| Trent’anni di imprese e follie di Francesco Forte
 da Ideazione, marzo-aprile 2004
 
 Le ultime vicende dei nostri grandi gruppi industriali, il crac 
              del gruppo Cirio e poi della Parmalat, inducono a riflettere sul 
              modello di capitalismo che si è sviluppato in Italia negli ultimi 
              trent’anni. Perché iniziare con gli anni Settanta? La politica 
              economica e il modello di capitalismo italiano attorno al 1972-73 
              si trovano a un bivio, fra una moderna economia di mercato 
              democratica di tipo europeo e un modello dirigista, basato sul 
              controllo del credito e della valuta e sul potere congiunto del 
              governo e delle parti sociali, che possiamo definire 
              neo-corporativo. Viene imboccata questa via, definita “nuovo 
              modello di sviluppo”, che termina rovinosamente attorno al 1980. 
              Dal 1981 inizia una seconda fase di ritorno al mercato, con un 
              modello, che schematizzando, può definirsi di neo-capitalismo 
              finanziario, in quanto basato sul rapporto fra banca e industria 
              anziché sul rapporto fra industria e mercato finanziario, e su una 
              prevalenza del modello del conglomerato su quello del core 
              business, con una cospicua presenza di imprese pubbliche, ma senza 
              più controlli selettivi del credito e con una crescente 
              liberalizzazione valutaria. La grande impresa privata che si 
              configura come conglomerato, con aspirazioni ai mercati globali, è 
              sempre a controllo, se non guida, familiare. Le imprese pubbliche, 
              abituate a far affidamento sui fondi di dotazione, per ripianare 
              le perdite e finanziare gli investimenti sono sempre 
              autoreferenziali. L’Eni e l’Enel si risanano, mentre l’Iri, 
              cresciuta irrazionalmente negli anni Settanta, comincia in modo 
              incerto la propria ristrutturazione.
 Il 
              modello di neo-capitalismo finanziario entra in crisi agli inizi 
              degli anni Novanta, in coincidenza non casuale con l’ingresso 
              dell’Italia nella banda stretta dello Sme, con l’adesione al 
              Trattato di Maastricht e l’esplosione di tangentopoli. Dal 
              1991-92, con le estese privatizzazioni, una nuova svolta, con un 
              modello che, ancora schematizzando, definirei di neo-capitalismo 
              bicefalo: quello manageriale che punta sul core business e ai 
              mercati globali e guarda sempre più alla borsa e quello dei 
              compradores, basato sull’espansione mediante acquisizioni 
              finanziate con obbligazioni, una concezione giunta nel 2003 al 
              capolinea. Ciascuno di questi periodi ha avuto, al suo inizio, una 
              svolta, si può dire (quasi) traumatica, verso una strada diversa. 
              Nel maggio 1972 ebbe termine la quinta legislatura e, 
              virtualmente, si concluse l’epoca del centro-sinistra organico, 
              quello del quadripartito, iniziato nei primi anni Sessanta, in cui 
              l’Italia aveva fatto ingresso nel neo-capitalismo. I socialisti 
              ora, dopo la scissione dei socialdemocratici del 1969, erano poco 
              propensi al centro-sinistra, perché vi erano, nel paese, la 
              contestazione sindacale e il terrorismo, mentre i comunisti si 
              atteggiavano a partito d’ordine, capace di incanalare le masse 
              popolari al potere, con formule non rivoluzionarie. Il riformismo 
              socialista vacillava, i grandi capitalisti privati, comunque, non 
              vi simpatizzavano. Emergeva la linea della solidarietà nazionale e 
              dell’euro-comunismo organico.
