Il
leviatano fiscale
NECESSITA' (E VIRTU') DELL'EVASORE
di Eugenia Cavallari
Per molti anni ci
siamo sentiti ripetere che esisteva una profonda e pericolosa
contrapposizione tra il Palazzo, cittadella fortificata del potere politico,
e la società civile, luogo in cui si agitavano, inermi, i comuni mortali.
Il teorema garantiva che corruzione, arricchimento illecito, poteri oscuri e
loschi traffici fossero tutti da una parte, mentre l'onesto cittadino,
incapace di far valere i suoi diritti, votava i partiti corrotti solo perché
truffato o ricattato. Alfiere di questa tesi era un partito che si proponeva
come diverso, e di questa diversità faceva non una qualità morale dei suoi
singoli esponenti, ma una categoria di giudizio politico. In altre parole,
la diversità, la moralità del Pci, "partito degli onesti", era
l'elemento che lo candidava a rappresentare la parte sana della Nazione.
Con la creazione e il
successo politico del Polo la tesi è stata modificata: non più una netta
contrapposizione tra società civile e classe politica, ma una spaccatura
verticale che coinvolge l'intero Paese, seguendo la linea Maginot del nuovo
voto maggioritario. A ciascuno il suo: da una parte un leader ricco e
probabilmente corrotto e corruttore, alla guida di un popolo di evasori e di
impellicciata classe media legata alla ricchezza facile della prima
Repubblica. L'immagine proposta è quella di una borghesia gretta, incapace
di esprimere valori morali, solidarietà sociale, e men che meno cultura,
che giustamente si riconosce in un personaggio da affidare alla magistratura
(si tratti di Borrelli o di Caselli, di mafia o tangenti, non fa differenza,
l'importante è indagare: su Berlusconi prima o poi qualcosa si troverà).
Dall'altra parte,
invece, sempre quella inamovibile quota di altruisti disinteressati,
contentissimi di pagare sempre più tasse, se queste servono a
prepensionare, cassintegrare, e variamente assistere. Bisogna mantenere in
vita lo Stato sociale, anche se non può essere ormai che l'ombra di se
stesso; ma è un concetto irrinunciabile che fornisce ancora un ultimo
residuo di identità culturale alla sinistra, cattolica e non.
Questo modello, anche
dopo gli aggiornamenti di cui abbiamo detto, è ovviamente una versione di
parte, che tende a salvare l'immagine di diversità del Pci-Pds,
scorporandolo dalle responsabilità "collaborazioniste"della prima
Repubblica, e offrendo una forte motivazione etica come sostituzione della
perduta intensità ideologica. La realtà è che è difficile scindere i
buoni e i cattivi con un taglio così netto, e che la partitocrazia, a cui
il Pci partecipò pienamente, non era un cancro che guastava un corpo sano.
Il rapporto tra classe politica e società civile era piuttosto una stretta
simbiosi tra un paguro Bernardo e la sua attinia, una reciproca concessione
di scambi e favori leciti e illeciti. L'occupazione della società civile da
parte dei partiti è stata, più che un regime del terrore, una
colonizzazione, diventata rapidamente un sistema integrato a cui nulla
sfuggiva. Il modello di sviluppo economico, che si è venuto così
delineando, è stato un modello tutto italiano, difficile da ricondurre ad
altri, proprio perché plasmato su questo particolare legame tra pubblico e
privato, costituito dall'invadente onnipresenza partitica.
Perché, dovendo
parlare di evasione, diciamo tutto questo? Perché sembra difficile capire
l'atteggiamento culturale nei confronti della figura dell'evasore, e la
sempre più viva insofferenza dei contribuenti italiani, senza ricostruirne
la genesi, che è nell'uso dello strumento fiscale e delle risorse pubbliche
fatto dai partiti fino alla disgregazione della prima Repubblica.
Il sistema
partitocratico, infatti, già negli anni Ottanta ha cominciato a far
crescere al suo interno i germi che lo avrebbero portato alla crisi. Se una
spaccatura c'è stata, nella coscienza e negli interessi di questo Paese,
non era tra un mitico Paese sano e uno, altrettanto mitico, di rozzi
arricchiti: ma tra un'economia tutta dentro il recinto della partitocrazia,
e quindi della crescita del debito pubblico, e un'economia che cominciava a
crescere fuori e contro questi limiti e, avvertendo un crescente disagio, ne
diventava sempre più insofferente. Il discrimine, cioè, era tra chi era
nutrito dai privilegi, legali e illegali, distribuiti dai partiti, e chi era
abbandonato all'unico privilegio (illegale) consentito a chi agiva fuori da
quel riferimento, appunto l'evasione. In entrambi i casi si trattava di
soldi sottratti allo Stato, ottenuti in forma di benefici, o trattenuti come
tasse non pagate. Denaro pubblico entrato in circolazione, ma che ai primi
serviva solo per consumare, ai secondi anche per produrre.
