Gran
bazaar postmoderno: la scommessa del mercato globale
LA LIBERA IMPRESA
NON HA FRONTIERE
di Pascal Salin
Quello della
mondializzazione è un tema alla moda. Ma è bene diffidare delle mode
intellettuali. Invece di essere adottate senza altro esame, esse dovrebbero
spingere a porsi alcune domande. La diffidenza è necessaria per una ragione
molto semplice: la verità non si decide a maggioranza di voti, e non basta
che un'idea sia ammessa da tutti - o da quasi tutti - perché; sia valida.
Al contrario, il vero innovatore - nel campo della produzione intellettuale
come in quello della produzione industriale - è colui che si batte contro
il consenso generalizzato. Il mondo progredisce grazie agli innovatori e non
grazie ai fenomeni di moda. Ora, il concetto di mondializzazione - con
l'idea, che generalmente l'accompagna, che sia responsabile dei mali della
nostra epoca - non è stato oggetto di un processo di comprensione e di
adozione progressiva da parte dell'opinione pubblica: è un puro prodotto
della moda.
E la moda è talmente
forte che possiamo perfino osservare uno strano fenomeno: persone, che
difendono con ardore e capacità i princìpi della libertà individuale,
sono convinte che la libertà d'agire debba arrestarsi alle frontiere dello
Stato nazionale, o almeno del super-Stato europeo, perché; ritengono che la
concorrenza internazionale sarebbe creatrice di disoccupazione o
eserciterebbe una spinta alla diminuzione dei salari reali. Bisognerebbe
dunque, seguendo questo tipo di analisi, creare una frontiera più efficace
ai limiti dell'Europa - rappresentata istituzionalmente dall'Unione europea
- per impedire l'invasione dei prodotti a basso costo provenienti dai Paesi
extraeuropei o anche dai Paesi europei non membri dell'Unione (gli Stati ex
comunisti dell'Europa centrale)(1). Sarebbe necessario, aggiungono
queste stesse persone - fondandosi sempre su una terminologia alla moda -
imporre regole di "buona condotta internazionale"per impedire il
"dumping sociale"e la "concorrenza sleale2.
Non esiste dunque una
coincidenza - ci si chiederà - tra la mondializzazione - intesa come
apertura delle frontiere e apparizione di nuovi Paesi produttori - e le
difficoltà economiche dei Paesi sviluppati, e in particolare quelle
risentite da alcune categorie di lavoratori, tra cui i salariati meno
qualificati? Negli Stati Uniti si è osservato, nel corso degli ultimi anni,
un ampliamento del ventaglio dei redditi e anche una diminuzione del salario
reale dei lavoratori meno qualificati. In Europa, il fenomeno si manifesta
piuttosto attraverso un aumento della disoccupazione che colpisce
soprattutto questo tipo di lavoratori.
Questi fatti sono
indiscutibili, ma una coincidenza non implica una relazione causale. Ben
altri fattori spiegano queste evoluzioni. Ci sembra innegabile, per esempio,
che la principale causa dell'aumento della disoccupazione in un Paese come
la Francia - e questo è probabilmente vero anche per molti altri Paesi
europei - si trovi nell'aumento continuo di tasse e contributi sociali e
nelle rigidità dovute a un eccesso di regolamentazione sul mercato del
lavoro. Si può legittimamente sostenere che se la mondializzazione non
fosse esistita, la situazione di questi Stati e dei loro abitanti sarebbe
stata ben peggiore, in quanto essi sarebbero stati privati di una parte dei
vantaggi apportati dagli scambi.
Il dibattito è reso
più difficile dal fatto che ci si trova di fronte, da un lato, a
osservazioni parziali ma che sembrano evidenti e, dall'altro, a ragionamenti
d'insieme che si presentano necessariamente in modo complesso. In effetti,
chi critica la mondializzazione può indicare facilmente alcune attività
particolari (per esempio, la produzione di calzature, tessuti ed abiti di
largo consumo) per le quali, rispetto all'Europa, i costi di produzione sono
molto più bassi nei Paesi emergenti, di modo che i lavoratori poco
qualificati, operanti in questi settori in Europa, subiscono una concorrenza
che nuoce al loro impiego o ai loro salari.
