| Fasti e miserie dell’era Tremonti di Paolo Passaro
 
 Vincitrice assoluta della competizione elettorale del 2001, la 
              Casa delle Libertà, coalizione coesa – sembrava – intorno a dei 
              principi cardine sintetizzati dal “contratto con gli italiani”, 
              iniziava il suo percorso di governo sulla spinta di una forte 
              esigenza di cambiamento e di riforme. Il blocco sociale delle 
              partite Iva, la piccola e piccolissima impresa, la Confindustria, 
              le professioni e persino la Banca d’Italia incoraggiavano e 
              simpatizzavano apertamente per l’entusiasmo berlusconiano del 
              “fare”. Gran sacerdote del cambiamento e ministro-simbolo del 
              governo: il professor Giulio Tremonti. Economista e studioso di 
              scienza delle finanze, artefice della rinnovata alleanza con la 
              Lega di Umberto Bossi, è apparsa sin da subito lui la mente del 
              rinnovato progetto berlusconiano di società aperta, più moderna ed 
              efficace. Le prime misure di Tremonti, infatti, erano volte a 
              realizzare una maggiore libertà e circolazione dei fattori della 
              produzione (capitali, salari e investimenti). Nell’ambito dei 
              capitali si riteneva che lo scudo fiscale potesse determinare il 
              rientro di risorse dall’estero, da immettere nel circuito 
              nazionale sotto forma di investimenti produttivi. In breve tempo, 
              questo avrebbe prodotto flussi positivi di cassa mediante nuove 
              entrate fiscali. L’esperimento è riuscito a metà: molti capitali 
              sono rientrati ma pochi sono stati investiti. Sui salari 
              l’attenzione si è, invece, focalizzata sul significato simbolico 
              dell’articolo 18 per introdurre la riforma del mercato del lavoro. 
              Ne è risultata una durissima contrapposizione con il sindacato (in 
              particolare la Cgil) che però ha avuto l’esito positivo del varo 
              della cosiddetta “Riforma Biagi”. Sul versante del supporto alla 
              modernizzazione delle imprese, infine, si è riproposta la 
              cosiddetta “Legge Tremonti” di defiscalizzazione degli utili 
              reinvestiti. Anche questa è una misura che non ha portato i 
              giovamenti previsti a causa del clima economico post 11 settembre.
 
 Ma il piatto forte del programma era (ed è) la riduzione delle 
              imposte. Non è un compito facile, però, quando si ha il terzo 
              debito pubblico più alto dei paesi occidentali – pari a 2 milioni 
              e mezzo di miliardi di lire – senza essere la terza potenza 
              economica del mondo. Giulio Tremonti, però, ha fatto una 
              considerazione condivisibile: lo stock più grande di ricchezza 
              dell’Italia è detenuta dallo Stato sotto forma di immobili 
              posseduti da enti. Al contempo quegli stessi enti sono indebitati 
              con lo Stato per le prestazioni erogate alla popolazione, il cui 
              costo è infinitamente superiore al livello di contributo dei 
              cittadini e viene colmato dai trasferimenti (un esempio per tutti: 
              l’Inps). L’idea di Tremonti è stata quella di far circolare sotto 
              forma di liquidità monetaria tale ricchezza immobilizzata, che, 
              per paradosso, è di proprietà dello stesso soggetto debitore dei 
              due milioni e mezzo di miliardi. Ma subito si sono scatenati i 
              detrattori della cosiddetta “finanza creativa” con una serie 
              variopinta di improperi più o meno interessati. Su questo impianto 
              economico si è abbattuta la sciagura dell’11 settembre che ha 
              completamente rimescolato le carte. Prima gli Usa e, 
              successivamente, l’Europa si sono impantanate in una recessione 
              dalla quale non si è ancora usciti. Per la verità gli Stati Uniti, 
              mediante una politica molto aggressiva di riduzione delle imposte, 
              hanno invertito il ciclo e possono vantare ottime performance 
              negli ultimi tre trimestri; al contrario l’Europa (e in special 
              modo l’Italia) sono lontane da una vera ripresa.
 