Da una parte, dunque,
la distribuzione di tangenti contro appalti, di posti di potere pubblico
contro favori, e così via fino ai livelli più bassi, costituiti dagli
affitti semigratuiti, dai privilegi sindacali, dalla moltiplicazione di
posti pubblici come antidoto alla disoccupazione. Dall'altra parte, la
possibilità di arricchirsi anche al di fuori di questa distribuzione, negli
spazi residuali che i partiti non potevano controllare o della cui esistenza
non si accorgevano. Questa possibilità non si attuava, però, grazie a un
sostegno legislativo e a un'offerta di servizi, ma attraverso un vuoto di
punizione, un'assenza dello Stato. Era, da parte del potere politico, una
complice strizzatina d'occhi, che assicurava la liceità sostanziale
dell'evasione, per fare poi la voce grossa, appena si fosse tentato di
modificare gli equilibri strutturali del rapporto fra entrate fiscali, spesa
pubblica e partiti.
Questa
contrapposizione è visibile se analizziamo anche superficialmente la
politica della spesa pubblica degli ultimi dieci o quindici anni che
precedono le elezioni del 1994, e quella dei ricorrenti condoni fiscali.
Riemergono, ogni tanto, tentativi di calcolare il debito pubblico
considerando gli ipotetici contributi che l'evasione ha sottratto alle casse
dello Stato. I risultati, naturalmente, sono eclatanti: si rinfocola l'idea
che il vero problema italiano sia nell'alto tasso di evasione. Se l'evasione
non ci fosse stata, si afferma, il debito pubblico sarebbe circoscritto
entro limiti tollerabili, potremmo evitare di fare sacrifici, entreremmo in
Europa a testa alta e tasche piene.
Ma si sa che la storia
non si fa con le ipotesi e i se, bensì con le analisi sui come e i perché:
e la concreta storia del nostro debito pubblico non consente ipotesi del
genere. Anzi.
Proviamo, infatti, a
rovesciare l'ipotesi: se tutti gli italiani, colti da improvviso senso di
responsabilità nei confronti dello Stato, avessero pagato le tasse, cosa
sarebbe successo? Avrebbero cambiato moralità e costume politico i nostri
parlamentari di fronte alla legge finanziaria? Sarebbero cambiate le
attitudini assistenziali a fondo perduto sindacal-comuniste? I fondi per la
ricostruzione in Irpinia sarebbero stati usati con più oculatezza, il
comune di Milano avrebbe avuto un diverso rapporto con industriali e
appaltatori?
Diciamo, dunque, la
probabile verità: ci sarebbero soltanto stati più soldi per i partiti, e
meno soldi per l'arricchimento personale dei cittadini. Questo può forse
apparire un bene all'onesto Pci-Pds, che su quel sistema, insieme agli
altri, ha campato, ma non può essere contrabbandato come la panacea per il
debito pubblico o la pubblica moralità.
Non c'era relazione
tra risorse e debito: quest'ultimo è sempre cresciuto su logiche e necessità
interne, senza progetto, che tendevano inesorabilmente ad automoltiplicarsi.
Non c'è mai stato un tetto e nemmeno un programma di spesa: il debito è
aumentato su se stesso, senza riferimento alla disponibilità effettiva. Non
solo. Come ormai è stato più volte ripetuto, questa politica ha coinvolto
tutti i partiti della prima Repubblica, che, con piccolissime eccezioni,
hanno sempre votato concordi le leggi di spesa.
E' dunque insensato
ridurre tutto a una semplificazione aritmetica, più entrate uguale meno
spese. Il gioco era politico, e probabilmente assai più vicino, se mai,
all'equivalenza: più entrate uguale più spese, nell'euforico spreco che
sembrava non avere conti da rendere a nessuno, tantomeno a un elettorato in
buona parte reso complice. Lo conferma il fatto che il vortice debito-tasse
cominciava sempre dall'aumento della spesa, a cui doveva corrispondere poi
l'inevitabile aumento fiscale. Dentro un pozzo senza fondo, si può buttare
ricchezza all'infinito, senza che il risultato cambi. La verità - forse
sgradevole - è che l'evasione fiscale ha aumentato la ricchezza del Paese
sottraendo risorse allo spreco pubblico operato per tanti anni dai partiti e
mettendole nuovamente nel circuito produzione-consumo.
Per gli evasori, in
ultima istanza, c'è sempre stata la politica del condono. Una politica
impopolare perché proposta a mezza bocca, come misura estrema contro un
fenomeno criminalizzato ma che pareva non si riuscisse a colpire altrimenti.