Queste considerazioni
trovano conforto in alcune conclusioni tradizionali della teoria economica.
In particolare, l'affermazione secondo cui l'apertura degli scambi
condurrebbe all'egualizzazione internazionale delle remunerazioni. I salari
reali dei lavoratori meno qualificati dei Paesi sviluppati sarebbero così
spinti verso il basso dalla concorrenza dei lavoratori dei Paesi emergenti.
Questa tesi pessimista è resa ancor più inquietante dal fatto che sembra
avere fondamento scientifico. Ora, in base all'analisi economica sappiamo
che i fatti non ci dicono nulla di per sé;, se non disponiamo di uno
strumento di ragionamento logico che permetta di individuare le cause e gli
effetti, e dunque di veder più chiaro nella complessità del mondo reale.
Certo, nella teoria
economica generale esiste questa proposizione, che sembra coincidere con il
senso comune, secondo cui l'apertura degli scambi condurrebbe
all'egualizzazione internazionale delle remunerazioni. Sicché; l'arrivo di
nuovi produttori sui mercati tradizionali dei Paesi più sviluppati
produrrebbe una sovrabbondanza di manodopera non qualificata e questi Paesi
dovrebbero accettare salari reali più bassi e/o sopportare un tasso di
disoccupazione più elevato. E' dunque essenziale mettere in evidenza che
quest'asserzione non costituisce affatto una verità universale,
contrariamente alla proposizione fondamentale secondo la quale lo scambio -
sia esso internazionale o no - si spiega attraverso le differenze relative
di attitudini e di gusti tra gli individui (2). E contrariamente alla
tesi che discende logicamente da quest'ultima, cioè che i due partners di
uno scambio aumentano rispettivamente il loro benessere grazie proprio a
questo scambio. In realtà, l'egualizzazione internazionale delle
remunerazioni è il frutto di un'ipotesi specifica, che consiste nel
supporre che le tecniche di produzione siano esattamente le stesse in tutti
i Paesi e per tutte le attività (3).
E' chiaro che questa
ipotesi specifica non rappresenta una descrizione corretta della realtà
odierna. Ciò che caratterizza il mondo contemporaneo è l'estrema diversità
nelle capacità di utilizzare e creare fattori di produzione identici: è
questa la ragione per la quale esistono differenze nei livelli di sviluppo.
In altri termini, la produttività di un determinato fattore di produzione -
come il lavoro non qualificato - non è la stessa in tutti i Paesi del
mondo, perché; questo fattore è utilizzato in processi di produzione
differenti ed è associato a fattori di produzione diversi, alcuni dei quali
sono d'altronde specifici (ad esempio, un imprenditore particolarmente
innovativo).
Peraltro, l'idea
secondo cui i lavoratori non qualificati del mondo intero sarebbero
perfettamente sostituibili gli uni agli altri - e si farebbero dunque una
concorrenza perfetta - non è accettabile per due ragioni. In primo luogo,
perché; trovandosi in ambienti produttivi diversi, essi hanno modalità
lavorative differenti. In secondo luogo, perché; l'idea secondo la quale
esisterebbe una categoria di persone che potremmo chiamare "lavoratori
non qualificati" è troppo generica. Difatti, un lavoratore che non ha
ricevuto un'istruzione scolastica di base considerata come
"qualificante" può benissimo aver acquisito una qualifica
specifica, e dunque una maggiore produttività, per l'esercizio del suo
mestiere.
Non bisogna
dimenticare, d'altronde, che esiste un'altra proposizione importante della
teoria economica, in base alla quale un imprenditore assume nuovi lavoratori
fino a che la produttività marginale dell'ultimo lavoratore sia uguale al
suo salario reale. Perché; vi sia egualizzazione internazionale dei salari,
bisognerebbe dunque che la produttività del lavoro (poco qualificato) sia
più o meno la stessa in tutti i Paesi, cosa che non corrisponde al vero. In
realtà, il salario reale riflette la produttività del lavoro e se i salari
reali sono più bassi nei Paesi sottosviluppati è perché; la produttività
dei lavoratori è più debole (ed è per questo che detti Paesi sono
sottosviluppati). Non si può dire quindi, in generale, che i lavoratori non
qualificati - o gli altri - subiscano la concorrenza dei loro omologhi
stranieri.
