Speciale
Bicamerale
UNA RIFORMA
IN CHIAROSCURO
di Beniamino Caravita
Dopo sei mesi di
lavoro, alla conclusione di una fase di cinque anni di turbolenza
costituzionale e di quasi venti anni di disagio politico-istituzionale e,
soprattutto, dopo che due Commissioni consimili erano naufragate, la
Commissione Bicamerale n. III, ovvero Commissione D’Alema, è riuscita a
produrre un testo di riforma della (parte II della) Costituzione, dotato -
così pare a tutt’oggi - di un ampio consenso politico. Al noyau ristretto
dell’accordo hanno partecipato, da un lato, il Pds, erede della tradizione
comunista e socialdemocratica, e il Ppi, che ha finalmente -
"ingraianamente"! - traghettato a sinistra buona parte delle
spoglie democristiane; dall’altra parte, An, che ha così forse terminato
la fuoriuscita da una eredità postfascista e missina che ne inficiava la
legittimazione politica, e Forza Italia, che, pur mantenendo incerta la sua
natura di movimento, in bilico tra la ricerca di un affascinante ma
improbabile liberalismo di massa e il rassicurante approdo di un moderatismo
neodoroteo, ha così conquistato per sé, ma soprattutto per il suo leader,
i galloni costituenti. Attorno a questo noyau, comprimari benedicenti e
consenzienti, si sono collocati i gruppi postdemocristiani del
centro-destra, da un lato, e, dall’altro, i residui dell’esplosione
della galassia liberale e socialista, compreso ciò che resta
dell’esperienza "verde" e gli epigoni "duri e puri"
della tradizione comunista. Fuori dall’accordo, per una scelta la cui bontà
tattica e strategica potrà essere verificata in itinere, è rimasta la sola
Lega, che pur ha contribuito a segnare gli esiti sia in tema di forma di
governo, sia in tema di forma di Stato.
Realisticamente,
questa conclusione di todos caballeros non va aprioristicamente disprezzata,
anche perché contribuisce a legittimare in termini politico-istituzionali
un centro-destra che si presentava nudo ai nastri di partenza, a fronte dei
partiti del centro-sinistra, onusti di gloria costituzionale.
1. Posti questi primi
- genericissimi - paletti, ben più ardua si presenta l’analisi dei
contenuti dell’accordo, nel cui esame inevitabilmente i toni in
chiaroscuro prevalgono sui colori netti.
Va affrontata e
risolta una prima questione, se cioè questa sia una riforma
"senz’anima", ovvero se dietro di essa siano ravvisabili
"princìpi" e "valori" nuovi, in grado di contrapporsi o
giustapporsi ai valori costituenti della I Repubblica. Nonostante il
tentativo di esorcizzare la discussione sui princìpi, congelando -
attraverso lo sbarramento del riferimento alla modifica della sola II parte
della Costituzione - quelli del secondo dopoguerra, qualche argomentazione
in termini di "valori" (nuovi) ben può essere svolta.
Il primo riferimento
è proprio ai nuovi "soggetti" costituenti: è evidente che un
patto costituente (per tale intendendosi anche un patto che miri ad una così
sostanziale riforma come quella prospettata dalla Commissione Bicamerale) si
qualifica - anche, se non soprattutto - attraverso i soggetti che a quel
patto danno vita. Ed è per questo che quel quadro di riferimento soggettivo
a cui si è fatto prima riferimento appare particolarmente significativo,
mostrando nello stesso tempo i suoi limiti e i suoi problemi. Bipolarismo,
ricollocazione del mondo cattolico, legittimazione (definitiva) di partiti
che siffatta legittimazione non avevano (An), ovvero l’avevano dimidiata
(Pds); ma soprattutto presenza della "scommessa" Forza Italia: è
proprio attorno alla tenuta di questo partito che ruota, ormai, la
possibilità di riuscita del bipolarismo italiano e, dunque, in qualche
modo, del nuovo quadro costituzionale. Una sua dissoluzione - ovvero una sua
incapacità di attrarre i ceti moderati - rinvierebbe sine die la
sostanziale entrata in funzione di una Costituzione maggioritaria e
bipolare.
Oltre alla modifica
dei soggetti costituenti, almeno tre sono i riferimenti in termini di valore
che emergono dalla proposta presentata dalla Bicamerale.
Un primo - assai
significativo, nonostante i numerosi tentativi già compiuti di proporne
letture riduttive - è contenuto nell’art. 56 del testo ed è il
riferimento all’"autonomia dei privati" ed alla garanzia della
spettanza costituzionale ad essa delle funzioni (di tutte le funzioni?) che
da essa possono essere "adeguatamente svolte": l’esegesi, prima,
e la prassi, dopo, ci diranno l’impatto di questa disposizione, la cui
importanza non può oggi essere negata.
