Intervista
a Marco Pannella
"IL NEMICO?
L'IDEOLOGIA ITALIANA"
di Luciano Lanna
Liberali, quindi
referendari. O meglio, referendari per essere liberali. E' una strategia che
Marco Pannella fonda su una precisa analisi storica e politica:
"L'Italia è un Paese che da ottant'anni ha una scuola, una vita,
un'articolazione antiliberale. Non a caso oggi si dicono tutti liberali.
Essendo liberale il germe di rivoluzione e il germe di alternativa, finisce
che il potere corporativo va ad occupare anche quello spazio: del resto da
ottant'anni non si fa altro che scegliere l'antagonista ancor prima del
protagonista. Così come un tempo sceglievano l'antagonista comunista per
meglio ammazzare il vero antagonista liberale. Lo facevano i governi come
gli industriali...".
Domanda - Ma che
fine ha fatto il vento liberale del '94?
Risposta - Quando
Berlusconi scese in campo, nel dicembre '93, trovò consensi sulla base
delle nostre intuizioni liberiste e di quelle di Antonio Martino. Il
programma iniziale del Polo delle libertà era il nostro, ripreso alla
lettera. Ma io mi misi subito sull'allarme, intuii la fragilità del
progetto, tanto che alla fine il vecchio blocco sociale ha fagocitato tutto:
hanno cominciato con Bossi e via via con Buttiglione, Pivetti, Dini e tutti
gli altri. Siamo finiti al governo dei tecnici, dove i politici vengono
cooptati. Oggi abbiamo un solo dato sociologico: professori di liberalismo
diventati in dodici mesi professori di machiavellismo. Eppure, all'inizio,
Berlusconi mi aveva ascoltato, aveva anche ripreso qualche tono non solo
liberale, ma anche giacobino...
Quindi, la
situazione dal suo punto di vista non è delle migliori. Le sue analisi
sembrano paventare una sorta di restaurazione.
Soprattutto dopo
l'ultima sentenza della Corte Costituzionale ha stravinto la
normalizzazione. A rigore non si dovrebbe parlare di restaurazione, ma dello
sviluppo compiuto della cultura dominante nel Paese, a-liberale e
antiliberale, democraticistica e non democratica. E' il trionfo della
"ideologia italiana", di una cultura che non a caso trova del
tutto espulsi dal suo dna la Destra storica, Gaetano Salvemini e Romolo
Murri. Di una cultura che oggi trionfa nonostante non abbia più il collante
necessario - statalismo, continuo ricorso alla spesa pubblica, alleanza
oggettiva tra grandi famiglie del potere industriale e finanziario e
sindacati - e non riesca più ad autoriformarsi. Con il no ai referendum
liberisti e a quelli elettorali questo fronte si è rafforzato. E D'Alema è
oggi il referente principale non solo di una partitocrazia rinnovata, ma
soprattutto del blocco politico-sociale dominante in Italia da almeno
ottant'anni.
Perché non
concede fiducia al ruolo riformatore che una forza come il Pds può svolgere
in vista di una vera democrazia dell'alternanza?
Anche Benito Mussolini
apparve ad un certo punto come il leader più amato, suggestivo e
promettente per la sinistra italiana. Poi, venne attratto dal corporativismo
in un'alleanza eterogenea con Bombacci, i repubblicani e gli
anarco-sindacalisti. Un po' come lÕalleanza che oggi unisce Pds, Ppi,
Rifondazione e compagnia. Allora trovarono la forza storica di proporre la
scorciatoia per realizzare la società migliore, più giusta, attraverso gli
strumenti totalitari e totalizzanti. Nonostante questo, ingenuamente
Mussolini diceva di voler andare verso il sistema anglosassone. Ricordiamoci
che la Camera dei deputati votò il sistema maggioritario su iniziativa di
Mussolini; poi ci fu il caso Matteotti e tutto saltò. Il problema, quindi,
non sono le dichiarazioni di principio o i buoni propositi, ma le condizioni
reali. Mussolini pensava di affermare il sistema anglosassone. Poi si rese
conto che non era possibile. A quel punto fu la Fiat a scegliere Mussolini
per gli stessi identici motivi per i quali oggi Romiti sceglie l'ex o ultimo
arrivato, vale a dire Massimo D'Alema.