       Nel 
              capitalismo industriale italiano vi era allora una quota 
              importante di grandi imprese pubbliche: Iri, Eni ed Enel e, in 
              posizione minore, Efim ed Egam, oltre alle tradizionali Ferrovie e 
              Poste e ad alcune grandi Municipalizzate. Sostanzialmente, le 
              imprese pubbliche e parte delle banche erano ancora un centro di 
              potere Dc. Ad esse si aggiungeva una quota altrettanto importante 
              di grandi imprese private, quasi tutte di antica data e a guida 
              familiare, collegate alla finanza laica di Mediobanca: Fiat, 
              Pirelli, Olivetti, Marzotto, Italcementi dei Pesenti, ed accanto 
              ad esse la Montedison, nata dalla fusione fra Montecatini ed 
              Edison. Alcune nuove arrivate medio-grandi come la Zanussi 
              (elettrodomestici), la Ferrero (dolciumi di massa), la Sir di 
              Rovelli (chimica di base ed intermedia), il gruppo Ferruzzi 
              (industrie agro-alimentari) non avevano potere carismatico nel 
              mondo industriale. Ma l’economia industriale italiana in questo 
              decennio ebbe anche un altro sviluppo, non patologico, nella 
              piccola e media impresa, non solo del triangolo industriale, ma 
              ora anche del Nord- Est e dell’Adriatico. 
 Anni Settanta, il capitalismo 
              neo-corporativo
 
 Dal 1971 al 1980 gli occupati nell’industria crescono del 12 per 
              cento, ma, mentre aumentano gli occupati nelle imprese sino a 50 
              addetti, ristagnano quelli nelle imprese fra i 50 e i 500 e calano 
              del 9,7 per cento quelli nelle imprese da mille addetti in su. In 
              parte si tratta di un decentramento produttivo fisiologico, in 
              parte spinto dalla pressione sindacale nelle maggiori imprese. In 
              parte maggiore ciò si spiega con la dinamica del micro-capitalismo 
              schumpeteriano dei distretti industriali. Una parte delle 
              piccolo-medie imprese cresciute in fretta alla fine degli anni 
              Sessanta, però, con i rincari dei costi del lavoro, era andata o 
              stava andando in crisi e veniva accolta nella Gepi, inizialmente 
              concepita come agenzia di ristrutturazione e rilancio industriale, 
              che si era trasformata in un centro di economia assistita. Ma 
              anche nella grande impresa la congiuntura internazionale difficile 
              generava problemi critici. Così il primo governo della nuova 
              legislatura, quello Andreotti, costituito da Dc, Pli e Psdi, con 
              appoggio esterno del Pri con una maggioranza parlamentare del 52,8 
              per cento dei seggi, fu chiamato a fare le scelte di rigore 
              richieste dai repubblicani. Ma la prova fallì. La lira dovette 
              uscire dal serpente monetario europeo. E dopo breve tempo ritornò 
              il centrosinistra, in cui per altro la grande industria non 
              credeva più. Il premier Mariano Rumor non aveva gran polso. Nei 
              primi cento giorni la troika economica con La Malfa al Tesoro, 
              Colombo alle Finanze, e Giolitti al Bilancio operò bene. Ma 
              intervenne la guerra del Kippur, il rialzo del prezzo del 
              petrolio, la crisi finanziaria europea. La contestazione 
              seguitava, anzi si accresceva. L’economia italiana, come ebbi a 
              dire allora in un convegno manageriale, si trovò, così, a un 
              bivio. Fare ingresso nel modello di una moderna democrazia 
              industriale europea, basata su regole del mercato e su una 
              coerente politica fiscale e dei redditi, oppure illudersi con un 
              “diverso modello o meccanismo di sviluppo”, quale quello che 
              nebulosamente prospettavano il Pci di Berlinguer e la sinistra 
              democristiana che con esso simpatizzava. Che era in realtà, un 
              modello neo-corporativo, in cui i comunisti avrebbero garantito 
              l’ordine sociale, in cambio della partecipazione al potere, con un 
              accordo parlamentare organico e soprattutto tramite il sindacato 
              unitario, da loro controllato, che veniva ammesso alle decisioni 
              di politica economica.
