Editoriale
COURAGE!
di Mauro Mazza
Le prime
settimane del '97 erano trascorse invano, per chi credeva di salutare, col
nuovo anno, il "ritorno della politica". Il Partito popolare aveva
celebrato il congresso, mandato in pensione Gerardo Bianco - segretario
bonario prestato alla sinistra interna egemone e alla macarena - e affidato
il partito a Franco Marini ("Quello è capace di uccidere col
silenziatore", disse di lui l'autista di Donat Cattin, che resta a
tutt'oggi il suo unico biografo), con l'obiettivo dichiarato di rianimare il
malandato "centro dell'Ulivo" e di offrire un sigaro a Rocco
Buttiglione. A proposito di centro, si registrava l'infoltimento del gruppo
di deputati rimasti con Lamberto Dini (al Senato è andata meno bene,
finora) attraverso una serie di licitazioni private, conversioni e
riconversioni, del cui genere si era persa la memoria e di cui non si
sentiva davvero alcuna nostalgia.
La Corte
costituzionale eseguiva, imperterrita, l'annunciata strage di referendum, di
sicuro impermeabile alle pressioni di chi quei referendum aveva
sottoscritto, depositato e chiedeva di poter democraticamente celebrare (una
Consulta forse sensibile ad altre pressioni, al telefono la Sua voce, chissà...).
La Commissione bicamerale per le riforme prendeva il via al termine di un
lungo travaglio, provocando l'ennesimo little bang all'interno del
centro-destra, diviso sul sì o sul nì da dare al candidato unico alla
presidenza, Massimo D'Alema. (Della Lega nord e del suo congresso non ci
siamo dimenticati. Ne faremo cenno più avanti, anche se il movimento sempre
più di Bossi ha ormai poco o nulla a che fare con la politica, vecchia o
nuova che sia.)
Ma infine eccolo,
l'agorà dalemiano, il tempio al lìder Massimo, vincitore assoluto di una
partita congressuale che ha sancito una profonda svolta per il Pds; ha
accelerato il rinnovamento dei contenuti e dei valori della sinistra; ha
impresso una decisa direzione di marcia alle riforme istituzionali.
E questo significa che
davvero la politica è tornata tra di noi. Cominciano a prevalere le luci
sulle ombre, i bagliori che riconosciamo non sono soltanto piastrine di
latta. Qualcosa è accaduto, nel momento in cui il pessimismo sembrava
trovare ogni giorno nuove conferme. Polo e Ulivo si trascinavano stancamente
sul palcoscenico. Sembravano recitare a memoria le parti loro assegnate:
ogni tanto un'amnesia o piuttosto l'illusione di un'amnistia; poi, si
decideva di andare oltre il Polo, ma no facciamo un bel partito unico, che
è meglio, così ce ne stiamo tra noi che ci vogliamo bene. E di là, stessa
storia.
Improvvisamente,
invece, Berlusconi da una parte e D'Alema dall'altra ritrovavano
l'iniziativa perduta. I passi concreti del leader dell'opposizione nei
confronti della maggioranza e del governo; e lo strappo dalemiano che ha
spiazzato, stordito e superato il conservatorismo istituzionale e sociale
della sinistra: tutto questo riaccende la speranza.
Ora, forse, cambiare
si può. Ora che è passata l'euforia di chi aveva salutato, il 21 aprile
del '96, il ritorno ad un Paese "normale". Era l'Italia uscita
dall'incubo del 27 marzo, finalmente e per sempre. Ulivo, ma non solo.
D'Alema, Prodi e Veltroni sul pullman, ma soprattutto altro. Un'altra
Italia. Ne scrive - e ne sottolinea il ruolo decisivo - Giuseppe Vacca nel
suo recente Vent'anni dopo: "[...] le parti più responsabili del Paese
(i settori dell'economia internazionalizzati in modo non subalterno,
Bankitalia, la Chiesa, una parte della sinistra e dei grandi apparati dello
Stato) che nel '92-93 ne presero in mano le sorti e dopo la vittoria della
destra riuscirono a pilotarlo nella tempesta, creando le condizioni per
rovesciarla".
Ma chi ha vinto in
Italia? Chi tiene in mano quel "volante" che Berlusconi cercò
invano nella sua stanza di palazzo Chigi? Chi ce l'ha quel volante, ben
stretto e nascosto, ancora adesso? Il governo Prodi sembra proprio di no. Ma
lo stesso D'Alema si mostra pienamente consapevole di poterlo rintracciare,
quel volante, solo attraverso regole nuove, sottoscritte da ampie
maggioranze parlamentari, libere da condizionamenti e interessi di parti
attualmente al governo o all'opposizione.
La Bicamerale ha
cominciato i suoi lavori circondata da diffidenze e da sospetti. Concordare
regole nuove al primo piano di palazzo Montecitorio, mentre in aula si
boccia la legge Rebuffa e a Botteghe oscure si decide (sì, a Botteghe
oscure) che non ha da esserci il rinvio delle elezioni amministrative
all'autunno: no, non è impresa delle più semplici. Eppure.
