi eccezionali, vista la limitata esperienza dei nostri 
              intermediari nell’international banking, è nel campo del merchant 
              banking e dei servizi finanziari, specie nei nuovi paesi aderenti 
              all’Unione, che si gioca il futuro del sistema finanziario 
              italiano. Si tratta di uno sviluppo complesso che richiede una 
              valutazione più efficace del passato delle opportunità di 
              investimento in queste aree e del contributo che possono dare le 
              imprese del nostro paese. Come si dirà più avanti, banca e impresa 
              devono muoversi insieme per avere maggiori probabilità di 
              successo.
 Piccole e medie imprese nei mercati globali
 
 Guardando al futuro dal lato delle imprese, sono due i cambiamenti 
              più significativi da ricordare: l’assottigliarsi del numero dei 
              grandi gruppi e la tendenza al “nanismo” delle imprese. Che le 
              piccole imprese siano una risorsa della economia italiana e che 
              abbiano funzionato da ammortizzatore sociale è un dato di fatto. 
              Ma lo è anche quello che la piccola dimensione non è spesso 
              sufficiente a fare fronte alla concorrenza. In un ambiente 
              economico caratterizzato dalla apertura dei mercati, i settori 
              manifatturieri cosiddetti “maturi” soffrono di fronte a una 
              concorrenza di prezzo difficile da battere. Vi sono paesi come la 
              Cina in cui il costo del lavoro è il 10 per cento di quello medio 
              europeo e la cui produzione gode inoltre di vantaggi sia dal lato 
              del credito che dal lato delle normative che spesso non tutelano 
              come dovrebbero i diritti di proprietà.
 
              Marchi e brevetti che in Occidente vengono rispettati, lo sono 
              molto di meno in Cina, le cui esportazioni vanno limando le quote 
              di mercato delle nostre imprese. Le Pmi italiane cercano di 
              rispondere con la qualità e l’innovazione, ma soffrono. Lo si 
              percepisce da studi e inchieste che rivelano lo stato di disagio 
              del settore. Per non subire la concorrenza distruttiva dei paesi 
              emergenti, le Pmi non possono permettersi di rimanere ferme ma 
              devono reagire, valorizzando tutti i beni intangibili insiti nella 
              loro storia di imprese appartenenti a distretti industriali. Beni 
              intangibili sono quelli legati alla conoscenza, alla informazione 
              e alla propensione alla cooperazione. Su di essi si possono 
              costruire nuovi modelli di internazionalizzazione dei distretti 
              che vedano le piccole e medie imprese in grado non solo di 
              organizzare meglio la loro presenza sui mercati europei ma 
              soprattutto nei paesi lontani dell’Asia e della America Latina.
       Va 
              da sé tuttavia che nel riadattamento del modello distrettuale alle 
              dinamiche dei mercati globalizzati vanno fatte rientrare tutte le 
              componenti di successo del distretto, a cominciare dalle società 
              di servizi reali e finanziari. Le banche italiane devono 
              accompagnare le iniziative di investimento del distretto, in modo 
              tale che le imprese che lo compongono siano più indipendenti dalle 
              difficoltà che spesso esse incontrano nei rapporti con le banche 
              locali. Si tratta di intraprendere una strada di collaborazione 
              che le veda consorziate non solo per promuovere i propri prodotti 
              all’estero in una logica di cooperazione-competizione, ma anche 
              per programmi di investimento nei semilavorati su cui basare il 
              valore aggiunto del prodotto finale ottenuto in Italia con il 
              design e la qualità delle rifiniture.
       
