Feuilleton
IL POSTMODERNO
HA UN CUORE CELTICO
di Francesco e
Luigi Maiello
Con queste suggestive parole Jean Markale
concludeva qualche anno fa l’introduzione del suo bel libro su Merlin
l’Enchanteur.
Ma, al di là del fascino che sprigionano,
queste parole ci spingono a porgerci un interrogativo che a tutta prima
potrebbe apparire peregrino. Come mai oggi, alle soglie del terzo millennio,
qualcuno può pensare che un personaggio leggendario come Merlino abbia una
strada da mostrare all’umanità? Certo, la risposta più semplice potrebbe
risiedere in una fantasia dell’autore, in una sua fanatica forzatura, un
po’ come alcune sette pretendono che a mostrare le vie del futuro siano
gli ufo. Una risposta del genere, però, si negherebbe la possibilità di
cogliere qualcosa che sta accadendo sotto i nostri occhi; un qualcosa che
dopotutto può avere una certa importanza.
Allorché riviste dedicate alla cultura
celto-gaelica (o a quella che indebitamente si ritiene tale), alla sua
musica, ai suoi miti, alle sue terre, ai suoi "valori", al suo
immaginario complessivo, raggiungono tirature tutt’altro che trascurabili,
non può prenderci il sospetto che nella bella chiusa di Markale si nasconda
qualcosa che ci sfugge?
Occorrerà forse analizzare alcuni degli
elementi al volo dai quali Merlino e il suo mondo, partendo dai bassopiani
scozzesi è giunto fino alla levantina Roma di fine millennio.
In primo luogo, la musica cui Merlino
s’accompagna. È quella celtica, impropriamente definita come
esclusivamente irlandese, mentre gli etomusicologi sanno bene trovarsi di
fronte ad un complesso ben più vasto cui partecipano per lo meno, e tanto
per fare un esempio, la stessa Bretagna francese, il Galles e la Scozia. Ma
tant’è, per tutti si tratta di musica irlandese. Ebbene, ciò che questa
musica evidenzia immediatamente è la parte che compone i propri strumenti.
Con la sola eccezione del violino quasi nessun altro strumento compare mai
nelle band di musica rock. Flauti, arpe, particolari tipi di percussioni
hanno certamente fatto di tanto in tanto capolino anche in gruppi
apertamente rock: dai "mitici" Jethro Tull agli attualissimi U2
esistono molte risonanze celtiche. Ma si è trattato di apparizioni
sporadiche, di citazioni brevissime, che nel complesso non hanno segnato uno
stile di suono a sé stante. Per certe sonorità si può dire che un gruppo
è di origine irlandese, come di un altro che è di origini inglese o
americano. Si sarebbe portati a dire che gli strumenti di questa musica, per
quanto popolari, siano in un certo senso da musica colta. Musica colta della
quale la celtica condividerebbe una seconda caratteristica non da poco. Le
melodie, spesso struggenti, di una passione lacerante ma contenuta sono in
continua evoluzione e non ricorrono all’"espediente" del
ritornello, così come avviene nelle canzoni.
Ma vi è un’ulteriore riflessione da
fare: la musica celtica sembra condividere con una musica a lei assai
lontana (quella napoletana) una caratteristica apparentemente
contraddittoria; essa è allo stesso tempo fortemente radicata alla realtà
culturale locale e capace di essere apprezzata da umanità composite,
diverse e lontanissime. Non è da oggi che i Chieftains e Alan Stivell
mietono successi un po’ dappertutto.
Se, però, dalla sola musica si passa a
quell’insieme complesso costituito anche da letteratura, favolistica,
iconografia, e dalle mitologie che a tutto ciò si accompagnano, gli
interrogativi diventano ancora più suggestivi. Spesso, però, la
suggestione non ha aiutato la piattezza di certe risposte, che si è tentato
di proporre per comprendere questo inatteso successo di un mondo culturale
apparentemente lontano. Come spesso accade, si è fornito una spiegazione
banalmente sociologica, che in fin dei conti non spiega nulla. Un complesso
culturale e mitico (arbitrariamente assunto dal pubblico come irlandese)
offrirebbe caratteristiche di evasione dalla quotidianità fatta di urla,
rumori e volgarità, presentando allo sguardo della fantasia immagini di
battaglie leggendarie ambientate in terre fantastiche sconosciute, di amori
travolgenti e disperati, frutto di passioni che vanno ben oltre le misure
anatomiche dell’amata, ragione principe, al contrario, dei nostri
contemporanei innamoramenti televisivi.
