Il mito del deficit americano
di Paolo Bonafini
[06 gen 05]

Negli anni successivi al 9-11, dopo il Presidente Bush solo l’economia americana ha conosciuto tanti attacchi, denigrazione e disinformazione. Sia che si trattasse di propaganda elettorale dell’opposizione (ormai da considerare un peccato veniale), sia che fosse opera di estremisti i cui desideri fanno leggere gli accadimenti come profezie dell’imminente crollo dell’odiato sistema, l’attenzione è stata periodicamente accentrata sui cosiddetti hard numbers dell’economia.

 

Uno dei leitmotiv preferiti è il deficit americano. Innanzitutto il Trade Deficit, ossia la misura con cui gli Stati Uniti importano più beni di quanti ne esportino, che andrebbe di pari passo con l’incapacità produttiva americana (a tutto favore dei paesi esteri) e con la perdita dei posti di lavoro. Una notevole efficacia propagandistica ha infine la negatività che lascia intendere il termine latino stesso: “deficit”, ossia mancanza, debito. E’ un vecchissimo argomento già affrontato nel ‘97 e nel ‘98 da Milton Friedman [nota 1] e separatamente da Daniel T. Griswold, con uno studio pubblicato dal Cato Institute e presentato al Senate Finance Commitee a Washington [nota 2]. Grinswold dimostrava come il Trade Deficit, lontano dall'essere un sintomo di sofferenza economica, sia piuttosto il necessario segno di una crescita della domanda e degli investimenti che ha sempre accompagnato ogni crescita economica degli Stati Uniti, nonché uno stimolo all’occupazione e all’aumento dei salari. Da ciò l’importanza di non cadere in tentazioni protezionistiche o in timori per le produzioni e l’outsourcing all’estero (in armonia, ad esempio, con gli studi del Fondo Monetario Internazionale che avevano sottolineato positivi riflessi dell’outsourcing sui paesi sviluppati, benché l’outsourcing costituisca uno dei fattori che crea Trade Deficit) [nota 3].

 

Dato però che la campagna allarmistica continua in questi giorni, man mano che l’economia americana mantiene la propria vigoria, sono degni di nota due recentissimi interventi. Il primo è quello di Andy Kessler sul Wall Street Journal del mese scorso [nota 4]. Kessler affronta la questione con un esempio chiarissimo. Come si costruisce un Trade Deficit? Semplice: La Apple fa costruire in Cina 2 milioni di iPods, ed ecco ben 1,5 miliardi di dollari aggiunti al Trade Deficit. Ma attenzione ai calcoli. Ogni iPod viene pagato da Apple circa 200 dollari, con soli circa 4 dollari di guadagno che vanno alla ditta cinese. Il guadagno di Apple invece? Ben 64 dollari per ogni iPod. Quello che conta sono i profitti e infatti le azioni Apple sono andate in un anno da 21 dollari a ben 64 dollari. In altri termini: 1,5 miliardi di dollari di incremento di Trade Deficit, calcola Kessler, causano un incremento dei profitti alle aziende USA di ben 16 miliardi di dollari. Tutto comincia a essere molto più chiaro. Preferireste, continua Kessler, possedere azioni della Apple che guadagna 64 dollari per ogni 200 dollari di costi oppure le azioni di una ditta cinese che guadagna 4 dollari per ogni 196 dollari di costi? Questo è il motivo per cui il Trade Deficit è un falso problema. Proprio come il correlato Current Account Deficit.

 

Il Current Account Deficit si crea quando importiamo risparmi dall’estero per finanziare l’investimento interno, in quanto le nostre attività produttive offrono più opportunità di investimento di quante il risparmio interno possa soddisfare (dato anche che è rivolto al consumo). Abbiamo invece un Current Account SurDaily quando, soprattutto nel momento in cui consumiamo poco e risparmiamo molto, esportiamo i nostri risparmi all’estero, che qui non hanno remunerazione ritenuta sufficiente, per investirli nelle aziende o attività straniere. La litania della stampa catastrofista ripete ossessivamente il lamento per la poca propensione al risparmio dei cittadini americani, per il loro uso del debito, e del fatto che gli investimenti americani possono essere coperti solo dall'afflusso dei risparmi esteri. Cosa accadrebbe se il flusso di questi risparmi si fermasse?

 

Anche in questo caso l’esempio dell’iPod è molto chiaro. Preferite acquistare azioni della Apple che guadagna 64 dollari per ogni 200 di costi o quelli di una azienda estera che ne guadagna 4 su 196? Fino a che l’outsourcing e la produzione fatta all’estero (cioè fino a che vi sarà Trade Deficit) causeranno questi grandi profitti all’imprenditoria americana, fino a quel momento il denaro affluirà (causando il Current Account Deficit, in quanto i soldi degli stranieri vogliono partecipare ai guadagni di Apple, non certo a quelli cinesi), e solo quando finirà il profitto terminerà anche il flusso degli investimenti, eliminando entrambi i deficit che si erano creati durante il periodo di sviluppo economico.