 L’emergenza è stata affrontata da Tremonti con una serie di 
              iniziative “una tantum” (condoni) per limitare i danni della 
              perdita di gettito senza aumentare le imposte. Per un anno il 
              meccanismo ha funzionato ma oggi mostra sensibilmente la corda. 
              Purtroppo, nonostante le buone intenzioni di mantenere lo status 
              quo sino alla ripresa dell’economia, il ciclo economico continua a 
              rimanere negativo. Il ministro, quindi, ha guidato il dicastero 
              con dei precisi obiettivi e la strategia di fondo che abbiamo 
              cercato di delineare. Bisognerebbe anche ricordare l’antipatia di 
              Tremonti (ricambiata) per i poteri forti: il coacervo di interessi 
              che unisce in una spirale inestricabile la Banca d’Italia, la 
              gestione del credito da parte delle banche, la Confindustria, i 
              sindacati, i potentati all’ombra dei monopoli e le corporazioni 
              più o meno emerse. Il presupposto di liberalizzare l’economia 
              agendo nei suoi gangli vitali, nella seconda fase dell’azione del 
              governo, si è arenata nelle secche della crisi e della necessità 
              del controllo ferreo della spesa. Qui l’azione di Tremonti si è 
              appannata e sono emersi concetti un po’ strani di “neocolbertismo” 
              poco attinenti all’impostazione generale seguita. La logica di 
              garantire una maggiore libertà sostanziale ai fattori della 
              produzione ha, giocoforza, messo al centro dell’attenzione la 
              parte più sviluppata del paese, il Nord. Per questo la stragrande 
              maggioranza della popolazione del Sud ha visto in Tremonti il 
              nemico, l’esecutore delle direttive della Lega. In realtà anche 
              per il Sud si è perseguita una strategia interessante: lo sviluppo 
              delle infrastrutture quale elemento basilare ed indifferibile per 
              garantire la crescita economica. Non più incentivi a pioggia ma 
              aumento della competitività del sistema geoeconomico nel suo 
              complesso.
 
 Il ragionamento non ha, però, tenuto presenti due fattori che si 
              sono rivelati decisivi nella scelta di far dimettere il ministro 
              da parte delle forze politiche che più intermediano gli interessi 
              del Mezzogiorno (An e Udc). Il primo è la crisi di competitività 
              delle aziende produttive per effetto dell’ingresso sulla scena 
              globale di un player del calibro della Cina. Il secondo è il grave 
              ritardo nelle capacità di governare realtà sistemiche e complesse, 
              globalizzate, da parte delle classi dirigenti meridionali. 
              L’ingresso nell’euro ha azzerato la possibilità di ricorrere a 
              svalutazioni competitive esautorando il governo da una delle sue 
              principali prerogative: quella di battere moneta; la concorrenza 
              globale ha reso più evidente il disagio delle classi che per 
              decenni si sono rifugiate nelle nicchie del sottobosco statale e 
              che sono assolutamente contrarie alla competizione e alle 
              liberalizzazioni. Il sogno di Tremonti si è arenato nelle secche 
              della crisi economica e nell’incapacità di rassicurare le classi 
              più influenti del Mezzogiorno dei benefici che sarebbero derivati 
              da una seria riforma liberale che azzeri i privilegi e le baronie 
              aprendo alle forze più vive del tessuto socio economico. Un’Italia 
              federale, mitigata da congrui flussi di risorse verso le regioni 
              svantaggiate da parte di quelle più ricche in un’ottica 
              solidaristica, nella quale vi fossero meno imposte e più libertà 
              nella circolazione e fruizione dei fattori della produzione, 
              potrebbe essere l’unica via per uscire dal labirinto del 
              pauperismo lagnoso, desideroso di sussidi. Le dimissioni di 
              Tremonti sono un preoccupante segnale della voglia di tornare al 
              passato, senza considerare il cambiamento sostanziale avvenuto 
              nell’economia italiana e soprattutto mondiale.
 
              
              17 luglio 2004
 paolo.passaro@libero.it
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