L'idea secondo cui la
concorrenza internazionale nuoce ai lavoratori poco qualificati riposa,
infatti, su una visione parziale e tecnica, invece che su una visione
generale ed economica (cioè umana). Essa risulta generalmente dalla
seguente considerazione: oggi gli stessi macchinari sono disponibili in
tutto il mondo per produrre, per esempio, tessuti. La produttività
(tecnica) della manodopera è dunque la stessa dappertutto e se i salari
reali sono molto più bassi in un Paese, i capitalisti vi
"delocalizzano" la loro produzione. Ma se questa ipotesi fosse
vera in linea generale e se si potesse ottenere la stessa produttività
ovunque, i salari sarebbero più o meno gli stessi in qualsiasi posto. E se
non lo fossero - come accade - i tassi di profitto, nei Paesi con salari
bassi, dovrebbero essere assolutamente favolosi, ulteriore dato che non si
produce.
Colpisce però la
constatazione che alcuni imprenditori europei rimpiangono le
delocalizzazioni effettuate e rimpatriano in Europa alcune delle loro
attività, ad esempio perché le norme di qualità non sono rispettate,
perché i tempi di fabbricazione sono fantasiosi, eccetera. Ciò costituisce
la prova che i bassi salari non compensano necessariamente le differenze di
produttività. E ciò significa anche che la produttività non dipende
essenzialmente dai macchinari, ma da tutta una serie di elementi più o meno
immateriali (l'organizzazione del lavoro, lo spirito d'iniziativa, la
disponibilità degli altri fattori di produzione, il contesto giuridico e
fiscale, eccetera). E' possibile che, per quanto riguarda alcune attività
particolari - prodotti di largo consumo e di scarsa qualità - la tecnica di
produzione giochi un ruolo relativamente importante per spiegare la
competitività dei produttori. Ma non è il caso di tutte le produzioni.
Ci si dimentica troppo
spesso del fatto che la teoria dello scambio mostra che sono le differenze
relative che contano, e non quelle assolute. Che cosa implica tutto ciò?
Supponiamo che esistano due Paesi, A e B, e un'attività i, nella quale il
know-how è poco importante e la produttività dipende soprattutto dalla
macchina alla quale il lavoratore è associato, in modo che si possa avere,
nel mondo intero, esattamente la stessa produttività. Se il salario è più
basso in B rispetto ad A, il profitto sarà molto più alto nel primo Paese
perché la produttività è uguale nei due Stati e siamo in situazione di
egualizzazione internazionale del prezzo del bene i. I produttori di A hanno
dunque interesse ad abbandonare l'esercizio dell'attività in A ed a
delocalizzarsi, cioè a investire nell'attività i del Paese B. Se ne
deduce, in generale, che i lavoratori (poco qualificati) di A, che lavorano
nell'attività i, finiscono per essere disoccupati. Ma questa
interpretazione è parziale e non tiene conto del funzionamento dell'insieme
dell'economia.
In effetti, per
ipotesi, essendo i e j due attività differenti, la caratteristica presa in
considerazione precedentemente per i - cioè il ruolo dominante delle
macchine nella determinazione della produttività - probabilmente non si
riscontrerà, o perlomeno non allo stesso livello, nell'attività j.
Possiamo supporre, ad esempio, che, rispetto ad i, la produttività dei
lavoratori poco qualificati nell'attività j dipenda maggiormente dalla
capacità innovativa degli imprenditori. I produttori di A si
specializzeranno dunque nell'attività j, per la quale hanno relativo
vantaggio.
Se il Paese A fosse in
regime di autarchia, saremmo obbligati ad utilizzare i lavoratori poco
qualificati nell'attività j, ma anche nell'attività i per la quale essi
sono relativamente meno produttivi rispetto alla situazione di B.
Conformemente alle ipotesi tradizionali, la mobilità dei lavoratori poco
qualificati all'interno di A conduce all'egualizzazione del salario reale
nelle due attività. In altri termini, la necessità, a causa della politica
autarchica, di produrre nel Paese A il bene i, per il quale i lavoratori
sono relativamente meno efficaci, attira verso il basso i salari reali
pagati nell'attività j. L'apertura degli scambi e la specializzazione che
ne risulta conducono invece ad utilizzare questi lavoratori nell'attività
in cui la loro produttività è relativamente maggiore, il che permette di
attribuire loro salari reali più elevati.
