Feuilleton
I MIRACOLI DI SAN BREZNEV
di Valerio
Riva
Quando diventai direttore della divisione libri della
Rizzoli, agli inizi degli anni Ottanta, la prima cosa che feci, com'era
naturale, fu di farmi portare i tabulati delle tirature e delle vendite. La
Rizzoli è una casa editrice ben organizzata e quei tabulati erano uno
strumento affidabile. Passai alcuni giorni a leggerli e rileggerli (c'erano
migliaia di titoli), e a un certo punto mi colpì il fatto che tra gli
autori figurasse anche il nome di Leonid Breznev. Non mi ricordavo di aver
mai visto il libro Rizzoli con quell'autore in copertina. Guardando più
attentamente, vidi che il titolo (non ricordo se fosse Memorie di oppure
Opere di o qualcosa del genere: nei tabulati i titoli vengono sempre molto
compressi e sintetizzati) denunciava seimila copie di tiratura e seimila e
nove copie di resa. Scoppiai in una risata così fragorosa che la segretaria
venne dalla stanza accanto per vedere se fossi per caso uscito matto.
Non aveva poi tutti i torti. Era proprio una cosa da
matti. Quelle nove copie in più, magicamente clonate nel passaggio dalla
tipografia al banco del libraio e ritorno, erano una prova
incontrovertibile: se uno dei capi più amati, più venerati e più durevoli
del socialismo reale (durato infatti molto più di Lenin, solo un po' meno
di Stalin e di Togliatti) era capace, come Gesù Cristo, di moltiplicare
oltre che i pani e i pesci, anche le copie dei suoi propri libri, e non solo
in Urss (dove questi miracoli, com'è noto, erano all'ordine del giorno) ma
anche di qua dal muro di Berlino, chi mai poteva aver dubbi sulla superiorità
morale e materiale del comunismo?
Certo, visto con occhi di marci capitalisti, quello che,
rinascimentalmente, si potrebbe chiamare il "miracolo brezneviano delle
nove copie" poteva anche essere spiegato in altro modo. Terra terra:
che la tipografia avesse consegnato qualche copia in più delle ordinate,
giusto come coda di lavorazione o salvaguardia nei confronti di avarie e
scarti. Matter of fact: che quel liber magnus del grande Breznev (non l'ho
letto, ma immagino un capolavoro inimitabile) fosse stato dalla Rizzoli
comprato, pagato, tradotto, editato, stampato, rilegato, cellofanato, e poi
direttamente impacchettato e mandato in magazzino, in attesa del macero.
Senza mai passare per una libreria. Come dire: alcune centinaia di milioni
buttati direttamente nella spazzatura.
Quando poi andai al primo piano di via Rizzoli, in
presidenza, per chiedere (ridacchiando) lumi su quelle nozze di Cana
editoriali, né Bruno Tassan Din né Angelo Rizzoli jr., che erano i padroni
del vapore dell'epoca, mi seppero dare una spiegazione convincente. Angelo,
se non ricordo male, parlò vagamente di un certo viaggio a Mosca, e di un
"omaggio" che si era dovuto fare nell'occasione. Insomma: una
mazzetta comunista (nei tabulati, alla casella "diritti", al posto
della cifra dell'anticipo figurava uno spazio bianco). Non osai chiedere se
la mazzetta fosse stata pagata di qua o di là dal Muro. Tassan Din, per
conto suo, invece di rispondermi mi mandò, di lì a qualche mese, un
deputato del Pci (di quelli con scritto in faccia "agente del
Kgb"), latore di una nuova proposta: un libro quasi simile, ma stavolta
di Cernienko (nel frattempo, io avevo fatto fare a un famoso dissidente
russo un libro su Andropov, cosa che non piacque al soviet di redazione).
Breznev, Andropov e Cernienko morirono a poca distanza
l'uno dall'altro. Il libro di Cernienko, tuttavia, non si fece, non perché
il suo autore fosse morto prematuramente, ma solo perché finì prima in
galera Tassan Din (la mazzetta, si vede, stavolta non aveva funzionato). Ma
è probabile che sulla decisione di mandare subito al macero quello di
Breznev avesse davvero influito la notizia della sua (non certo prematura)
scomparsa: morto l'autore, era meglio limitare i danni. Con quello che si
era speso prima, era già un bene almeno risparmiare le spese di
distribuzione.
Ripenso sempre a quel miracolo di san Breznev, quando
sento le lamentele di molti intellettuali liberali sul controllo che la
sinistra avrebbe esercitato sull'editoria nazionale: per venti o trent'anni,
dicono alcuni (e non hanno torto); per quaranta, cinquanta, sostengono altri
(sono meno d'accordo). E sul fatto che tale ferreo controllo abbia causato
la sostanziale emarginazione dal panorama librario italiano della cultura di
destra o comunque anticomunista. Qualcuno arriva fino al punto di sostenere
(non senza qualche ragione) che la cultura di sinistra ha avuto negli ultimi
decenni, tra noi, una tale vitalità o per lo meno una tale aggressività
non solo da imporsi sulla cultura della destra praticamente cancellandola,
ma addirittura fagocitandola e assimilandola al punto da trasformarla
anch'essa in cultura di sinistra.