In questo quadro,
lei sembra sottovalutare quello che potrebbe scaturire dai lavori della
Bicamerale per le riforme.
La Bicamerale c'è. E
vedremo quello che farà. Ritengo che le cose andranno in questo modo: a
Botteghe oscure lavoreranno serissimamente per preparare il testo che loro
riterranno possa passare. Così, mentre la Bicamerale ufficiale si perderà
tra dibattiti interminabili, il Pds chiederà una proroga e dopo averla
ottenuta arriveranno con il loro progetto di nuova Costituzione e nuova
forma di Stato. Poi, con i tempi contingentati e via dicendo lo faranno
passare. Punto e basta. Gli altri non esistono, basta guardare la linea
dell'opposizione negli ultimi mesi. Il Pds è ormai il partito-Stato, è il
luogo di salvezza di tutti i partiti. Gli altri, per sopravvivere, sono
tributari verso la struttura, la sovrastruttura, la cultura e la forza
economica del Pds.
Una sorta di nuova
Dc...
No, è un'altra cosa.
Assai peggiore. La Dc aveva il pregio di essere un po' marmellata borghese.
Aveva in sé delle contraddizioni vere. Aveva dalla sua un aspetto realmente
democratico: aderiva alla vita. Aveva in questo senso anche lo sporco della
vita reale. Questi, invece, della sporcizia fanno legge, la rendono
legale.E' la caratteristica della loro cultura.
Quindi, non siamo
affatto usciti dalla prima Repubblica?
Fino a qualche tempo
fa dicevo che ci trovavamo al secondo tempo della prima Repubblica. Oggi
dico che ne siamo all'apogeo. La partitocrazia prevale e i cittadini sono
scippati del voto referendario.
Eppure, uno
storico come il pidiessino Giuseppe Vacca sostiene che non è corretto
parlare di partitocrazia per il "caso italiano". A suo dire la
partitocrazia terminò con il fallimento dell'unità nazionale e la crisi
della Dc morotea e del Pci berlingueriano.
E' un'analisi che non
capisco, un gioco filosofico sottile ma semanticamente insignificante. Il
problema, in realtà, è che il nostro sistema politico è bloccato da
ottant'anni. E non è una questione di formule di governo. La partitocrazia
vive nel cuore di una società corporativa e statalista come la nostra. Il
partito politico pubblicistico, il partito finanziato, quello rilanciato
dall'ennesima legge sul finanziamento pubblico, non è altro che una
manifestazione di quello che in altre epoche e in altre aree geografiche
sono stati il Partito comunista ed il Partito nazionale fascista.
C'è, forse, una
sorta di peccato d'origine?
Certo. Cominciamo col
dire che la Costituzione vivente - non voglio usare il termine
"materiale" per rispetto a Mortati - è stata sin dall'inizio una
Costituzione morente. E questo perché il governo della società è stato un
governo delle corporazioni. Noi paghiamo il fatto che l'antifascismo è
andato al potere non per forza endogena, ma grazie alla guerra e, non avendo
fiducia nel popolo, è di fatto diventato l'erede del fascismo, accettandone
in pieno il carattere corporativista e pluralistico. Badate bene: pluralismo
è una parola del tutto estranea all'autentica concezione liberale. Nel
mondo anglosassone non c'è il pluralismo all'interno dello Stato, ma il
pluralismo della società, ci sono decine e decine di partiti, gruppi,
sette, e la politica è vivace e ricchissima. In Italia, invece, il
pluralismo non è altro che la scomposizione plurale della stessa concezione
del partito unico, del partito-Stato.
Eppure, la nostra
Costituzione rientra, per le sue caratteristiche, tra le Carte d'ispirazione
liberale...
E' vero. In essa c'è,
soprattutto, un elemento sul quale nessuno ha mai riflettuto abbastanza: il
costituente ha introdotto, con una chiarissima ispirazione liberale alla
Montesquieu, il referendum abrogativo come secondo voto, con lo scopo di
correggere storicamente la democrazia rappresentativa centralizzata e
assoluta. Il voto referendario è costituzionalmente la garanzia che
consente una dialettica contro le leggi non gradite. E' un secondo voto che
non ha nessun aspetto di straordinarietà, ma che si affianca al voto
elettorale.