E' dunque errato
sostenere che i lavoratori poco qualificati soffrano della concorrenza dei
Paesi meno sviluppati. Per la teoria del commercio internazionale, in
effetti, non è concepibile che un fattore di produzione subisca la
concorrenza in tutte le attività, dato che la specializzazione
internazionale proviene dalle differenze relative di capacità e conduce
alla differenziazione delle strutture produttive.
Il fatto principale e
inconfutabile è la verità eterna secondo cui, quando due persone entrano
in un'attività di scambio, ne traggono entrambe un vantaggio. E'
inconcepibile, dunque, che un produttore non possa avere interesse allo
scambio con altri, a causa del semplice fatto che questi ultimi sarebbero
situati su territori politicamente diversi. Vi è una completa
contraddizione tra questa verità e la tesi, proposta frequentemente,
secondo cui la concorrenza dei Paesi poco sviluppati condurrebbe a una
diminuzione del salario reale di alcune categorie di lavoratori e/o alla
loro esclusione dal mercato del lavoro. Occorre risolvere questa
contraddizione: e questo non può essere fatto che mantenendo l'analisi che
è logicamente valida - la teoria dello scambio - e lasciando da parte ciò
che risulta da impressioni superficiali e da false realtà statistiche,
l'idea cioè, di un effetto negativo della concorrenza internazionale sui
lavoratori meno qualificati dei Paesi più sviluppati.
Ciò che è in causa
è il ruolo della concorrenza e, per rendersene conto, facciamo un paragone.
Immaginiamo che in una strada di Roma esista un panettiere che gestisce un
negozio ad alta redditività. Come esistono "Paesi emergenti", così
esistono "commercianti emergenti": un giorno, un altro panettiere
apre bottega nella strada vicina e, mettendo in vendita pane migliore e meno
caro, attira la clientela di tutto il quartiere. Il primo panettiere
invocherà la concorrenza sleale del nuovo venuto e il rischio che egli
corre di finire sul lastrico: farà appello all'interesse
"generale" di tutti i commercianti della strada per proteggersi
contro la concorrenza sleale dello straniero.
Ora, se un interesse
particolare è minacciato dall'arrivo di un concorrente, non può mai essere
vero che sia in causa l'interesse di tutti: gli altri commercianti della
strada beneficieranno, come consumatori, della possibilità di avere un pane
migliore e meno caro. Peraltro, se il nostro panettiere potesse essere
protetto efficacemente e per sempre da ogni concorrenza, sarebbe
evidentemente indotto a vendere del pane sempre meno buono e sempre più
caro. Ed essendo il futuro sempre sconosciuto, è del tutto possibile che il
nostro panettiere sia portato a modificare le proprie abitudini a causa
dell'apparizione di un concorrente. Egli provvederà, forse, a cambiare la
propria attività e venderà dolci che saranno apprezzati da tutta la città,
oppure partirà per altri lidi dove farà fortuna.
Lo stesso ragionamento
è valido per la mondializzazione: che risulti da una liberalizzazione degli
scambi o dall'emergenza di nuovi produttori, essa colpisce necessariamente
alcuni produttori ed alcuni salariati, ma non è, e non può essere, una
causa di impoverimento generale. I problemi con cui si confrontano
attualmente molti Paesi europei - debole crescita economica, forte
disoccupazione - non sono settoriali ma globali. Essi, dunque, non possono
essere il risultato della mondializzazione, che senza dubbio può nuocere ad
alcuni settori particolari, ma di certo non all'insieme delle attività
economiche.
Anche se ha effetti
negativi per alcuni, la mondializzazione contribuisce necessariamente
all'arricchimento dei cittadini dei nostri Paesi. Se i nuovi concorrenti
sembrano porre dei problemi, ciò è dovuto al fatto che essi si lanciano in
nuove attività che altri Stati erano dapprima i soli ad esercitare. Questo
vuol dire che tali Paesi emergenti sono impegnati in processi di crescita.