Un secondo valore
sotteso ai lavori della Bicamerale è evidenziato - sia pur forse ancora
confusamente e secondo modalità che sono da precisare e compiutamente
definire - dall’elezione diretta del presidente della Repubblica: dietro
di essa si individuano quelle esigenze di stabilità, di governabilità, di
riconoscibilità delle responsabilità, di creazione di un rapporto diretto
tra governanti e governati, che hanno costituito il fil rouge del dibattito
politico-costituzionale dell’ultimo ventennio.
Una terza chiave di
lettura in termini di "valori" la si può rintracciare nel
tentativo di sottoporre a riflessione e rilettura critica alcuni dogmi
dell’organizzazione della magistratura: la costituzionalizzazione dei
princìpi della parità delle armi nel processo tra accusa e difesa, della
giusta durata dei processi, della separazione (delle funzioni?) tra
magistrati giudicanti e magistrati del pubblico ministero,
dell’incompatibilità dei magistrati con altri incarichi rappresentano un
primo significativo progresso sulla strada di una riconduzione alla
fisiologia della collocazione della giustizia nel nostro Paese.
Un’ulteriore chiave
di lettura in termini di valori innovativi, che pur poteva essere
introdotta, è invece mancata: si tratta di quella di una più marcata
valorizzazione dell’ordinamento secondo princìpi regional-federalistici.
2. Proprio qui si
annida - e proprio da qui si può iniziare un esame del testo maggiormente
nel dettaglio - il punto forse tecnicamente più debole e più deludente del
testo: al momento è difficile capire se vi sia un sostanziale accordo
politico che copra anche questa parte, ovvero se vi siano margini più o
meno ampi per modificarlo.
Punta dell’iceberg
della delusione è la composizione del Senato, con tutto ciò che ne deriva
anche in termini di bicameralismo, di forma di governo e di procedimento
legislativo. La volontà di non regionalizzare - o, comunque, affidare alle
autonomie locali - il Senato (o, comunque, una delle due Camere) ha portato
alla strana ed inconsueta idea di un Senato "delle garanzie" (come
se l’altra Camera, giacché - più - politica, dovesse non già
"garantire", bensì... "tirare bidoni"!); chiamato a
tutte le nomine parlamentari, dimidiando così la Camera dei deputati;
escluso dal circuito della fiducia, ma probabilmente in grado di giocare di
sponda con il presidente della Repubblica nei confronti dell’asse politico
tra la maggioranza politica della Camera e il governo; luogo della
reintroduzione di un sistema elettorale proporzionale (se si deve
"garantire", occorrerà infatti che il luogo della
"garanzia" sia eletto con un sistema in grado di fotografare tutte
le sfumature dell’opinione pubblica!); dotato di una mostruosa
superfetazione quale la Commissione delle autonomie territoriali (art. 97).
Occorrerà tornare ad
un Senato rappresentativo delle Regioni (e delle autonomie locali?), così
come succede in quasi tutti i Paesi dove vige un sistema bicamerale e
comunque in tutti quelli dove esistono forme più o meno avanzate di
federalismo, di regionalismo o comunque di decentramento delle funzioni
pubbliche. Se si ritiene che il modello di un Senato delle Regioni eletto in
secondo grado dai Consigli regionali (e dalle autonomie locali) non sia
accettabile, perché ne emergerebbe un Senato non di rango eccelso, si può
pensare ad un Senato composto da un numero pari (o, comunque, poco
differenziato: da due ad otto) di senatori per ogni regione, eletto sì
direttamente, ma contestualmente all’elezione dei Consigli regionali (con
la cui decadenza decadrebbero anche i senatori eletti in quella regione),
integrato dai presidenti delle Regioni e - questa ormai pare la tendenza -
da un numero pari di rappresentanti delle autonomie locali.
Questo, della
parificazione tra Regioni ed autonomie locali, è il secondo punto dolente
della proposta di autonomia contenuta nella bozza: la spia di questa
delusione è nell’art. 56, comma 2, che attribuisce "ai Comuni la
generalità delle funzioni regolamentari e amministrative anche nelle
materie nelle quali spetta allo Stato o alle Regioni la potestà
legislativa". Dietro l’apparente volontà di fare dei Comuni (di
tutti gli ottomila Comuni italiani e di ognuno di essi) l’unità
fondamentale della struttura pubblica non può non nascondersi - stante
l’evidente impossibilità di almeno 7.500 Comuni di svolgere siffatta
funzione, in ragione delle dimensioni e delle risorse, umane ed economiche,
insufficienti - una volontà assai vicina a quella del divide et impera e
soprattutto un disconoscimento della funzione costituzionale - di controllo
sul potere e di contropotere - che le Regioni possono svolgere in tempi di
democrazia maggioritaria.
A
questo disconoscimento del ruolo delle Regioni risponde poi il lunghissimo
elenco delle materie di competenza legislativa dello Stato (art. 59), non
tanto in sé, quanto perché il continuo riferimento - alla lettera c - a
"norme generali", "disciplina generale",
"ordinamento generale", e così via, fa pensare che la Commissione
muova ancora una volta da un rifiuto della cultura della disomogeneità e
delle differenze, cultura che non può non costituire l’humus di un
regionalismo moderno (Nota n.1) .