E' un aspetto,
questo, che ha rappresentato la leva per la "lunga marcia" della
vostra strategia referendaria...
Di fronte a una classe
dirigente che non si ravvede, che non vuole rendere viva la democrazia e
probabilmente non ha nessun interesse a farlo, nel 1974 si apre
inaspettatamente uno spiraglio. I cattolici conservatori chiedono il
referendum contro la legge che aveva istituito il divorzio. E noi intuiamo
che, al di là dei motivi per cui si è chiesto il referendum, sul piano
metodologico si apriva un varco. Tanto è vero che gli stessi promotori, con
sei mesi di ritardo, capiranno di non vincere e di avere imboccato un tunnel
senza uscita. Tentano allora di bloccare il referendum. Era stato Gabrio
Lombardi a raccogliere le firme, ma sei mesi dopo saranno i radicali a
difendere il referendum, mentre lo stesso Lombardi e i cattolici tacciono,
insieme al Pci che addirittura prende l'iniziativa - con la legge Bozzi e
con quella Carrettoni - per bloccare il referendum. Insomma: nel '74 abbiamo
una libertà referendaria incidentale. Noi comprendiamo l'importanza della
battaglia e andiamo al voto sul divorzio. Avvertiamo che si tratta di una
breccia e partiamo anche con la raccolta delle firme per altri otto
referendum. Vinciamo, dando espressione a quella volontà reale ma nascosta
del Paese che i partiti volevano soffocare. A questo punto il regime entra
in fibrillazione.
Arrivano gli altri
vostri referendum e si radicalizza lo scontro. Tanto che viene messo in
discussione lo stesso istituto di democrazia diretta.
Nel '78, la Corte
Costituzionale inizia a sequestrare la Costituzione ponendo l'incertezza del
diritto al centro della dinamica referendaria. Da quel momento giudica
l'ammissibilità dei referendum in base all'opportunità politica di quelle
stesse maggioranze che continuano a fare leggi insieme. E in questo
condizionamento non c'entrano tanto l'unità nazionale e il compromesso
storico, su questo anche l'Andreotti di destra o Scelba sono d'accordo. A
bloccare la strada ai referendum è la natura stessa della Costituzione
morente-vivente, è il potere. Noi continuiamo ogni volta a riproporre i
quesiti. Sappiamo che c'è l'incertezza, ma torniamo ogni volta alla carica.
Mollano solo quando il Pci è d'accordo.
Può fare un
esempio concreto?
Diciamo la verità sul
referendum Segni, quello che con il voto quasi unanime dei cittadini ha
introdotto il sistema elettorale maggioritario il 18 aprile del '93. In
realtà, le firme le abbiamo raccolte noi e non Segni, che non sapeva come
fare. Dirò di più: per nove mesi Mariotto Segni mi disse no a quel
referendum, che dobbiamo alla sagacia e all'intelligenza di Serio Galeotti.
Era fine maggio, vado da Segni e solo a dicembre lui accetta, perché nel
frattempo di fatto aveva detto sì, attraverso Augusto Barbera, anche il
Pci. E infatti la Consulta lo fece passare.
La battaglia è
stata dura, le difficoltà non sono state poche. Eppure avete dimostrato una
grossa capacità di tenuta.
Quello che ci ha
animato, nella nostra ultraventennale battaglia, è stata soprattutto la
consapevolezza che l'alternativa liberale in Italia passava e passa solo
attraverso i referendum. Ci siamo trovati di fronte non solo l'assoluto
arbitrio di chi non voleva farli votare dai cittadini, ma anche
l'impossibilità materiale di sostenerli. Un referendum comporta un costo in
risorse di circa 22 miliardi. Sul referendum - anche su quelli vinti - non
c'è alcuna sorta di rimborso, mentre per il voto elettorale c'è
addirittura l'anticipazione del rimborso. Una difficoltà economica che si
è affiancata a tutti gli sbarramenti della Corte. Infine, si sono appellati
al principio di ragionevolezza, quando invece dovrebbe essere il popolo,
proprio attraverso il referendum, a decidere cosa è ragionevole. Oppure al
rischio di vuoto giuridico, quando il referendum è di per sé abrogativo.
Si è cercato di tutto per fare del voto referendario un voto negato, un
voto abolito. E adesso c'è anche un altro rischio...
Quale?