Queste sono spiegazioni che spiegano
talmente tutto da non spiegare nulla. Limitiamoci, ad esempio, a constatare
se possa essere considerato un caso, e questo vada detto senza alcuna
spocchia, che per il momento il mondo celtico sembra affascinare quasi
esclusivamente le classi medio colte.
Questa constatazione, se confermata da
ricerche più approfondite, farebbe sorgere a sua volta l’interrogativo di
comprendere perché questo mondo "fantastico" e non un altro dei
tanti messi a disposizione dalla cultura occidentale. Perché non la
fantascienza tradizionale? Perché non la favolistica? Cos’ha di
improponibile per la fantasia la mitologia greca che pure viene insegnata a
scuola? Dopotutto, per lo meno in Italia, non dovrebbe essere difficile
anteporre Cesare a Thor o Giove a Odino. Perché ciò non avviene? Perché
molti giovani si sentono più affascinati dalla foresta di Paimpont (basta
vedere quale oggetto di culto sia oggi la pretesa tomba di Merlino) che non
dal Partenone o dall’arco di Costantino?
Si possono fare delle ipotesi,
provvisorie, frutto di una riflessione in corso e che forse condurrà ad una
ricerca più organica. Queste, però, presentano un certo grado di
complessità che speriamo di semplificare.
In primo luogo l’immaginario, che a
torto o a ragione gran parte degli estimatori assume come celtico, appare più
contiguo di tanti altri al mondo postmoderno in cui viviamo. Esso sembra
anzi costituirne, in un certo senso, l’estetica influente. I mondi greco,
romano, o quanti altri, mettono in moto un "mitologico" che viene
metabolizzato come incomunicante con la postmodernità, con quella naturale
fluidità che questa epoca possiede. Essi sono, per dirla con uno storico
come Marcel Detienne, "polverosi". Hanno una caratteristica remota
che viene paradossalmente esaltata ad ogni rifacimento televisivo o
cinematografico che non scada nel ridicolo della rimodernizzazione. Questi
mondi sembrano archeologici, degni della massima ammirazione ma muti.
Ciò che rende accattivante la mitologia
celtico-irlandese-gaelica, così come viene percepita oggi dai suoi
ammiratori (in termini e delimitazioni che spesso fanno rabbrividire lo
studioso, ma qui poco importa), è la sua capacità di aprire scenari
impensabili altrove; si tratta di scenari trasversali, carichi di
anacronismi e sovrapposizioni in cui convivono su di una stessa terra i
santi, il Graal, Merlino e Cristo. Nulla di più possentemente suggestivo
per una postmodernità che brucia le cronologie, che azzera velocità e
tempi e che presenta in un solo scenario il replicante, l’astronave e la
piramide Maya.
L’accostamento in una sola narrazione
delle epopee cristiane e di quelle pagane, la commistione fra generi e
atteggiamenti resi possibili da una mitologia strutturalmente primitiva ma
cronologicamente a noi vicina, non costituisce altro, sul piano
dell’immaginario, che la rappresentazione fantastica di una realtà a noi
nota, in cui convive l’uomo di Neanderthal che dorme nello scatolone di
Los Angeles (cfr. Grand Canyon di Kasdam) e la limousine che gli passa
accanto.
Anche sul piano più specificatamente
topologico la mitologia celtica appare agli occhi dei giovani cultori più
fortemente postmoderna: essa viene vissuta come priva di cattedrali; essa
parla piuttosto di aree, spazi, atmosfere, perimetri, e in definitiva i suoi
luoghi (foreste, pietre perimetrali, menhir) appaiono molto più simili ai
non-luoghi postmoderni sui quali qualche anno fa l’antropologo francese
Marc Augé ci ha fornito un saggio breve ma magistrale.
Le ragioni possono essere approfondite e
lo saranno, ma l’impressione che se ne ricava è che forse Markale non
aveva tutti i torti nel ritenere che Merlino avrebbe ancora avuto qualcosa
da dire agli uomini.
Francesco
e Luigi Maiello |
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