Ora - qualunque commerciante lo sa bene - è meglio effettuare scambi con i
ricchi che con i poveri. Più la crescita sarà forte nei Paesi emergenti,
più di conseguenza la loro concorrenza si farà sentire in alcuni settori e
più noi acquisiremo vantaggi dagli scambi che potremo fare con essi.
Non dimentichiamo,
poi, un altro elemento. Più i Paesi emergenti eserciteranno una concorrenza
con i produttori europei ed esporteranno verso l'Europa, più essi
riceveranno in cambio monete europee. Poiché; non è loro interesse
accumulare all'infinito queste monete senza utilizzarle in maniera diretta o
indiretta, essi le spenderanno per acquistare beni dai produttori europei.
Questi Paesi sono sempre più presenti nel circuito generale degli scambi e
tutti traggono profitto da questa espansione. Se si considera un solo
aspetto - il fatto che i produttori europei subiscano una maggiore
concorrenza - non si ha una visione complessiva del problema. Ma un po' di
riflessione permette di andare al di là delle impressioni superficiali.
Ma è perché; ci si
accontenta di impressioni superficiali che si accusa frequentemente la
mondializzazione di essere all'origine dei problemi di disoccupazione di cui
soffrono molti Paesi sviluppati. In realtà, questi problemi esistono non
perché; posti di lavoro sono eliminati, ma perché; se ne creano pochi di
nuovi. Prendiamo il caso di un'economia con un alto tasso di crescita:
questo non è dovuto al fatto che la dimensione delle attività tradizionali
aumenta costantemente, ma all'apparizione di nuove attività e allo
spostamento dei fattori di produzione dalle attività tradizionali verso
quelle nuove ed innovative. Se si impedisse l'eliminazione delle attività
sorpassate, la crescita sarebbe impossibile (se si fossero voluti mantenere
ad ogni costo i produttori di candele, lo sviluppo dell'elettricità non si
sarebbe mai realizzato). Ogni tipo di crescita è il risultato, dunque, di
un processo di distruzione-creazione.
Ciò che bisogna
deplorare nei Paesi in cui la crescita è debole e la disoccupazione
elevata, non è il fatto che alcuni posti di lavoro siano distrutti - per
esempio, a causa della concorrenza straniera - ma piuttosto il fatto che non
se ne creino di nuovi. Non è certo la concorrenza dei Paesi a basso
salario, con ampia manodopera non qualificata, che impedisce il rapido
sviluppo delle nuove attività. La causa della debole crescita e della
disoccupazione elevata nei Paesi europei si trova al loro stesso interno e
non nella concorrenza straniera. Certo, è sempre comodo, per l'opinione
pubblica e per i politici che la modellano, invocare capri espiatori
esterni: i produttori di petrolio, in passato, o i Paesi emergenti. Ma la
verità è che gli ostacoli alla crescita ed all'occupazione sono interni.
Prendiamo l'esempio del sistema tributario (tasse e contributi sociali) (4).
I nostri sistemi sono strutturati in modo tale che essi puniscono
costantemente gli sforzi di risparmio, di lavoro o d'innovazione.
Consideriamo il caso di un imprenditore che lancia un nuovo progetto. Se
fallisce, ne subisce direttamente tutte le conseguenze. Ma se ha successo,
se ottiene cioè un profitto, la maggior parte di questo gli viene
confiscato dallo Stato e dagli organismi di protezione sociale. Ora, meno
imprenditori ci saranno, meno saranno le nuove produzioni e i posti di
lavoro. Invece di focalizzarsi sui pretesi rischi della mondializzazione,
converrebbe dunque ridurre gli ostacoli interni che limitano il benessere.
Questa tendenza
generalizzata ad addebitare a cause esterne le proprie carenze è
all'origine anche delle frequenti proposte di ambienti politici, miranti a
introdurre una "clausola sociale" nei trattati internazionali in
modo da evitare o ridurre il cosiddetto dumping sociale. Secondo i
sostenitori di questo tipo di provvedimenti, occorrerebbe imporre a coloro
che beneficiano della liberalizzazione commerciale l'adozione di
legislazioni sociali simili a quelle dei Paesi sviluppati. In verità,
l'idea stessa di dumping sociale è contestabile, prima di tutto perché
l'uso di questo termine è errato. Il dumping è infatti una pratica che
consiste nel proporre prezzi differenti a seconda che gli acquirenti siano
nazionali o stranieri (5). In modo più generale, quando si parla di
dumping sociale, di solito si intende dire che i produttori stranieri
beneficiano di condizioni migliori di quelli nazionali. Questi ultimi
sarebbero pertanto svantaggiati da una concorrenza "sleale" e
bisognerebbe proteggerli o imporre le stesse condizioni di produzione agli
stranieri.