Temo che vogliano
arrivare al referendum propositivo, l'arma delle maggioranze, che possono
così fare appello al popolo e sconfiggere la dialettica parlamentare. Noi
siamo gli unici in Italia a porci con determinazione contro il referendum
propositivo, contro il quale erano gli stessi costituenti. Così come lo era
un grande liberale, Luigi Einaudi. Perché Einaudi aveva paura, sentiva il
rischio del referendum come espressione del Re, del sovrano. Altra cosa sono
i referendum sulle fontanelle, sul modello svizzero, ai quali siamo invece
favorevoli. Lì il popolo decide su scelte concrete. D'altra parte, votare
è un diritto, non un dovere.
Qual è il
rapporto tra questa lunga battaglia referendaria e la vostra identità
politica? In qualche modo il vostro movimentismo può portare in secondo
piano la vostra collocazione culturale?
Sicurissimamente
attraverso il voto referendario siamo una delle due forze del Paese. Ci
siamo noi e gli altri: questo è un dato storico. Ma quando si parla di
trasversalità non si coglie il problema. La realtà è un'altra, come è
riuscito a sintetizzare efficacemente Baget Bozzo: noi abbiamo dato forza di
esito politico - addirittura di esito politico vittorioso - a delle
maggioranze sociali. Lo ripeto: credo che lo scontro politico, dove c'è, è
tra noi come soggetto politico organizzato e il resto, oggi il Pds. Tra
liberali e blocco corporativo. La strategia c'è stata, e c'è. Ed è quella
dei radicali, dei liberali italiani. Cosa che Gobetti individuava quando
diceva: "La rivoluzione liberale è sulle gambe del terzo Stato".
Noi ne siamo consapevoli. Sono gli altri ad avere tradito.
In sostanza,
niente di nuovo sotto il sole. Lei vede nello scontro politico e sociale
oggi in atto la traduzione contemporanea dello stesso conflitto che
all'inizio del secolo poneva Salvemini e i fratelli Rosselli contro il
blocco dominante.
Sì, io leggo la realtà
italiana di oggi rifacendomi alla stessa analisi che tra il 1911 e il 1916
porta Salvemini ad uscire dal movimento operaio organizzato. E porterà alla
stessa scelta Romolo Murri. Non è un caso che nel 1917-18 si ritrovano a
far parte della prima direzione del Partito radicale formalmente costituito
Gaetano Salvemini, Romolo Murri, Maffeo Pantaleoni, Antonio De Viti de Marco
e gli altri.
Ma perché questa
cultura politica, quella a cui voi referendari vi siete sempre ispirati e
sulla base della quale avete anche ottenuto grosse vittorie, è sempre stata
caratterizzata da una vocazione minoritaria? Perché non si è mai affermato
un soggetto liberale di massa che facesse propria questa impostazione?
Ricorrendo al
linguaggio marxiano e marxologo, diremmo che ha prevalso una degenerazione
idealistica. E' indubbio che tutti i fermenti liberali, liberisti, libertari
e federalisti che abbiamo avuto in Italia - penso agli amici del Mondo,
all'azionismo, alla destra azionista di Mario Paggi, al primo Partito
radicale - hanno vissuto la loro identità come una singolarità contro il
potere ma anche contro il popolo così come storicamente era; e, con limiti
antisociologisti, non si sono mai posti il problema dell'organizzazione
degli interessi oggettivamente "interessandi" o
"interessabili" a proposte liberiste. Questo, però, fino alle
nostre campagne referendarie.
Da quel momento
cosa è cambiato?
Allora si è avvertito
come a porsi contro il blocco sociale corporativo non era più una
minoranza, ma una maggioranza che fino a quel momento era rimasta non
rappresentata. Quella maggioranza noi siamo riusciti a disvelare: nel '74,
ad esempio, abbiamo dimostrato che il popolo dei credenti non era quello che
Togliatti, Almirante e gli stessi laici credevano fosse. Il popolo reale era
senza di loro, era altro da loro. Non era quello rappresentato dai partiti.
A questo punto si
pone la questione della vostra collocazione ideologica. Dove state, chi
scegliete tra destra e sinistra? Nel 1975 lei sosteneva che da libertario,
per restare fedele alla Destra storica, si collocava politicamente alla
sinistra del Pci. E oggi?
