| Meno tasse alle imprese per salvare il 
              Mezzogiorno di Paolo Passaro
 
 L’approssimarsi del rito della legge finanziaria 2005 rappresenta 
              l’occasione di riflettere sul punto più controverso che anima il 
              dibattito tra gli esperti e poco, in verità, tra le forze 
              politiche: lo sviluppo del Mezzogiorno. Nonostante quarant’anni di 
              intervento, cosiddetto straordinario, il livello del Pil del Sud 
              d’Italia rimane al di sotto del 75 % della media dei Paesi 
              europei. Il livello di disoccupazione è intorno al 17% e le 
              aziende sono sottocapitalizzate e di dimensione ridotta. Tale 
              realtà è tanto più stridente se paragonata a quella dell’Irlanda 
              che in circa 20 anni ha visto il proprio Pil passare da una 
              percentuale inferiore al 70% del Pil medio europeo al 125%. Gran 
              parte del merito è da ascriversi all’imponente flusso di capitali 
              provenienti dall’estero. E’ un risultato eclatante, in parte 
              dovuto a fattori di competitività intrinseci (la comune lingua 
              inglese e l’alta scolarità della popolazione), ma, soprattutto, 
              per merito del regime fiscale. Già nel 1980 l’Irlanda ha ridotto 
              al 10% ’imposta sulle società (la corporation tax), per poi 
              portarla al 12,5% nel 1999. Hanno, altresì, contribuito alla 
              crescita il solido tessuto socio economico ed un’efficiente 
              burocrazia che, tramite l’ormai celebre “Agenzia per lo Sviluppo”, 
              ha reso possibile il miracolo; ma ci sono due principi generali 
              che si possono trarre dal caso irlandese.
 
 Il primo è che lo sviluppo di aree sottoutilizzate necessita di 
              importanti investimenti dall’esterno. Il secondo è che buone 
              condizioni socio economiche di contesto sono il lievito senza il 
              quale non si potrà realizzare una crescita duratura e sostenibile. 
              L’esperienza irlandese, ma anche quella di alcuni Stati americani 
              (il Nord Carolina, per esempio), dimostra che la variabile 
              maggiormente attrattiva per gli investimenti diretti dall’estero è 
              la bassa imposizione fiscale. Allo stesso tempo burocrazia snella 
              e veloce, infrastrutture adeguate ed assenza di fenomeni legati 
              alla criminalità, rappresentano la cornice ideale. Il Mezzogiorno 
              d’Italia sconta una grave carenza di infrastrutture, un tessuto 
              socio economico pervaso da fenomeni di micro e macro criminalità, 
              ed una legislazione fiscale non favorevole. L’attuale livello di 
              imposizione delle imprese (IRES) è del 33%. A questo va unita 
              l’IRAP (che non esiste nel resto d’Europa) la quale pur avendo 
              un’aliquota nominale ridotta (4,5%) colpisce una base imponibile 
              maggiore. Infatti, per calcolare l’IRAP si deve considerare non il 
              reddito ante imposte, ma il valore aggiunto prodotto dall’impresa, 
              aumentato del costo del personale e degli oneri finanziari. Se 
              l’arzigogolato meccanismo è difficile da interpretare per gli 
              stessi Italiani, figuriamoci per il direttore finanziario di 
              un’impresa straniera che debba decidere di stabilirsi o meno nel 
              Mezzogiorno.
 
 E’ evidente l’intrinseca debolezza rispetto ai Paesi appena 
              entrati nell’Unione Europea che cercano in maniera aggressiva 
              di attrarre investimenti. Per fare degli esempi: in Lettonia e 
              Lituania l’aliquota sui redditi delle società non supera il 15%; 
              in Polonia, Slovacchia ed Ungheria è del 19%; a Cipro del 10%. In 
              Portogallo è pari al 32% (ma ci sono le zone franche di Madeira e 
              delle Azzorre); in Spagna e Malta l’aliquota è del 35 % con 
              consistenti spazi di riduzione per effetto di detrazioni. Lo 
              stesso vale per la Repubblica Ceca (28%) e per la Slovenia (25%) 
              dove particolari agevolazioni permettono riduzioni sino al 10%. In 
              Italia l’aliquota reale è intorno al 45%. Condizione 
              irrinunciabile per il Mezzogiorno è che il governo inizi a 
              negoziare con la Commissione Europea una riduzione sostanziale 
              delle aliquote fiscali e l’abolizione dell’IRAP, per rilanciare 
              l’attrazione degli investimenti e il consolidamento del tessuto 
              delle piccole imprese (la cosiddetta fiscalità di vantaggio). 
              L’Unione vieta gli aiuti di Stato che distorcano la concorrenza ma 
              non entra nel dettaglio su come uno Stato possa applicare le 
              imposte. Bisogna dimostrare a Bruxelles che nuovi stabilimenti in 
              Calabria, Sicilia, Puglia o Campania, sostenuti da cospicui sconti 
              fiscali, non distorcono il mercato ma offrono alle Regioni delle 
              occasioni di sviluppo che altrimenti sarebbero precluse. La 
              velocità dei processi di cambiamento e l’epocale allargamento 
              dell’Unione impongono scelte politiche nette e necessitano di una 
              guida sicura che abbia al centro della sua azione la riduzione 
              delle imposte e l’ammodernamento del Paese. E’ la sfida intorno 
              alla quale si gioca il futuro dell’attuale governo ma anche quello 
              di tutti i cittadini e, soprattutto, dei loro figli.
 
              
              23 settembre 2004 |