 Nel 
              1974 avvenne la svolta verso i comunisti. La Confindustria 
              presieduta da Giovanni Agnelli siglava con i sindacati, nel 
              gennaio 1975, l’accordo sul punto unico di contingenza, 
              sponsorizzato dai comunisti. E il sistema capitalistico italiano 
              imboccava la via del dirigismo. La spesa pubblica aumentava, 
              mentre la pressione fiscale non si accresceva di altrettanto. 
              L’onere del debito pubblico veniva però occultato mediante il suo 
              acquisto da parte della Banca Centrale. Questa, per poter reggere 
              al peso, aveva stabilito, d’accordo con il governo, un tetto al 
              credito totale all’economia: che pertanto veniva razionato dal 
              sistema bancario. Nel 1976 veniva reintrodotto il controllo 
              dell’esportazione dei capitali, con pene severe per chi avesse 
              costituito disponibilità valutarie all’estero. L’inflazione, che 
              nel 1972 era al 5 per cento, nel 1973 era salita al 9, nel 1974 al 
              16. I bilanci delle imprese erano, pertanto, pressoché 
              illeggibili. L’economia industriale si sviluppava in un clima di 
              capitalismo drogato e distorto in cui, mentre Enrico Berlinguer e 
              Claudio Napoleoni teorizzavano l’austerità, in realtà i consumi 
              aumentavano sotto la spinta dell’aumento dei benefici 
              pensionistici, della protezione della scala mobile, che 
              inizialmente doveva proteggere solo il salario minimo ma venne 
              estesa a ogni parte della retribuzione dei lavoratori privati e 
              pubblici, dei deficit dei servizi pubblici e dell’assunzione 
              assistenzialistica da parte dei lavoratori delle imprese private 
              in crisi delle imprese pubbliche e della Gepi. Negli anni Settanta 
              la sola Iri acquisì 55 imprese e ne cedette 18. Anche i 
              pensionamenti anticipati, riguardanti le ristrutturazioni di 
              grandi imprese, venivano finanziati dallo Stato. Frattanto le 
              imprese pubbliche, che in precedenza avevano obbedito a criteri di 
              economicità, oramai finanziavano i propri investimenti con il 
              ricorso a fondi di dotazione statali e spesso ricorrevano allo 
              Stato per il ripiano delle perdite.
       Si 
              costruivano, nel Mezzogiorno, le cosiddette “cattedrali del 
              deserto” della chimica di base e della siderurgia. Il tasso di 
              crescita del Pil, con queste droghe e distorsioni, rimase elevato: 
              +3 per cento, nel 1973, l’anno della crisi petrolifera, +5,4 per 
              cento l’anno successivo, -2,8 per cento nel 1975 in relazione alle 
              esigenze di stabilizzazione, ma ancora +8 per cento nel 1976, +4,2 
              per cento nel 1977 e poi +5,4 per cento nel 1978 e +6,8 per cento 
              nel 1979, anno elettorale. Indi tre anni magri (con un +3,1, un 
              +1,6 e un +0,73 di crescita del Pil) nei quali questo modello 
              artificioso entrò in crisi, in parte per proprie ragioni di 
              insostenibilità, in parte per il mutamento che cominciava a 
              delinearsi nel quadro politico. Frattanto l’Iri era passata da 
              357mila addetti nel 1970 a 557mila nel 1980. L’Eni da 65mila a 
              123mila. Contando gli addetti alle Poste, alle Ferrovie, alle 
              municipalizzate si arrivava a un milione di addetti nell’industria 
              pubblica, mentre il sistema delle banche era, anche a prescindere 
              da quelle dell’Iri (Comit, Credito Italiano, Banco di Roma), tutto 
              pubblico (Bnl, Imi, Crediop, Banco di Napoli, Banco di Sicilia, 
              Mediocredito Centrale eccetera) o sotto il controllo pubblico 
              (Casse di Risparmio, Monte dei Paschi di Siena, San Paolo di 
              Torino). 
              Questa epoca, però, non si può denominare tanto di economia mista 
              quanto di capitalismo neo-corporativo ibrido: con la Montedison 
              controllata dal 1971 ufficialmente dal gruppo Eni, ma in realtà da 
              Mediobanca, imprese private come la Sir, finanziate interamente da 
              banche pubbliche a medio termine come l’Imi; grandi imprese come 
              la Fiat, che aveva potuto ottenere la svalutazione della lira, nel 
              1975, per riacquistare competitività sul mercato internazionale. 