La citazione va
storicizzata. Nel '76 veniamo eletti in quattro radicali e andiamo ad
occupare alla Camera i quattro posti della montagna dell'estrema. E lì
Ingrao, al tempo presidente di Montecitorio, e gli altri non ci permettono
di occuparla. Noi non votiamo per un intero anno. E lì feci il mio discorso
parlamentare in cui sostenni che in nome della Destra storica occupavamo
quei banchi. Perché, sostenevo, l'idea del diritto, dello Stato di diritto,
è un'idea rivoluzionaria. In quel momento, entrando nelle nostre aule
parlamentari, che sono a emiciclo e non all'anglosassone, eravamo costretti
ad accettare quello schema: la sinistra è progressista, la destra
conservatrice. Oggi, la realtà è diversa. Io, che per tanti anni sono
stato contrario alla costruzione di una nuova Camera dei deputati - che nel
'76 Ingrao e gli altri volevano costruire in periferia, a Tor Vergata, per
allontanare il rischio del popolino attorno - adesso ne ho voglia. Presto
lancerò l'idea di una nuova Camera costruita sul modello di Westminster,
dove sono fisicamente separati e contrapposti il lato del governo e quello
dell'opposizione. Occorre evitare che la lotta si giochi sul confronto tra
chi siede a sinistra e chi a destra, evidenziando invece il confronto tra
riformatori e conservatori. Oggi occorre imporre sulla visione topografica e
continentale della politica quella anglosassone, di confronto tra due
schieramenti, due parti sociali e non ideologiche.
Resta comunque il
fatto per tanti anni, pur con un'adesione anomala, siete apparsi come una
delle componenti della sinistra. E indubbiamente avete lavorato sulla
sinistra, cercando di evitare la sua deriva consociativa. Come vi siete poi
ritrovati quando, arrivato il nostro sistema politico a una forma più o
meno compiuta di dinamica alternativa, vi siete alleati al blocco
contrapposto alla sinistra?
Abbiamo lavorato per
il trittico "unità, rinnovamento e alternativa della sinistra"
fino al 1973, con una protrazione al '75, ma solo perché volevamo vedere
dove portasse la vittoria del divorzio. Da quel momento, dal '76, noi siamo
i soli nemici operanti del Pci e della sinistra. In tutti i referendum lo
scontro è stato tra noi e loro. Non a caso noi denunciamo e abbandoniamo il
discorso "unità, rinnovamento e alternativa della sinistra" e,
nell'arco dei ventiquattro mesi che vanno fra il maggio '75 e il giugno '76,
cominciamo a fare i radicali riformatori, cioè a esprimerci direttamente
come liberali. Certo, tutto questo era evidente già da prima, ma da quel
momento non c'è più alcun dubbio che ci sia solo la partitocrazia, che la
sinistra è partitocrazia, che la situazione è cristallizzata. Lo scontro
è con il Pci: sulla legge Reale, sul finanziamento pubblico. Per quanto
riguarda la fase più recente, credo di aver già risposto sui nostri
rapporti con il Polo. Il programma di Berlusconi era il programma liberale e
liberista, eppure, nonostante che abbiamo sempre chiesto l'alleanza, alla
fine siamo stati costretti a presentarci da soli. Oggi, comunque, che cosa
c'è ancora di convinzione liberale, nel senso di gente che per convenienza
fa la scelta liberale, nel Polo? Forse meno che nell'Ulivo, che almeno
formalmente si è costituito in modo illiberale. Adesso tutti si domandano
dove ci collochiamo noi riformatori, quando poi dovrebbero chiederlo agli
altri, quelli che preferiscono l'inciucio e il bipolarismo alla chiarezza e
al bipartitismo.
Ma perché ce l'ha
tanto con il bipolarismo? Cosa replica agli analisti che osservano come il
bipartitismo anglosassone sia una soluzione non adatta alla storia e alla
complessa articolazione della politica italiana?
Intanto perché il
bipolarismo in Italia c'è sin dal 1945. E abbiamo visto cosa produce.
