Gran bazaar postmoderno: la scommessa del mercato globale
VA' DOVE TI PORTA
IL MERCATO

di Giuseppe Pennisi

Il termine "globalizzazione" ricorre nei titoli di circa 200 volumi acquisiti negli ultimi anni dall'Università di Harvard. Con esso si intende il processo di integrazione dell'economia mondiale conseguente all'aumento dei flussi finanziari, commerciali e migratori. Il progresso tecnologico - la riduzione dei costi di trasporti, in una prima fase, e la diffusione delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione, successivamente - sono state le molle che lo hanno promosso ed accelerato. La globalizzazione finanziaria è già molto avanzata: alla metà degli anni Novanta, le transazioni quotidiane sui mercati internazionali (oltre 1200 miliardi di dollari) erano pari al prodotto interno lordo (pil) annuale di un Paese come l'Italia. In parallelo, si sta trasformando drasticamente l'assetto produttivo. Già alla fine degli anni Ottanta una Ford Escort montata negli impianti di Halewood in Gran Bretagna o di Saarlius nella Repubblica federale tedesca conteneva parti prodotte nel Regno Unito, in Belgio, nei Paesi Bassi, in Svezia, Norvegia, Danimarca, Germania federale, Austria, Giappone, Italia, Spagna, Stati Uniti, Canada e Francia; alla fine degli anni Novanta, un'automobile analoga contiene in misura crescente parti prodotte nei Paesi dell'Estremo oriente, del bacino del Pacifico e dell'Europa centrale e orientale.

La delocalizzazione si accompagna alla globalizzazione:

  1. dal 1990 al 1995, la United Technologies ha eliminato 33mila posti di lavoro (un terzo dell'organico totale) negli Usa per crearne 15mila all'estero;
  2. le principali linee aree europee (la Swissair, in primo luogo) hanno trasferito in Asia (segnatamente in India) i loro servizi di contabilità e di emissione delle prenotazioni e dei biglietti;
  3. nella prima metà degli anni Novanta, la crescita netta di impieghi relativi alle attività delle imprese dei "distretti industriali"dell'Italia centrale è avvenuta quasi interamente in Paesi dell'Asia, del bacino del Mediterraneo e dell'Europa centrale e orientale, dove è stata "spostata"parte della produzione tramite contratti di sub-appalto e licenza ad imprese locali.

Il differenziale salariale è una delle determinanti del fenomeno: in Asia, America latina, bacino del Mediterraneo ed Europa centrale e orientale, nell'industria manufatturiera i salari sono pari a meno di un terzo di quelli prevalenti nel Nord America ed in Europa occidentale. Le differenze di costo del lavoro per unità di prodotto, però, sono molto meno marcate: solo un numero limitato di Paesi dell'Estremo oriente (Corea, Thailandia) e dell'America latina (Argentina, Messico) ha indici del costo del lavoro per unità di prodotto significativamente inferiori (dal 25% al 40%) a quelli nei maggiori Paesi industriali. Ancor più che dalle differenze di salari e di costo del lavoro per unità di prodotto, la delocalizzazione è determinata dalla prossimità con le fonti di produzione delle materie prime e con i mercati di sbocco, nonché dalla maggiore propensione delle forze lavoro dei Paesi emergenti ad operare in certe linee di attività.

Ormai, nei Paesi in via di sviluppo è localizzata l'80% della mano d'opera industriale mondiale, e la percentuale dei manufatti sul totale delle esportazioni dei Paesi emergenti supera il 65% (mentre era appena il 20% nel 1960). Nei Paesi il cui export di prodotti industriali è cresciuto più rapidamente, i salari reali sono aumentati del 3% l'anno.

Un fenomeno, dunque, che al di là delle cifre e dei dati, sta modificando le abitudini di vita e di lavoro dell'intero pianeta. Ancora qualche anno fa, ad esempio, sarebbe stato difficile per un lavoratore di Ivrea comprendere che le difficoltà attraversate dal suo settore e le prospettive di disoccupazione che gli si aprivano davanti erano dovute a una qualche linea di produzione analoga, aperta in una remotissima cittadina indiana, dove i suoi colleghi lavoravano 18 ore guadagnando una miseria. Oggi, tutto questo è diventato drammaticamente evidente e i lavoratori di Ivrea sono costretti a sentirsi in competizione non solo con la remotissima cittadina dell'India, ma anche con quelle di Singapore, della Thailandia, della Malesia e dell'Ucraina, dove, oltre al basso costo del lavoro, sono ormai presenti qualità proprie di un nuovo capitalismo dinamico e vincente, capace di rimettere in discussione antiche ricchezze e consolidati privilegi.

Gli articoli di questa sezione propongono, per affrontare il fenomeno, ricette differenti, che riguardano il medio periodo, la transizione, piuttosto che il più lungo termine. Le strategie indicate sono, quindi, in certa misura complementari. Dalle indicazioni già disponibili, comunque, appare chiaro che, anche se la globalizzazione e la delocalizzazione comportano difficili problemi di riassetto per alcuni Paesi e settori, a livello internazionale i loro costi in termini di perdita di posti di lavoro e di contenimento della crescita dei salari nei Paesi avanzati sono ampiamente compensati dai benefici in termini di creazione di posti di lavoro e di aumento dei salari reali nel resto del mondo.

C'è, però, un profilo ancora più importante degli aspetti economici: transazioni più libere di merci, servizi, capitale e lavoro sono lo strumento essenziale ed indispensabile per quel mondo più libero a cui tutti aspiriamo.

Giuseppe Pennisi


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1997