Congetture & confutazioni
IL LAVORO NON SI CREA
PER DECRETO

di Emma Marcegaglia

Che la disoccupazione rappresenti il grande dramma di questo secolo è ormai sentire comune, condiviso da tutti gli attori politici e sociali. Che questo dramma abbia origine da rigidità di carattere strutturale e quindi richieda interventi a carattere permanente mirati a modificare i meccanismi e la struttura del mercato del lavoro, sembra invece appartenere esclusivamente al dibattito tra esperti. Il problema della disoccupazione si deve affrontare aumentando il livello di flessibilità del mercato del lavoro. È una conclusione che emerge da tutti gli studi a carattere scientifico sull'argomento: è la principale conclusione del Rapporto del Centro studi di Confindustria sull'occupazione, recentemente presentato a Piacenza, ma anche dell'ampio studio dell'Ocse sul mercato del lavoro di alcuni anni fa, e del Rapporto della Commissione europea su "Crescita, competitività e occupazione". Nell'arena politica si continuano invece a proporre misure di sostegno all'occupazione attraverso l'aumento della spesa pubblica, seguendo un copione adottato negli ultimi vent'anni e la cui inefficacia è evidenziata dai numeri a tutti conosciuti. Queste misure per definizione non possono che essere temporanee e continuano ad alimentare la convinzione errata che vi sia una sorta di opzione alternativa tra occupazione ed equilibrio dei conti pubblici. Per cui si vengono a formare il partito dell'Europa, impegnato nel raggiungimento dei parametri di Maastricht, e il partito dell'occupazione, sostenitore di una politica della spesa. La situazione diventa ancora più confusa per il fatto che ambedue questi partiti sono presenti nell'attuale governo, che si trova nella situazione paradossale di continuare ad aumentare la pressione fiscale pur di riuscire a riportare il disavanzo entro la soglia europea, continuando ad aumentare la spesa pubblica.

Si è detto che la disoccupazione si dovrebbe affrontare attraverso il sostegno alla domanda, anche a costo di un aumento dell'inflazione. Ma chi sostiene ciò dimentica che oggi la riduzione dell'inflazione non è più un'opzione. In un'economia con mercati finanziari globali non possiamo ignorare che, senza un'inflazione bassa e un miglioramento dei conti pubblici, i tassi d'interesse rimangono elevati. Se i tassi rimangono elevati e il costo del lavoro riprende a crescere a tassi notevolmente superiori a quelli degli altri Paesi, le imprese non possono sostenere la competitività sui mercati internazionali e nazionali. È questo che determina l'andamento dell'occupazione. Anche un keynesiano come Modigliani oggi sostiene che, prima di pensare al sostegno della domanda, dobbiamo raggiungere condizioni di stabilità dei prezzi e dei salari. Inoltre, è dimostrato che un fattore chiave nel determinare l'andamento della domanda è l'andamento della fiducia delle famiglie. Questa dipende solo in minima parte dal reddito. Dipende molto di più dalle aspettative di occupazione e di inflazione, e dalla stabilità politica e macroeconomica del Paese.

Secondo altri sarebbe la globalizzazione la principale causa della caduta occupazionale. È invece evidente a chiunque sia in grado di uscire dalla miopia del breve periodo che la globalizzazione può significare grandi opportunità di crescita. Pensiamo, ad esempio, allo sviluppo delle nostre esportazioni nei Paesi dell'Est europeo. Queste sono aumentate a tassi vicini al 40% annuo negli ultimi cinque anni e il loro peso sulle esportazioni totali si è fortemente avvicinato a quello dell'intera area del Nord America. Come ha più volte sottolineato anche Renato Ruggiero, non è la globalizzazione che distrugge posti di lavoro. L'esempio degli Stati Uniti d'America, il Paese più avanzato nell'adattare la società alle nuove regole imposte dai mercati globali, dimostra che tali regole possono dare luogo a una forte crescita occupazionale. Possiamo discutere su come compensare gli eventuali effetti negativi di questo nuovo sistema, ma occorre in primo luogo riflettere sul fatto che oggi non esistono più strade alternative per creare occupazione. Chi sostiene il contrario ha ancora pochi anni di credibilità da spendere sul piano politico.

Chi invece sostiene queste posizioni è in genere un sostenitore dello status quo, dell'attuale modello di Stato sociale, dell'attuale struttura del mercato del lavoro. Ma è una classe sociale in via di estinzione. Sono cioè gli insider al sistema, i lavoratori tenacemente attaccati al sistema di garanzie, da cui venivano fortemente protetti ma che dava loro poche possibilità di miglioramento. Sono quelle persone che, a fronte di un rischio minimo di perdere il lavoro, di avere aumenti retributivi inferiori ai colleghi per scarso merito, di non riuscire a far fronte alle spese mediche o alle esigenze della terza età, accettavano una bassa soddisfazione sul lavoro, una carriera lenta o inesistente, una scarsa efficienza e qualità dell'assistenza medica. Oggi si stanno affermando sempre più nuove realtà sociali, nuovi lavori e aspirazioni. Nella piccola e micro industria, nell'organizzazione moderna della grande industria, nell'emergere di nuovi servizi per le imprese e la società, cresce una fortissima esigenza di flessibilità nel lavoro, nella possibilità di carriera, nell'intraprendere e nell'innovare. Una nuova classe sociale impegnata ad aprirsi ai mercati globali e preparata ad affrontare le sfide competitive che essi comportano.

Flessibilità significa certamente flessibilità salariale ma non solo. Significa flessibilità nella tipologia dei contratti, lavoro interinale, flessibilità nell'orario di lavoro. Ma significa anche un sistema efficiente ed efficace di collocamento per favorire la flessibilità in entrata. E significa una riforma degli ammortizzatori sociali, nel senso di garantire a chi rimane temporaneamente disoccupato di avere un sostegno al reddito se pur limitato nel tempo. Non esiste altra strada per risolvere il problema della disoccupazione. Non è giusto continuare ad illudere i giovani disoccupati, facendo loro credere che il governo sia in grado di creare 100mila posti di lavoro per decreto. L'idea che la politica possa creare occupazione risponde a una triste pratica di acquisizione del consenso elettorale che evidentemente non morirà mai.

Emma Marcegaglia


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1997