Quindi non capisco cosa vogliano oggi i suoi sostenitori. L'unica cosa è
che possono renderlo ancora peggiore. Per quanto riguarda gli argomenti dei
suoi assertori, è ora di smetterla con la storia della nostra tradizione,
delle nostre peculiarità. Non ci sarà cambiamento finché resteremo
schiavi della "ideologia italiana". Ricordo come a questo
proposito, un mese prima del congresso di Bologna, spiegai ad Achille
Occhetto come stavano sprecando quella che poteva essere una grande
occasione storica. Lui mi spiegò che per andare a Londra si doveva passare
da Parigi. E io gli risposi: se passi da Parigi vai ad Algeri e torni in
Italia, oppure vai a Vichy, non certo a Londra. In realtà, il ricorso alla
genuinità delle tradizioni è un alibi per giustificare il corporativismo
della società. La storia la fai se inventi novità che vanno contro la
tradizione. Nella storia americana il bipartitismo non c'era: è stata una
violenza contro una società in cui c'erano quelli che venivano dalla
Francia, quelli che venivano dall'Inghilterra, gli irlandesi, i cattolici, i
calvinisti. Non avevano le condizioni per il bipartitismo? Ci voleva il
doppio turno? L'Italia sarebbe troppo complessa? Il problema è che, se al
Belpaese togli i partiti, gli togli le idee: non si concepiscono idee non di
partito.
Ma, a questo
punto, preso atto dello stop alla strategia referendaria dato dalla
Consulta, constatato il suo scetticismo sugli esiti della Bicamerale, quale
strada deve imboccare il Paese per tentare di uscire dalla restaurazione?
Perché non la Costituente?
E' un'ipotesi che mi
lascia esterrefatto, incredulo. Pensi a cosa può significare una
Costituente eletta con la proporzionale pura. Ci metteranno tre-cinque mesi
di campagna elettorale. Poi avremo i tre deputati di La Malfa, i cinque di
Cito, i sette di De Mita e via di seguito. E questi, per il solo fatto di
riunirsi, dovrebbero produrre una Costituzione capace di per sé di imporre
un esecutivo forte o il presidenzialismo? Sono non incredulo, ma allibito. E
da riformatore e liberale io lo sto dicendo da oltre un anno. Come è
possibile che su questo "Ideazione" non abbia ancora aperto un
dibattito? Lo ripeto: almeno con la Bicamerale si limiteranno a cambiare la
Costituzione attraverso controriforme minime. L'indomani si ricomincia: noi
riformatori stiamo punto e a capo, più forti di prima, noi contro di loro.
Qual è, allora,
la sua ipotesi per l'alternativa liberale?
Se si vanno a vedere i
nostri settanta quesiti referendari, credo che non ci sia stata in nessun
Paese al mondo una forza politica liberale con un tale carico di proposte di
governo, tutte puntuali. L'urgenza è allora quella di farci vivere. Se per
lungo tempo siamo stati noi a far esprimere una maggioranza sociale
inespressa, adesso siamo noi a rivolgerci agli italiani. Perché, se noi
viviamo, potremmo fare in modo che il nuovo blocco sociale possa prendere
coscienza di sé. Ancora una volta il terzo stato non è niente, ma potrebbe
essere tutto.
E' quindi in
questo senso che vanno interpretati i suoi appelli rivolti, tra gli altri,
alla borghesia?
Sì, perché io dico
che la borghesia o è liberale o non esiste. E aggiungo: o si sforza di
essere liberista o non esiste. Il fatto è che lo strumento politico esiste:
abbiamo un'organizzazione unica in Italia da quarant'anni. C'è un partito
liberale non di massa, ma aperto, non burocratico, con legami profondi nel
Paese. E siamo noi, radicali e referendari. E allora, credo che oggi per dei
liberali realisti, che facessero della vera realpolitik, la scelta sia
quella di venire nel nostro movimento prima che a giugno chiuda, aiutandoci
a trovare due-tre miliardi, e ripartire con nuovi referendum. Se riusciamo
ad avere un numero adeguato di parlamentari come chiediamo, il partito c'è
già. I comunisti, i pidiessini, ne hanno paura. Trovo che sarà un fatto di
insopportabile mediocrità se non siamo salvati nella nostra capacità di
moltiplicare la forza dal fatto che almeno trenta parlamentari - per
convenienza - passino con noi armi e bagagli. Se avverrà, se ad aprile o
maggio ci saranno trenta-quaranta parlamentari nostri, sarà un fatto
rivoluzionante.
Luciano
Lanna |
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