L'argomento abituale
consiste nel dire che la concorrenza, per essere "giusta" ed
efficace, dovrebbe essere organizzata e che occorrerebbero regole del gioco
identiche; altrimenti l'imprenditore francese o italiano (che deve
rispettare, per esempio, una severa legislazione sociale e pagare contributi
sociali elevati) non potrebbe resistere alla concorrenza dei produttori di
altri Paesi dove queste regole e tasse non esistono. La concorrenza non si
tradurrebbe, allora, in un maggior benessere, perché; condurrebbe alla
rovina le imprese sottoposte a un carico più forte di quello delle loro
concorrenti.
Per i difensori di
questa tesi, sarebbe dunque pericoloso permettere la concorrenza dei
produttori esterni senza cercare di armonizzare le condizioni della
concorrenza, obiettivo che ci si sforza di perseguire in seno all'Unione
europea. Questo implicherebbe, in particolare, l'esercizio di una pressione
all'esterno per fare in modo che il costo di utilizzo della manodopera si
conformi a quello europeo. Una delle ragioni per le quali questi costi
possono differire si trova negli scarti dei salari reali. Su questo punto ci
siamo già intrattenuti in precedenza.
Ma un'altra ragione
risiede nelle regolamentazioni e nei regimi fiscali. Ammettiamo per un
istante che il ragionamento di chi invoca l'introduzione di una
"clausola sociale" negli accordi di liberalizzazione commerciale
sia corretto. Una tale richiesta presuppone implicitamente che la nostra
legislazione sociale sia la migliore che si possa concepire. In caso
contrario, sarebbe ugualmente legittimo chiedere che i produttori francesi o
italiani non debbano subìre uno svantaggio superiore agli altri, chiedere
cioè che vengano soppresse le legislazioni sociali loro imposte.
Ma perché;
l'armonizzazione dovrebbe farsi a senso unico? Questa idea è ancor più
criticabile, perché; ci sono buone ragioni per credere che il carattere
collettivista della legislazione sociale dei Paesi europei, per i suoi
effetti deresponsabilizzanti e per le sue rigidità, sia una delle cause
principali della disoccupazione. Imponendo una "clausola sociale"
agli altri Stati vogliamo dunque imporre loro, di fatto, gli stessi mali di
cui soffriamo noi? Se gli abitanti di un Paese subiscono una legislazione
soffocante e un fiscalismo rapace, questi non diventano meno soffocanti e
meno rapaci solo perché sono "armonizzati". Una politica deve
essere apprezzata anzitutto dal punto di vista delle sue conseguenze interne
e non per considerazioni basate su pretese disuguaglianze internazionali...
Ma bisogna spingersi
più in là e comprendere che l'obiettivo stesso di un'armonizzazione - per
esempio, secondo la formula di una "clausola sociale" - è
assurdo. Si sostiene, infatti, che i produttori di un Paese non potrebbero
essere competitivi se dovessero subìre la concorrenza di produttori
stranieri non sottomessi alla loro stessa legislazione sociale: questa
nozione di competitività "globale" di un Paese è priva di senso.
La competitività, infatti, è sempre un concetto relativo, come è stato
dimostrato in modo inconfutabile dalla teoria della specializzazione
internazionale, teoria che sarebbe urgente diffondere e far conoscere. E' a
causa del fatto che tutti i produttori non producono nelle stesse condizioni
di costo che essi hanno interesse a scambiare. Ogni produttore, ogni essere
umano, trae vantaggio specializzandosi nelle produzioni che egli sa
realizzare nel modo migliore, tenendo conto dell'ambiente in cui vive.
Volendo armonizzare le condizioni di concorrenza si finisce per rendere
inutile lo scambio e per impoverire tutti.