              Tutti fruivano, a vario titolo, di crediti agevolati.
       Nel 
              1977, nella “Relazione sullo stato dell’industria italiana”, che 
              costituiva il documento programmatico della nuova politica 
              industriale dirigista, si presentava il seguente quadro. La legge 
              464 del 1972, nel 1977, aveva erogato la sua intera dotazione di 
              813 miliardi. La legge 183 del 1976 di incentivazione delle 
              imprese del Nord aveva appena stanziato 1120 miliardi. La legge 
              675 del 1977 di riconversione e ristrutturazione industriale, che 
              aveva introdotto un modello di dirigismo industriale selettivo 
              basato su piani di settore, concordati fra governo, industriali e 
              sindacati, che a me parve neo-corporativo, era stata dotata di 
              4560 miliardi. La legge di incentivazione delle industrie del 
              Mezzogiorno 853 del 1971, dotata di 3920 miliardi era stata 
              interamente utilizzata e la nuova legge 183 del 1976 aveva 
              stanziato 5980 miliardi.
       
              L’Imi, dal 1971, aveva ricevuto a vario titolo 1060 miliardi, come 
              apporto statale, per i suoi crediti agevolati. E circa 1500 
              miliardi erano stati stanziati presso il ministero della Marina 
              Mercantile per credito navale e cantieristica, di cui 900 ancora a 
              disposizione. Secondo il Bianchi (2002) i fondi disponibili nel 
              1977 consentivano un totale di 25mila miliardi di incentivazioni 
              industriali, sotto forma di crediti agevolati e contributi in 
              conto capitale. 
 La crisi del neo-corporativo
 
 Per dare un’idea dell’importanza di questa cifra, basta 
              considerare che il Pil del 1977, a prezzi correnti, era 214mila 
              miliardi. Il boom di investimenti nel Mezzogiorno a ciò connesso 
              generò la crescita abnorme di settori come la chimica di base e 
              intermedia e la siderurgia. Ne susseguirono rovinose chiusure, 
              come quella del centro siderurgico di Bagnoli, della Liquichimica 
              di Raffaele Ursini, della Sir di Rovelli, assorbiti nel 1982 
              dall’Enichem, che li smantellò, anziché rilanciarli, depurati dai 
              doppioni, non essendo interessata alle innovazioni tecnologiche 
              nella chimica ed avendo altri problemi di riorganizzazione nel 
              settore petrolifero, in cui aveva assorbito il gruppo Monti, 
              accollandosi mille miliardi di debiti. Il Bianchi, circa la 
              politica industriale degli anni neo-corporativi, osserva che “la 
              nuova fase di programmazione democratica, come si chiamava allora, 
              implicò un processo continuo e defatigante di mediazione e 
              concertazione trilaterale – governo, forze sindacali e forze 
              imprenditoriali – ad ogni livello e per ogni materia in un 
              contesto in cui, alla fine, il processo di decisione politica 
              veniva demandato alla negoziazione di quegli stessi interessi che 
              si intendevano regolare”.