Infatti, mentre si aggiungevano imposte per le categorie sospette di
evasione, si continuava a non conseguire (e a non voler conseguire)
apprezzabili risultati su questo fronte: il condono appariva, così, non un
possibile strumento per un approccio più duttile, ma solo un ultimo regalo
a chi faceva il furbo.
In realtà, l'evasione
era tollerata: non parlo solo di precisi e clamorosi casi (come il
catastrofico abusivismo edilizio meridionale, difeso a spada tratta dal Pci,
perché "povero", e sulle cui conseguenze ambientali ci sarebbe
molto da dire), ma di una politica generale che ha sempre alimentato
confusioni culturali e laissez vivre fuori dalle regole. Meglio mantenere
regole che non si possono rispettare piuttosto che cambiarle, e far vivere
metà della popolazione nell'illegalità e nel senso latente di colpa e di
inadeguatezza. Un cittadino che non paga le tasse può anche sentirsi furbo
ed essere magari sfacciatamente incurante e menefreghista, ma non può in
nessun modo costituirsi "parte civile" in causa, difendere
esplicitamente i propri interessi. è in qualche modo condannato alla
marginalità civile, all'incultura, alla sudditanza politica: non potrà
essere rappresentato, né essere rappresentativo. Non voglio fare
generalizzazioni antropologiche, né indagini psicologiche; non mi interessa
se, singolarmente preso, questo cittadino è effettivamente rozzo o
raffinato, egoista o inerme, dignitoso o indifendibile. Dico che nel gioco
conflittuale degli interessi e dei gruppi sociali, questa illegalità ha
privato alcuni ceti della possibilità di riconoscersi, di costituirsi come
gruppo, con una cultura politica o un'ideologia di riferimento.
L'evasione è stata di
fatto tollerata perché costituiva un bilanciamento al sistema dei privilegi
pubblici, e manteneva in vita un'economia "minore" che in Italia
invece si è dimostrata vincente, assai più ricca di iniziativa e vitalità
di quella della grande industria, protetta e ben rappresentata
politicamente. Mentre, infatti, quest'ultima ha purtroppo visto una serie
impressionante, fuori da ogni esempio europeo, di crac colossali (da
Ferruzzi a Olivetti, a Gemina: l'elenco è pesante), la piccola e media
impresa si è rivelata come il fattore trainante dell'economia italiana. Per
questa fascia, come per commercianti e artigiani, l'evasione è stata un
ammortizzatore sociale, che evitava che la parte non garantita della
popolazione chiedesse, oltre a qualche privilegio corporativo, scelte
politiche profondamente diverse.
E' chiaro infatti che,
oltre a bilanciare i privilegi distribuiti direttamente dai partiti o
tramite lo Stato, le maglie larghe del fisco consentivano di riequilibrare
anche altri privilegi, quelli prodotti dalla scelta di garantire in modo
rigido i diritti del lavoro dipendente. L'iniziativa privata rischiava in
molti casi, soprattutto considerando i costi umani e l'incertezza legata a
ogni impresa, di essere conveniente solo grazie al margine in nero sottratto
al fisco. La scontentezza, così ovattata, è rimasta però sempre in
un'area delegittimata dalla propria posizione di illegalità.
I privilegi
distribuiti dai partiti godevano invece della grande virtù della legalità,
e dunque della legittimità morale: non c'è difetto ad occupare case di
proprietà pubblica senza reale motivazione, né ad andare in pensione a
quaranta o cinquant'anni, anche se è grazie ai prepensionamenti che l'Inps
(vedi gli ultimi dati) è definitivamente al tappeto. Basta vedere le
reazioni scandalizzate dei detentori di appartamenti a due lire quando la
campagna del Giornale li ha costretti a giustificarsi
pubblicamente. In vari casi, e questo ci appare assai significativo,
l'interpellato ha risposto: ma andate a vedere gli evasori, quelli sì, sono
il vero scandalo!
Per la verità,
indicare l'evasore come pietra dello scandalo è un passepartout, buono per
tutte le occasioni. Lo può dire la pornostar censurata, il ministeriale col
doppio lavoro, il raccomandato Rai, il possessore di auto blu e telefonino a
sbafo, sicuri di strappare l'applauso della platea dei talk show. Anche
D'Alema, prima di decidere saggiamente di comprarsi casa, dichiarò che non
è un reato avere l'appartamento pubblico praticamente gratis. Infatti, non
lo è: questa è la meravigliosa attrattiva del privilegio statale e
partitico.