Se un individuo, o un
imprenditore, è competitivo nella produzione di un bene che vende sul
mercato, è perché; egli non è competitivo per altre attività. Le sue
capacità relative in un'attività rispetto alle altre lo incitano a
specializzarsi in questa produzione e ad acquistare gli altri prodotti. Ciò
che è vero per un individuo o per un'impresa, è vero per un insieme di
individui o di imprese, per esempio quelli che fanno parte di un Paese. Se i
produttori italiani esportano certi beni e sono competitivi in queste
attività, è perché essi non sono competitivi nelle altre. Questi due
aspetti sono assolutamente inseparabili.
Se si arrivasse
effettivamente a fare accettare la "clausola sociale", si
fornirebbe, dunque, una protezione implicita alle attività nazionali per le
quali la legislazione sociale è relativamente sfavorevole, ma questo
vantaggio sarebbe ottenuto necessariamente a spese delle altre attività. Più
precisamente, la "clausola sociale" favorirebbe le attività che
utilizzano una grande quantità di manodopera poco qualificata, ma a spese
delle attività che necessitano di capacità intellettive di alto livello.
Questa politica non rappresenta certo la scelta migliore da effettuare per
la crescita economica e, in definitiva, per l'occupazione.
Contemporaneamente, si ridurrebbe il vantaggio di competitività degli altri
Paesi (generalmente meno sviluppati) nelle attività di manodopera, ed essi
sarebbero probabilmente incoraggiati a fare concorrenza in altri settori
(fatto che di solito viene dimenticato). Dunque, nel momento stesso in cui
gli Stati sviluppati si mettono continuamente la coscienza a posto
attraverso un preteso aiuto allo sviluppo, si vuole impedire a quei Paesi di
sfruttare al meglio le loro specializzazioni naturali del momento.
Riassumendo, i
produttori europei, e in particolare quelli francesi e italiani, sono
paralizzati dal peso eccessivo della regolamentazione e del fisco. Non è
certo paralizzando i produttori degli altri Paesi che si miglioreranno le
loro prestazioni: questa è la ragione per la quale si debbono considerare
come pericolose quelle proposte che consistono nel far dipendere la
liberalizzazione commerciale dall'accettazione, da parte degli altri Paesi,
della legislazione sociale italiana, francese o europea. Non bisogna
confondere il nemico: le cause della disoccupazione sono puramente interne.
Quanto alla libertà
degli scambi internazionali, essa, ben lungi dal distruggere posti di
lavoro, costituisce un fattore di arricchimento e di dinamismo. Le imprese
europee devono ottenere maggiore libertà, maggiore flessibilità sul
mercato del lavoro, meno regolamenti e meno prelevamenti. Questa è l'unica
condizione per una diminuzione della disoccupazione. Ma l'introduzione di
una "clausola sociale" - che dovrebbe "armonizzare" le
condizioni di produzione - non potrebbe che diminuire il considerevole
guadagno che una liberalizzazione mondiale degli scambi ci procurerebbe.
(Traduzione
di Paolo Modugno)
Note
1) Le stesse persone
che si sono ufficialmente rallegrate per la caduta del muro di Berlino
sarebbero dunque pronte a ricostruire un "muro"economico!
2) Questa proposizione
trova un'applicazione particolare nel campo dell'economia internazionale
sotto il nome di "principio dei vantaggi comparati".
3) Questa ipotesi è
conosciuta come "ipotesi di Heckscher-OhlinÓ, dal nome dei due
economisti svedesi che ne hanno sviluppato le implicazioni. Si può
interpretare la loro teoria come un'illustrazione generale della teoria dei
vantaggi comparati, sintetizzandola in questi termini: anche se le tecniche
sono identiche in tutto il mondo per tutte le attività - contrariamente
all'ipotesi che era stata fatta anteriormente da David Ricardo - lo scambio
internazionale è possibile e vantaggioso, dal momento che esistono
dotazioni relative in fattori di produzione, differenti secondo i Paesi.
4) Su questo tema ci
si potrà riferire al mio volume, La tirannia fiscale, Liberilibri,
Macerata, 1996.
5) Anche un cinema che
offre biglietti meno costosi agli studenti fa del dumping.
Pascal
Salin |
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