 Ma 
              ciò non serviva neppure alla pace sociale. Nel 1979, a causa degli 
              scioperi, la Fiat perse una produzione di 200mila autovetture e 
              chiuse in rosso con 200 miliardi di lire di perdite operative. Il 
              tasso di assenteismo oscillava fra il 15 e il 20 per cento. La 
              produttività era scesa a un po’ meno di due terzi di quella 
              tedesca. Le Brigate Rosse, nel frattempo, avevano ferito 27 
              dirigenti Fiat e, il 21 settembre del 1970, l’ingegner Ghiglieno, 
              capo della programmazione auto, era stato ucciso a rivoltellate in 
              una strada di Torino. Seguì il licenziamento di 61 operai 
              sospettati di legami con il terrorismo. Grandi scioperi di 
              protesta: Berlinguer si recò ai cancelli di Mirafiori, per 
              sostenerli e sponsorizzarli. Ma la marcia dei quarantamila quadri 
              e capi operai Fiat per il ritorno all’ordine in fabbrica segnò la 
              fine del modello del capitalismo ibrido neo-corporativo. Iniziava, 
              faticosamente, il ritorno al mercato. La prima rottura fra la grande industria e il “nuovo modello di 
              sviluppo” avvenne nel dicembre del 1978: quando l’Italia dovette 
              votare per lo Sme, il Sistema monetario europeo, un regime di 
              cambi quasi fissi, preludio della moneta unica europea. I 
              comunisti votarono contro mentre i socialisti, alla cui guida era 
              giunto Bettino Craxi, si astennero, rendendo possibile l’adesione 
              italiana. La maggioranza parlamentare per lo Sme contrastava con 
              la formula di governo, che aveva dominato negli anni Settanta e 
              con le aspirazioni europee del capitalismo italiano.
 
 Anni Ottanta, il neo-capitalismo finanziario
 
 Il grado di apertura internazionale dell’economia italiana dato 
              dalla somma delle importazioni ed esportazioni in rapporto al Pil 
              che era del 35 per cento nel 1970 era diventato del 40 per cento 
              nel 1980. La grande industria privata italiana puntava su un nuovo 
              centro-sinistra moderato, formato dal pentapartito Dc, Psi, Psdi, 
              Pri, Pli. Il partito preferenziale del raggruppamento di 
              Mediobanca, dominato dalla Fiat era, come nel passato, quello 
              repubblicano, ora guidato da Giovanni Spadolini. Il legame della 
              grande industria con i liberali era invece sempre più esile. La 
              sua vocazione, in effetti, non era quella di una economia di 
              mercato liberale, anche se, oramai, aspirava a una dimensione di 
              mercato europeo e a regole di capitalismo europeo. Il mercato 
              azionario, il capitalismo popolare dei fondi di investimento, la 
              public company erano aliene dalle aspirazioni del capitalismo 
              italiano. Esso si ispirava al modello renano, del legame 
              finanziario fra industria e banca. Il finanziamento 
              dell’investimento veniva affidato principalmente 
              all’autofinanziamento e al credito bancario, mediante quello 
              ordinario e quello a medio e lungo termine, in cui il ruolo 
              bancario dello Stato rimaneva dominante, tramite l’Imi, il 
              Mediocredito centrale e altri Istituti.
 
              Dopo un periodo di transizione, rinasceva il centro-sinistra, nel 
              1981, con il governo Forlani, cui succedettero due governi 
              Spadolini e poi, dal 1983 al 1987, i due governi Craxi. L’Italia 
              tornava al sistema di mercato, pagando, per altro, un prezzo 
              altissimo per il divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia, che 
              comportò un balzo del debito pubblico, prima sommerso. E per 
              l’abolizione della scala mobile, che comportò la rinuncia al 
              controllo della spesa pubblica, resa difficile, del resto, dal 
              voto segreto sul bilancio e sulla legge finanziaria, abolito solo 
              nell’ottobre del 1988, dopo una dura battaglia contro 
              l’opposizione comunista. Inoltre venivano al pettine i nodi 
              dell’errata politica industriale degli anni Settanta.