Non dico che queste considerazioni non siano vere.
Riscontri nella realtà ne hanno, e non sarebbe difficile fare un elenco dei
recenti casi di simile pantagruelismo (o uranismo) culturale. Dico solo che
trasformare gli ultimi venti o trent'anni di editoria italiana in una specie
di cena di Trimalcione di sinistra mi sembra un po' riduttivo. E mi domando
preliminarmente se sia poi tanto vera la premessa di quel ragionamento. E
cioè mi chiedo: ma è poi esistita davvero la cultura di sinistra in
Italia? Ed è vero che sia stata tanto vitale, aggressiva, onnipervasiva? Se
così fosse, perché oggi di colpo scopriamo tutti, adesso che è andata al
potere, che la cultura di sinistra è vuota, fumosa, incoerente? Che non è
stata capace di creare una classe dirigente? In breve: che non esiste? E se
non fosse addirittura mai esistita? È mai possibile, infatti, che tutto si
spieghi col fatto che D'Alema sia più scemo di Longo? Che Fassino sia più
cretino di Pajetta?
Io credo che la spiegazione vada trovata da un'altra
parte.
Esiste una legge in editoria (che è poi una legge che
viene dall'industria in generale) per la quale il 20 per cento delle case
editrici fa l'80 per cento del fatturato; e viceversa, che l'80 per cento
delle case editrici fa il 20 per cento del fatturato. La legge si può
applicare anche agli autori: il 20 per cento degli autori (quelli che
vengono in genere indicati come autori best-seller) producono (o si
appropriano, a seconda del punto di vista) dell'80 per cento del
fatturato/diritti; mentre l'80 per cento degli autori (quei poveracci che
non riescono a vendere più di mille-duemila copie e magari anche molto
meno) formano, con il loro miserabile 20 per cento di fatturato/diritti, lo
strame necessario per permettere ai grandi autori di portarsi via la maggior
parte della torta.
Questa legge (con i dovuti adattamenti) si può applicare
anche al rapporto sinistra-editoria. In certi settori del catalogo
editoriale (la pubblicistica politica, la filosofia, la sociologia, la
saggistica di un certo tipo, la storiografia - specie quella contemporanea -
ma anche la narrativa, la saggistica letteraria, insomma le humanae litterae
in senso lato) non c'è dubbio che negli ultimi venti-trent'anni la sinistra
in Italia l'abbia fatta da padrona. Diciamo pure che abbia occupato l'80 per
cento del catalogo. Di conseguenza, costringendo il resto dentro un angusto
20 per cento scarso, e in certi momenti (per esempio, gli anni Settanta)
anche meno. Ma se si va a vedere quanto ha reso questo 80 per cento di
catalogo (parlo in generale) in termini di fatturato, allora si scopre che
non supera il 20 per cento del totale. Talora, addirittura molto meno.
Insomma voglio dire che (sbrigativamente parlando,
s'intende) se è vero, come è vero, che i libri "di sinistra"
hanno occupato per due o tre decenni la gran parte del catalogo editoriale,
lo hanno potuto fare solo perché le spese della produzione editoriale
venivano pagate (spesso fin troppo generosamente) da libri che,
genericamente, potremmo definire "di destra". E, più
sbrigativamente ancora, che la cultura di sinistra si è mantenuta
floridamente per tutto questo periodo come una gran sanguisuga che si è
attaccata alla cultura, diciamo così, "di destra" e ne ha
succhiato (o sperperato) tutto il sangue e i profitti.
Facciamo qualche esempio, clamoroso? Parlo di cose che
conosco e lascio volentieri a qualche avventuroso studente di sociologia e
di statistica di dimostrare con dati di fatto, numeri, cifre, proporzioni e
percentuali quel che sostengo un po" apoditticamente (e sarebbe
comunque una bellissima tesi di laurea). Ripensate a Giangiacomo
Feltrinelli. Un editore di sinistra, per la maggior parte della sua vita
editoriale. In certi momenti, nel Sessantotto, un grande e copioso editore
di sinistra. Con che cosa si sarebbe pagato tutti i suoi innumerevoli
librettini rossi, se non con i soldi fatti con libri come Il dottor Zivago o
Il gattopardo? Libri "di destra", non solo per quel che c'era
dentro, ma anche perché così venivano classificati dalla pubblicistica di
sinistra.
Ricordate le liste dei libri "da leggere" e da
"non leggere" dei Quaderni piacentini? Quelli "da
leggere" erano titoli di cui si vendevano mediamente tre copie; quelli
"da non leggere", dei best-seller da decine, centinaia di migliaia
di copie. Ma l'editoria è un'industria, vive di profitti, o per lo meno di
ricavi. E i profitti e i ricavi li facevano, anzi li fanno ancora i libri
"da non leggere"; mentre quelli "da leggere" potevano
essere pubblicati solo da editori che campassero sugli altri libri. Se ne
sono ben accorti quegli editori "politicamente corretti" ma
imprenditorialmente sprovveduti che negli anni Settanta - persuasi ormai che
la cultura di sinistra avesse conquistato la terra - si sono limitati a
pubblicare i libri consigliati come "buoni" dalla sinistra.