 

Un altro mito molto diffuso, infatti, è quello per cui si rifiuta di comprendere la ciclicità del fenomeno. Se si guarda alla storia dell’economia americana [nota 5] si comprende che durante le fasi di recessione economica, mancando sia il consumo che l’opportunità di investimento interno, si formano risparmi che sono attratti dalle opportunità di investimento estero (cioè si forma un Current Account SurDaily). Non appena l’economia gira e inizia una fase di sviluppo economico, aumentano i consumi (riduzione del risparmio interno) e le opportunità di investimento sono tali che è il risparmio straniero a entrare, creando un Current Account Deficit. Infine il ciclo si ripete nuovamente e ogni volta il Current Account Deficit si appiana naturalmente lasciando il posto a un SurDaily e viceversa ogni SurDaily formatosi durante la recessione è destinato a essere sostituito da un Deficit che accompagna lo sviluppo. Deficit e SurDaily sono tanto maggiori quanto più prolungato è stato il periodo di sviluppo e recessione che li accompagnano. Il mito è invece quello per cui non dovrebbero esserci cicli, pensando ad un eterno SurDaily del Current Account (ovvero quella eterna fase di recessione che è una economia socialista). Il mito è lo stesso con cui si fa credere all’investitore che quando il mercato azionario cresce dovrebbe crescere sempre (e l’investitore è lusingato tanto bene da acquistare mediamente ai prezzi massimi, prima della discesa) oppure quello per cui lo si terrorizza lungo la fase di recessione facendogli credere una caduta eterna (e anche qui l’investitore medio è preda della propaganda e non acquista i titoli quando vale la pena di acquistarli).

 

A questo punto possiamo comprendere perfettamente il secondo intervento significativo apparso sulla stampa internazionale in questi giorni, quello del premio Nobel per l’economia Edward Prescott, dell’Arizona State University [nota 6], secondo cui “il Current Account Deficit americano non è un problema e la gente che lo pensa è ignorante”. “E' soltanto per ragioni politiche - dice Prescott con toni durissimi - che la gente urla e si lamenta a proposito del deficit”.

 

Uno squilibrio, un pericolo, però esiste. Lo fa presente John Williamson dell’Insitute for International Economics di Washington [nota 7]. Non molto tempo fa – scrive Williamson – un articolo dell’Economist ha paragonato l’economia mondiale a un aeroplano in volo con un solo motore, cioè con gli Stati Uniti come il solo polo di crescita che regge la l’offerta mondiale con la propria domanda di beni e servizi. In pratica, preso atto della natura ciclica dell’andamento dell’economia e del Current Account, bisogna chiedersi cosa avverrà quando, in modo naturale, gli Stati Uniti diminuiranno la propria domanda interna e inizierà una nuova fase di sistemazione (recessione) in cui il proprio Deficit diventerà un SurDaily. Il rischio non riguarda gli Stati Uniti ma tutti gli altri a causa di una globale mancanza di domanda (a global demand risk). Infatti non esiste attualmente un’altra zona economica del mondo in grado di sostituire la domanda USA che sta guidando ogni sviluppo economico in atto.  L’unica soluzione non traumatica per l’economia globale, scrive Williamson, può essere soltanto quella per cui gli altri paesi riescano a espandere la propria domanda interna in una misura maggiore di quanto sarà la programmata riduzione del proprio SurDaily, il quale non potrà più trovare accoglienza in USA. Che la soluzione debba essere una transizione fra una economia globale trainata dagli USA verso una in cui anche altri incomincino a sviluppare la propria domanda è una idea che trova riscontro da sempre nelle pubblicazioni del Fondo Monetario Internazionale, per esempio a firma di Catherine L. Mann [nota 8]. Purtroppo, e a sue spese, l’Europa al momento non sembra essersi dotata degli strumenti e delle volontà politiche necessarie a questo compito.

 

Il pericolo, per l’Europa che non ha saputo approfittare del boom economico, viene ulteriormente amplificato da una doppia minaccia demografica. Una a breve termine, intorno al 2010, quando il gruppo di coloro che sono nella fascia di età fra 45 a 54 anni comincerà a diminuire e si verificherà con ciò l’esatto opposto di quanto necessario, cioè una riduzione della domanda interna [nota 9]. L’altro, di lungo termine, riguarda l’aging di una popolazione sempre più anziana e numericamente in declino. In altri termini c'è la possibilità che la questione demografica possa essere determinante nello stabilire i ritmi della ciclicità economica.

 

6 gennaio 2005

stampa l'articolo

Note

[1]
Milton and Rose Friedman,
The Case for Free Trade, Hoover Digest, 1997.

In altri termini: che le importazioni siano maggiori delle esportazioni, e quindi il Deficit, è un beneficio, in quanto significa che si ottiene più valore (importazioni) di quanto si dia in cambio (esportazioni).

[2] Daniel Griswold, America’s Maligned and Misunderstood Trade Deficit, Cato Institute, 1998;

[3] Mary Amiti and Shang-Jin Wei, Demystifying Outsourcing, IMF Working Paper, 2004;

[4] Andy Kessler, We Think, They Sweat, Wall Street Journal, 12/23/04. L’argomento è stato affrontato anche da Giovanni Zibordi sul forum di CobraF;

[5] John P. Hussman, Why the Current Account Deficit Matters, Hussman Funds, 2004;

[6] US Twin Deficits No Problem, Nobel Laureate Saysobra, Reuters, 12/07/04

[7] John Williamson, Current Account Objectives, Who Should Adjust?, IIE, 2004

[8] Catherine L. Mann, Is the US Current Account Deficit Sustainable?, IMF FD mag. 2000

[9] Daniel Arnlod, Heading for meltdown, Professional Investor, Feb. 2004