       Nel 
              quinquennio 1980-84 i governi versarono a Iri, Eni, Gepi, Efim ben 
              22.130 miliardi, a fronte di perdite consolidate di 19mila. La 
              quota dell’Iri fu di 15.230 miliardi: esso aveva perso 3.700 
              miliardi nel biennio 1979-80 e ne perse altri duemila annui nei 
              seguenti cinque anni. L’Enel nel triennio 80-82 ricevette 
              6.600mila miliardi, di cui 5mila per ripiano di perdite, 
              essenzialmente dovute alla politica di tariffe sotto costo, 
              rivolte ad evitare gli scatti di scala mobile. Tutto ciò rallentò 
              la politica di risanamento del bilancio, generando una ulteriore 
              crescita del debito pubblico. Ma la grande industria italiana si 
              andava risanando. Nel 1986, l’Iri torna in attivo. La Fiat 
              presenta un utile record di 2360 miliardi. L’Eni, tornato 
              all’utile nel 1985, con la presidenza di Franco Reviglio, 
              diventava sempre più una compagnia chimico-petrolifera 
              multinazionale, liberandosi degli altri settori. Non riusciva però 
              a decidersi sulla chimica di base e intermedia, estranee al suo 
              core business. Nel 1981 la Montedison passa sotto Gemina, holding 
              finanziaria privata controllata da Mediobanca, Fiat, Pirelli, 
              Bonomi (BiInvest) e altri. Amministratore delegato è Mario 
              Schimberni. Snia della Montedison, con la sua chimica militare 
              passa al gruppo Fiat. Nel 1986 l’Iri cede alla Fiat l’Alfa Romeo. 
              Nel 1984 Gemina conquista il gruppo Rcs. Nel 1985 Schimberni scala 
              BiInvest e poi con questa Fondiaria controllata da Mediobanca, 
              cercando di fare della Montedison una public company slegata dalle 
              banche. Gemina esce da Montedison. 
              Nell’ottobre il tentativo di Mario Schimberni di fare della 
              Montedison una public company, con un azionariato diffuso subisce 
              una svolta. Raul Gardini acquisisce, per il gruppo Ferruzzi, il 
              14,5 per cento delle azioni Montedison. Passerà in un anno al 40 
              per cento. Schimberni viene dimissionato. Nel 1988, la Fiat 
              allontana il manager Vittorio Ghidella: prevale così la strategia 
              finanziaria di Romiti, che punta al conglomerato multinazionale e 
              trascura l’auto. Nel 1989 l’Eni e la Montedison-Ferruzzi creavano un ibrido del 
              settore chimico e chimico petrolifero, denominato Enimont, con 
              proprietà paritetica. Una insensata architettura in cui la finanza 
              dei conglomerati prevaleva sulla managerialità. Alla fine del 
              1990, l’intero gruppo, dopo due anni di scontri, passerà all’Eni, 
              ma anche la Montedison-Ferruzzi era oramai al dissesto, 
              essenzialmente a causa dei limiti del modello organizzativo. E 
              altrettanto il gruppo Olivetti, che non aveva puntato abbastanza 
              sull’innovazione tecnologica concentrata in un core business e si 
              era dispersa in molteplici avventure. Nel ’92 crolla, sotto 
              ingenti perdite, l’Efim, holding elettromeccanica con alcune 
              brillanti imprese di tecnologia avanzata, privo di core business e 
              disperso in disparate avventure.
 Tuttavia gli anni Ottanta non furono affatto negativi per il 
              capitalismo italiano, perché in esso si sviluppò il nuovo modello 
              di capitalismo schumpeteriano del made in Italy, che oggi 
              costituisce, assieme ai distretti industriali diffusi in tutta 
              Italia, l’asse portante e la punta di diamante internazionale. 
              Imprese di nuovo capitalismo come Armani, Ferrero, Barilla, 
              Luxottica di Del Vecchio, Merloni, Benetton, Riva, Lucchini, 
              Techint, Caltagirone crescono negli anni Ottanta e si affermeranno 
              negli anni Novanta, come la nuova realtà di neo-capitalismo 
              manageriale, inserita nei mercati globali.
 
              Anni Novanta, compradores e politica
 Un altro discorso si deve, a questo punto aprire su quel che è 
              successo, negli anni dal 1992 in poi, con le privatizzazioni e le 
              liberalizzazioni accompagnate da licenze a nuovi gestori, che 
              hanno dato vita o stimolo al neo-capitalismo dei compradores. Il 
              primo grande episodio fu la cessione della Sme nel 1993, che ebbe 
              inizio quando al vertice dell’Iri c’era Franco Nobili, che la 
              offrì, mediante gara, in tre parti: Italgel, Cirio Bertolli De 
              Rica, ossia CBD e Gs Autogrill. Per la CBD erano in lizza 
              Eridania-Ferruzzi, Parmalat, Cragnotti, Granarolo, Unilever e 
              Fisvi, una finanziaria di cooperative meridionali capeggiata da 
              Carlo Saverio Lamiranda “politicamente vicino alla Dc ed 
              economicamente vicino a Cragnotti. Pardon, alias Cagnotti”.