Che siano cose
legittime, non c'è dubbio, come che siano privilegi non guadagnati. E qui
entriamo in un'altra questione, la mancanza o l'insufficienza di una cultura
d'impresa, i cui corollari ineliminabili sono l'iniziativa privata e il
profitto. Non c'è bisogno di tornare sulla cultura italiana del posto fisso
o della raccomandazione, per sottolineare come l'intraprendere, e il suo
naturale esito, cioè un margine di guadagno tale da controbilanciare il
rischio d'impresa, siano a tutt'oggi guardati con sufficienza, additati al
pubblico orrore dalle trasmissioni di Santoro, esaminati con sospetto.
La creazione del
capitalismo italiano manca, del resto, di quella componente eroica e
avventurosa che in altri Paesi ne ha accompagnato la nascita e lo sviluppo.
Non ci addentreremo nel vasto dibattito sulle cause storiche di tali
mancanze, ci limitiamo a considerarne almeno una delle conseguenze: cioè
proprio quella spaccatura politica e culturale che ha portato l'elettorato a
una delle poche rivoluzioni italiane, quella che, in modo democratico ma non
indolore, ha radicalmente modificato un quadro politico che pareva
indistruttibile.
Perché, cari amici
del Pds, non è dal partito diverso, dalla figura austera di Berlinguer o da
quella più molliccia di Veltroni che nasce l'insofferenza al
consociativismo, alla partitocrazia, al "malgoverno democristiano"
di cui tanti anni fa si diceva, o al "rampantismo socialista" di
cui si diceva ancora pochi anni fa. Nasce dall'area sociale e morale della
cultura d'impresa, di rischio, di guadagno, di responsabilità personale, e
anche, in non piccola parte, dall'area dell'evasione fiscale.
Dall'antistatalismo e anticentralismo degli ambienti leghisti, dalla voglia
di efficienza e imprenditoria e ricchezza degli ammiratori del
"Berlusca". Si fa un errore di analisi pericoloso se si pensa che
è intorno alle ipotesi giustizialiste della Procura milanese che si coagula
il consenso contro la prima Repubblica: i magistrati sono solo gli eroi
momentanei di questo spazio di risentimento, di rifiuto, di voglia di
cambiamento.
Solo così si capisce
la capacità di Berlusconi di inventare una realtà politica non virtuale,
come molti profetizzavano, ma vera, perché nata come risposta alla
richiesta degli elettori. è per questo che Forza Italia, con tutti i suoi
difetti e le sue approssimazioni, ha resistito al tempo e all'usura di un
attacco concentrico di massiccia violenza da parte di uno schieramento
eterogeneo ma certo potente e autorevole. Il Polo, infatti, è sopravvissuto
al ribaltone, all'abbandono della Lega, alla stessa sconfitta elettorale,
attestandosi nel Paese come maggioranza percentuale del voto.
Dobbiamo, dunque, dire
che in gran parte l'evasione italiana (che è peraltro largamente
fisiologica per certe fasce sociali in tutti i Paesi industrializzati) è
nata contro, perché fuori, dalla partitocrazia statalista; e ha cominciato
a prendere coscienza di sé, trasformandosi addirittura in soggetto
politico. Come è accaduto, del resto, per il movimento delle donne e la
battaglia per l'aborto. L'interruzione di gravidanza era tollerata,
nonostante fosse reato: infatti, i processi erano rarissimi, mentre la realtà
dell'aborto clandestino era assai diffusa. Ciò che contava era il divieto,
che manteneva le donne nella ricattabilità, nella soggezione,
nell'impossibilità di scegliere liberamente la maternità. Non si temeva
tanto la diffusione della pratica abortiva, praticatissima appunto (e,
invece, finalmente in calo dopo alcuni anni di legalità), quanto la
rivendicazione del diritto di scelta, la politicizzazione. Così, quello che
si teme non è l'evasione, ma la rivendicazione del diritto a un sistema
fiscale più equo, a una contropartita sociale, alla legittimità del
guadagno.
L'evasione fiscale,
dietro la sua obiettiva inaccettabilità, nasconde una battaglia politica
centrale, rivendicazioni di grande serietà, una possibile cultura di
riferimento liberale, antistatalista, civile. Non c'è ovviamente questo,
dietro ciascun evasore, come non c'era sempre una coscienza lucida, ma
spesso solo una confusa e magari qualunquistica protesta, dietro ogni
"proletario incazzato" tanto amato dai Manconi, Lerner, Rinaldi, e
svariati ex di Lotta continua. Ed è difficile immaginare una faccia meno
minacciosa, col suo bonario accento veneto, di quella del leader della Life,
Padovan. Ma il sistema fiscale italiano è uno dei cardini dell'ancien régime
ancora difeso dall'Ulivo. Non va sottovalutata la soglia di tollerabilità
raggiunta da questi ceti, né va sottovalutato che comincino a cercare non
più solo compatibilità col sistema e possibilità di farla franca, ma uno
sbocco politico e una collocazione civile.
Eugenia
Cavallari |
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