              Modelli organizzativi simili sono già in corso di realizzazione. 
              Si tratta di sostenerli e di diffonderli al fine di dare una 
              risposta operativa alle difficoltà odierne. Per far crescere il 
              capitalismo italiano nei settori di media impresa il passaggio 
              strategico è l’internazionalizzazione. La grande impresa 
              manifatturiera è anch’essa in difficoltà. La sua produzione di 
              scala risente della concorrenza sul prezzo, resa ancora più 
              complicata dalla rivalutazione dell’euro rispetto al dollaro. Gli 
              investimenti in ricerca e innovazione rappresentano la non facile 
              via di uscita nel medio termine, visto che in questi ultimi anni 
              essi non sempre sono stati adeguati alla sfida competitiva, come 
              anche lo è la promozione di nuove aggregazioni che abbiano come 
              obiettivo la nascita di grandi gruppi, meglio se europei.
       La 
              presenza di gruppi industriali forti anche da un punto di vista 
              finanziario è una condizione per affermarsi e per mantenere le 
              quote di mercato. I grandi gruppi italiani sono oggi concentrati 
              nelle public utilities, energia e telecomunicazioni e le loro 
              attività crescono soprattutto in funzione della posizione 
              dominante all’interno della economia nazionale. I settori 
              manifatturieri invece sono in calo dopo il forte ridimensionamento 
              della chimica, e le difficoltà della meccanica. Conclusa l’epoca 
              delle svalutazioni competitive con l’avvento della moneta unica, 
              la difesa delle quote di mercato passa attraverso l’aumento della 
              produttività e della qualità. Entrambe richiedono oltre alla 
              disponibilità di risorse da investire, capacità imprenditoriali e 
              gestionali. Le imprese italiane hanno mostrato nella storia più 
              recente di disporre di entrambe, e per quanto la competizione sia 
              elevata riusciranno a farvi fronte se sapranno esprimere elevate 
              doti di imprenditorialità e di capacità di assumersi rischi 
              all’altezza dei concorrenti. La finanza può sostenerne simili 
              programmi facilitando l’equilibrio della loro struttura 
              finanziaria. Le vicende recenti non possono infatti far venir meno 
              la prospettiva per le imprese di attingere a fonti di finanza 
              esterna complementari al credito bancario, ed in particolare ai 
              bonds. 
 Verso modelli più orientati al mercato
 
 Nell’introdurre queste note sono stati fatti alcuni richiami sulle 
              vicende che hanno caratterizzato negli ultimi decenni l’evoluzione 
              del capitalismo italiano. Si è fatto cenno al fatto che il punto 
              di rottura dei vecchi equilibri va collocato agli inizi degli anni 
              Novanta con la progressiva liberalizzazione dei mercati finanziari 
              e la accentuazione della liberalizzazione commerciale. Questo 
              processo ha richiesto e sta richiedendo cambiamenti importanti 
              nella proprietà delle imprese, e delle banche. Fermo restando che 
              il capitalismo italiano continua ad essere di tipo familiare, e il 
              sistema finanziario ancora caratterizzato dalla prevalenza 
              dell’attività bancaria, le dinamiche in corso tendono ad 
              avvicinare entrambi i settori a modelli di funzionamento più 
              orientati al mercato. Spingono in questa direzione le nuove leggi 
              sul diritto societario, gli incentivi alla quotazione, i servizi 
              finanziari che le banche sempre più offrono ai loro clienti, sia 
              nel campo della gestione del risparmio sia nel campo del project 
              financing.
 Ma 
              basta tutto ciò a far superare le difficoltà a cui si è fatto 
              cenno? Come sempre i processi complessi richiedono tempo, specie 
              nella società e nella politica. Non bisogna infatti immaginare che 
              le difficoltà stiano solo nelle capacità tecniche. Spesso a pesare 
              di più sono le difficoltà ad adattarsi ai nuovi stili culturali, a 
              pensare ai rapporti sociali non solo in chiave di conflitto. Serve 
              un nuovo slancio di fiducia e di progettualità che permetta alla 
              economia nazionale di entrare a pieno titolo nella logica dei 
              rapporti globali. Serve, cioè, una politica economica capace di 
              darsi come obiettivo la competitività del sistema paese, e che per 
              realizzarlo governo e opposizione, pur facendo ciascuno il proprio 
              mestiere, sappiano uscire dal tunnel della delegittimazione 
              reciproca.
       
              Questo chiede il paese e soprattutto l’economia. La borghesia 
              produttiva italiana è stata la chiave dello sviluppo del secondo 
              dopoguerra. Al di là dei problemi legati ai ricambi generazionali, 
              essa è sempre riuscita ad esprimere una capacità imprenditoriale 
              di alta qualità. Perché il futuro della economia italiana possa 
              essere all’altezza del suo recente passato, sia nel campo della 
              grande impresa, della piccola come della media, sia nel campo 
              delle banche, bisogna che la società italiana, aiutata da un 
              sistema politico più consapevole e più capace di interpretare le 
              nuove esigenze, faccia il salto culturale di pensare a se stessa 
              nei termini nuovi dettati dalla internazionalizzazione e dal 
              mercato.
 30 marzo 2004
 |