Risultato? Hanno fatto fallimento. Qualcuno di loro, dopo essersi ridotto
alla canna del gas e aver dilapidato l'intero patrimonio familiare, si è
poi riciclato come intellettuale di destra, ma questo è un altro paio di
maniche.
Vorrei fare un esempio più recente, perché il lettore si
senta meno spaesato. Prendiamo Baldini & Castoldi. Editore intelligente,
abile, giustamente di successo. Il suo cavallo di battaglia, il suo
best-seller è la Tamaro. Libriccini di poche pagine. Miliardi di fatturato,
miliardi di profitti. Uno degli ultimi libri del catalogo Baldini &
Castoldi è (tanto per fare un esempio macroscopico) la biografia del Che
Guevara di Jon Lee Anderson. Libro di sinistra, autorizzato, politicamente
corretto, rivisto personalmente da Fidel Castro (dicono). Mille e cinquanta
pagine. Prezzo di copertina, 50 mila lire. Quante copie se ne venderanno? Se
va bene, diecimila copie. Diciamo, 500 milioni di fatturato. Togliamo, a
esser buoni, il 55 per cento di spese di distribuzione. Restano all'editore,
225 milioni. Cifra con cui l'editore deve pagarsi i diritti d'autore, la
carta, la stampa, la legatura, la pubblicità, le spese generali, gli oneri
bancari, le tasse. Il solo costo della traduzione supera, per lo meno, i 25
milioni.
Come fa a starci dentro? Non ci sta. O riceve un bonus
dall'Avana per pubblicare questo libro, oppure va in perdita. Se poi invece
di diecimila copie, ne vende (come credo probabile) duemila, la perdita
diventa un disastro. Chi paga la biografia politicamente corretta di Che
Guevara? Ma la Tamaro, naturalmente. Autrice che i nuovi "quadernisti
piacentini" classificano ormai come irrimediabilmente "di
destra".
Di recente ho scritto (indignando, per esempio, Michele
Serra) che un altro grande successo del Feltrinelli di sinistra è stato Cent'anni
di solitudine, e che anche questo è un libro di destra. E che il suo
autore, Garcia Marquez, è uno scrittore di destra travestitosi per
opportunismo da intellettuale "di sinistra". Apriti cielo! Io
credo di avere le mie buone ragioni, e le spiegherò un'altra volta. Voglio
soltanto qui dire che questo, a mio parere, è un caso tipico di
intellettuale che, essendo intimamente reazionario, si paga il lusso di
apparire "di sinistra" avendo successo con libri intrinsecamente
"di destra".
E non sarebbe neanche il primo caso. Vi prego, fate mente
locale: ricordate Louis Aragon? Caso ancora più interessante: qualche anno
fa, uno studioso russo emigrato nel 1979 negli Stati Uniti, Vladimir
Shlapentokh, ha scritto un bel libro per la Princeton University Press per
dimostrare come nel suo Paese la corrente degli scrittori
"russofili" (che intimamente erano quasi dei fascisti) riuscì a
conquistarsi uno spazio notevole nella pubblicistica sovietica spacciandosi
per più comunisti degli altri. Il che, naturalmente, la dice lunga anche su
cosa era il "socialismo reale" dell'Unione Sovietica...
Torniamo per un momento al "miracolo brezneviano
delle nove copie clonate". Qual è il senso finale e generale che si può
trarre da quella piccola, ridicola storia, in sostanza? Che negli ultimi
venti-trent'anni l'editoria italiana ha dovuto (o voluto) pagare la sua
sopravvivenza, stampando (e non vendendo) libri "di sinistra" come
quel fantomatico e mai letto capolavoro di Leonid Breznev, destinato in
partenza al macero.
Una storia da riderci sopra, tutto sommato? Mica tanto.
Perché tutti quei tanti, innumerevoli "miracoli editoriali"
destinati al macero hanno però costituito (non parlo qui adesso in
particolare del Breznev, beninteso) tanti titoli validi per accedere a
cattedre universitarie, per entrare nelle giurie dei premi letterari, per
accedere alle poltrone di controllo dell'editoria, della televisione, del
giornalismo, per essere eletti deputati o senatori, per diventare
consiglieri del Principe, eccetera. E per clonare a loro volta altri libri e
autori "politicamente corretti", e moltiplicare all'infinito
questa prolificante schiatta di extraterrestri.
Un'enorme, asfissiante produzione di spazzatura culturale
protrattasi per tre decenni, che ha dato come risultato ultimo il fatto,
ormai lampante, che il giorno in cui quelle idee e quei signori hanno preso
il potere nel Paese, si sono dimostrati incapaci di governarlo. E così come
allora vivevano e si riproducevano e si moltiplicavano per clonazione,
succhiando i profitti dei cosiddetti best-seller "di destra", così
adesso vivono sulle tasse che ci cavano di tasca giorno per giorno.
Valerio
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