Eppure si deve, anzi
si può. E' con questo spirito che Ideazione ha elaborato l'Appello alla
Bicamerale che pubblichiamo in questo numero, con le firme dei suoi
promotori e primi aderenti. Vuole essere, il nostro Appello, apertura di
credito e monito nei confronti dei 70 "saggi", perché riescano a
produrre progetti di riforma che segnino una netta discontinuità con il
passato e con il presente della vecchia politica e che siano, a un tempo,
conseguenze dirette dei sogni e dei bisogni manifestati dagli elettori coi
referendum elettorali del 1991 e del 1993: più democrazia diretta e meno
mediazioni di Palazzo; più decisioni e meno inconcludenza; più bipolarismo
e meno partitocrazia. L'obiettivo è la modernizzazione del nostro Paese,
traguardo pagato altre volte a prezzi troppo alti. Nel 1922 con la rinuncia
alla libertà, nel 1946 "con il ritorno ad un regime assembleare e
partitocratico" dal quale ci si deve liberare ad ogni costo. E' lo
schema proposto da Sergio Romano nel suo Le Italie parallele: "In
ambedue i casi - ha sostenuto acutamente l'ambasciatore - il prezzo ha
finito per divorare il bene per cui era stato pagato e la modernità
conquistata è stata parziale, insoddisfacente. Se il prezzo della modernità
sarà ancora una volta, in termini costituzionali, insufficiente, una parte
del Paese, probabilmente, rifiuterà di condividere la sorte
dell'altra".
La posta in gioco
nella Bicamerale diventa più importante del prestigio del suo presidente e
della stessa organicità del progetto che potrà scaturire da questi mesi di
discussioni e di confronti ravvicinati. La minaccia secessionista della Lega
affida il suo potenziale di crescita e di radicamento sociale proprio al
fallimento dell'impresa riformista affidata alla Commissione. In gioco è il
futuro dell'Italia come entità nazionale: una posta ancora più alta della
credibilità di un'intera classe politica, che pure sta mettendo anche se
stessa in discussione, sia pure - forse - inconsapevolmente. In gioco c'è
il consenso dei cittadini - del popolo sovrano - a una politica in cui
possano riconoscere aspirazioni, ambizioni e speranze di un disegno comune.
Esiste oggi qualcuno
in grado di rappresentare tutto questo, eccezion fatta per la rozza,
inquietante e pericolosissima liturgia prescelta da Bossi per le sue
farneticazioni di razzismo neo-celtico? D'Alema ora ha fatto un passo
importante, che costringe tutti gli altri a riflettere e a cambiare.
Prima di lui, qualcun
altro era riuscito a rompere gli schemi, dando voce e corpo a una speranza
ancora indistinta. Ha scritto Enrico Deaglio sul "Diario
settimanale":
Una cosa davvero
ho sempre invidiato a Forza Italia, quell'idea del milione di posti di
lavoro con cui Berlusconi vinse le elezioni del 1994. Mi sarebbe piaciuto
che l'idea fosse venuta alla sinistra e ancora la considero l'unica
proposta realistica.
Quelle speranze di
rinnovamento, trasformate e triturate da uno stile politicamente corretto,
avevano forse continuato a vivere, in altre forme, nell'antica e sempre
nuova battaglia referendaria: regionalista e federalista, di fronte
all'immobilismo centralista di governo e Parlamento; riformatrice, di fronte
al conservatorismo delle forze politiche. Ideazione dedica un'ampia sezione,
tra passato e futuro, al referendum temuto e tradito, eppure storicamente
capace di produrre i più importanti mutamenti che l'Italia abbia conosciuto
dal dopoguerra ad oggi.
Per queste ragioni
Ideazione resta in campo. Non ci si addicono né la panchina, da dove
pretendere di impartire ordini, né le tribune da dove limitarsi ad
applaudire o a fischiare arbitro e giocatori. E' una partita che tutti ci
riguarda e ci vede partecipi, consapevolmente, con le forze di cui
disponiamo. E con una passione che ci conserva ottimisti nella ragione, e
non solo nella volontà. Pubblicando il libro-intervista di Alain Madelin, Vecchi
muri e nuove libertà, ci siamo riconosciuti nella sua convinzione di
liberale (sono le "idee che guidano il mondo") e nella sua fiducia
sconfinata nella Francia e nei francesi: "Resta un Paese capace di
stupire per il vigore con cui sa riprendersi".
Vale anche per
l'Italia, per una certa idea della politica cui non sappiamo rinunciare.
Quella che impone di "sapere cosa si vuole". "E quando lo si
vuole - conclude Madelin - bisogna avere il coraggio di dirlo, quando lo si
è detto, bisogna avere il coraggio di farlo. Coraggio!".
Mauro
Mazza |
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