 Non 
              sappiamo cosa sarebbe accaduto se Nobili, frattanto arrestato per 
              presunti reati di tangentopoli (da cui fu poi assolto), fosse 
              rimasto presidente dell’Iri. Al suo posto subentrò nuovamente 
              Romano Prodi. “A sorpresa la Fisvi si aggiudicava la CBD 
              sbaragliando forti concorrenti tipo Unilever. Ma le sorprese non 
              finiscono qui. Lamiranda annunciava che avrebbe girato la Bertolli 
              ad Unilever e che avrebbe costituito una nuova società per 
              allearsi con Sergio Cragnotti, braccio destro di Raul Gardini 
              oppure con Calisto Tanzi, amico di De Mita”.
       
              Dunque, in realtà Lamiranda era il brasseur di Unilever, di 
              Cragnotti e di Tanzi. Romano Prodi, poco prima di ridiventare 
              presidente dell’Iri, era stato consulente di Unilever, la società 
              che avrebbe ottenuto la Bertolli dalla Fisvi di Lamiranda, a sua 
              volta vincitrice della gara per CBD. L’acquisto diretto della CBD 
              da parte di Unilever avrebbe potuto essere suscettibile di 
              critiche. Quanto al duo Cragnotti-Tanzi, i loro interessi e 
              destini di parvenu del capitalismo dei compradores politicizzati, 
              si presentavano già allora intrecciati. “Lamiranda e Cragnotti si 
              allearono e costituirono la Sagrit destinata a contenere la CBD 
              [...]. Alla fine, dopo una giostra di passaggi, la Bertolli 
              passava alla Unilever, Lamiranda cedeva a Cragnotti la sua quota 
              di Sagrit e la Cirio andava a finire sempre a quest’ultimo”. L’Iri 
              incassò dalla privatizzazione di CBD la cifra di 310 miliardi. La 
              cessione di Italagel a Nestlé, fruttò invece 703 miliardi. Ed una 
              cifra di 740 fu ottenuta con la vendita di Gs 
              (supermercati)-Autogrill al gruppo Benetton. Il 
              totale, ricavato dall’Iri, per la vendita della Sme, nel 1993, 
              pari a 1753 miliardi è sembrato un affare, al confronto della 
              cessione per circa 500 che Prodi aveva progettato nel 1985 e che 
              non era andata in porto. Tuttavia “dopo avere comperato per 740 
              miliardi di lire il gruppo Gs-Autogrill la cordata Benetton si 
              disfaceva, nel giro di tre anni, dei settori Gs-supermercati che 
              venivano comperati dalla francese Carrefur alla “modica” somma di 
              5000 miliardi di lire, mentre ai Benetton restava la proprietà di 
              Autogrill, Pavesi, Ristorante Ciao, Motta ed Alemagna, oltre a 
              tante altre aziende immobili, per un valore pari a 1500 miliardi. 
              A conti fatti, la cordata Benetton avrebbe realizzato oltre 
              cinquemila miliardi di lire. Si badi che i conti in tasca ai 
              Benetton sono stati fatti dagli esposti arrivati alla Procura di 
              Perugia, via la Procura di Salerno”. Calisto Tanzi ha sostenuto, 
              nel gennaio del 2004, che l’acquisto gli fu imposto, a quel 
              prezzo, da Capitalia, guidata da Geronzi. Ma il prezzo, 
              considerato il potere di marketing del gruppo acquisito, era di 
              tutta convenienza. E semmai, metteva in luce come le 
              privatizzazioni che avevano dato origine a Eurolat di Cirio 
              fossero state a suo tempo fatte a prezzi molto buoni per l’abile 
              Cragnotti. Eurolat di Cirio, nel 1997, fatturava 1280 miliardi di 
              lire ed era leader del latte fresco. 
 Cirio e Parmalat: gli errori di Cragnotti e 
              Tanzi
 
 Parmalat nel 1997, fatturava, nel settore latte in Italia 1230 
              miliardi di lire, prevalentemente nel prodotto a lunga 
              conservazione. Il suo fatturato complessivo italiano era di 2174 
              miliardi di lire. Con Eurolat, dunque, Parmalat fece, sul mercato 
              nazionale del latte, un salto non solo dimensionale, ma 
              qualitativo di natura fondamentale. Divenne impresa leader nel 
              latte, non solo di lunga conservazione, ma anche fresco, così 
              potendo giustificare in termini di marketing, anche le attività 
              collaterali nelle bevande, che andavano negli stessi negozi. 
              L’errore di Cragnotti, che vendette bene ciò che aveva comperato a 
              prezzi di saldo, fu di avventurarsi in acquisti internazionali, 
              anziché usare la liquidità per ridurre la sua esposizione bancaria 
              eccessiva. L’errore di Tanzi fu, analogamente, di non concentrarsi 
              su questo core business e di buttarsi a capofitto in compere di 
              imprese internazionali a debito.
 
              Alcuni compradores, come il gruppo Olivetti della Cir di Carlo De 
              Benedetti tramite Omnitel, poi rivenduta, sono riusciti a salvarsi 
              dal naufragio. Altri come Benetton, sono riusciti a insediarsi 
              stabilmente nel settore dei servizi e delle gestioni autostradali. 
              Altri come Pirelli, mediante la acquisizione di Telecom, dopo il 
              duplice passaggio a Fiat e a Olivetti scalata da Colaninno, sono 
              riusciti a riconvertire il core business da quello della gomma e 
              dei cavi a quello della Telefonia. Per 
              la Fiat la storia è opposta. Dal 1996 quando Gianni Agnelli, 
              lasciava la presidenza di Fiat Holding, la Fiat si lanciò nella 
              diversificazione dall’auto, con ambiziosi acquisti a vasto raggio, 
              a debito. Ha acquisito una quota importante di San Paolo Imi e 
              fallito, nel 1999, il tentativo di controllo di Telecom Italia, 
              mediante l’acquisto di un pacchetto di minoranza, nel 2001, è 
              entrata come uno dei principali partner, con Electricité de 
              France, in Italenergia Spa, controllante di Edison Spa, che, con 
              le privatizzazioni, è diventato il più importante operatore 
              privato nel settore dell’energia elettrica in Italia. Da “non solo 
              auto”, Fiat stava per passare a “non più auto”, con l’accordo con 
              General Motors che, in cambio del 20 per cento del pacchetto 
              azionario di Fiat auto, si impegnava a rilevarne nel 2004 il 
              resto.
       La 
              Fiat però nel 2002 è quasi andata al collasso. Nel 2003, Umberto 
              Agnelli ha dismesso imprese in precedenza acquistate ma non 
              considerate essenziali, onde ridurre l’indebitamento e ha di nuovo 
              puntato sull’auto con manager capaci. Ora la Fiat, tornata al core 
              business, si sta riprendendo bene. Questa parabola è emblematica 
              dell’indirizzo che dovrebbe prevalere, nel capitalismo italiano, 
              dopo che la parte più rampante e politicizzata dei compradores 
              della Seconda Repubblica è caduta in frantumi. Purtroppo non è 
              caduta da sola, ha coinvolto duecentomila risparmiatori che hanno 
              perso le loro obbligazioni.
       
              Caduto, con i crac degli anni Settanta e poi con tangentopoli, il 
              sogno del polo chimico, negli anni Novanta, la grande industria 
              italiana, intenta ad acquistare più che a creare, non si è 
              dedicata ai settori di punta delle innovazioni tecnologiche. 
 30 marzo 2004
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