3. Nonostante sia
stata oggetto di aspri scontri, che hanno portato a non votare emendamenti e
ad accettare la quarta bozza Boato, il testo per quanto riguarda la
magistratura appare una buona ipotesi di compromesso ed un buon punto di
partenza.
Si è già detto sopra
di alcuni princìpi innovativi significativi. Scendendo nel dettaglio, è
positivo - pur se forse, astrattamente, non di rango costituzionale - il
principio per cui i magistrati esercitano inizialmente funzioni giudicanti,
per poi scegliere successivamente tra funzioni giudicanti e funzioni
inquirenti, fermo rimanendo che il passaggio successivo da una funzione
all’altra richiede un concorso (nell’ambito dello stesso articolo può
forse essere più coraggiosa la previsione del ricorso a magistrati onorari
ovvero alla nomina a giudice di professori e avvocati). Oggetto di più
attenta riflessione dovrà essere la Corte di giustizia della magistratura,
che diventa il luogo di una discutibile autodichia della corporazione.
Egualmente
oggetto di qualche dubbio è la separazione del Consiglio di Stato dalla
giurisdizione amministrativa (Nota n.2):
secondo il parere di chi scrive, il vero problema della giustizia
amministrativa non è il cumulo della funzione consultiva (preventiva,
generale ed astratta) con la funzione giurisdizionale, bensì il fatto che
chi svolge funzioni giurisdizionali, consultive (in via preventiva, generale
ed astratta) possa poi anche svolgere funzioni consultive
"concrete" nell’ambito dell’amministrazione attiva. Verrebbe
però quasi da dire che la scelta è nelle mani dei consiglieri di Stato:
delle funzioni dell’attuale Consiglio di Stato - giurisdizionali,
consultive generali, consultive nell’ambito dell’amministrazione attiva
- se ne possono tenere insieme due; il testo della Bicamerale lascia al
Consiglio di Stato le funzioni consultive generali e, si presume, quelle
nell’ambito dell’amministrazione attiva; il ritorno del Consiglio di
Stato nell’alveo giurisdizionale presuppone, forse, la rinunzia alle
funzioni consultive "concrete".
Sempre per ricordare
qualche ulteriore profilo generale, va sottolineato poi che appare incongrua
l’attribuzione al presidente della Repubblica della presidenza dei
Consigli superiori della magistratura ordinaria e amministrativa.
4. Merita un capitolo
a parte la Corte Costituzionale, al cui riguardo si possono sottolineare
l’introduzione di cose positive (opinione dissenziente; possibilità di
modulare l’efficacia temporale delle sentenze; ricorso diretto per la
tutela dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione) a fianco a
cose meno positive (in particolare, appare discutibile la ricorribilità in
conflitto di attribuzione da parte di Comuni e Province, che condurrà ad un
insopportabile aumento del contenzioso dinanzi alla Corte). Nel contesto
dell’aumento degli spazi di intervento della Corte, poteva essere forse
aumentato il numero dei giudici (ad esempio, portandolo a diciotto, in modo
da rendere più facile la costituzione di sezioni) e si poteva forse
reintrodurre la durata di dodici anni del mandato, che permette una più
lunga utilizzazione dell’esperienza dei giudici.
Solo un cenno -
sperando che se ne possa poi parlare con maggiore serenità - alla
disciplina del referendum, che, per quanto riguarda quello abrogativo (su
quello propositivo si dovrà tornare più ampiamente), altro non è che una
razionalizzazione delle più estreme pulsioni antireferendarie
giurisprudenziali e dottrinali, che dimentica la funzione di contropotere
che il referendum può esercitare in una democrazia maggioritaria.
5. La discussione più
appassionata si è avuta in tema di forma di governo: al voto della Lega,
che ha fatto prevalere la soluzione dell’elezione universale e diretta del
presidente della Repubblica - tra tentativi di azzeramento del voto, paure
di portare fino in fondo la scelta semipresidenziale, appelli
all’embrassons-nous - non è poi seguìta una congrua soluzione dei
rapporti tra governo, Parlamento e presidente stesso: il capo dello Stato
disegnato dalla Bicamerale continua a volare tra le capitali europee, non
essendo ancora chiaro se il modello sarà quello francese, ovvero quello
austriaco.
In verità,
l’elezione diretta del presidente della Repubblica costituisce sicuramente
un’innovazione di grande rilievo: bipolarizza il sistema politico (o
almeno può farlo); esalta la competizione tra individui, rispetto a quella
tra schieramenti; introduce un principio di visibilità delle responsabilità.
E se a questo presidente eletto direttamente si danno dei poteri, è molto
probabile che l’evoluzione del sistema politico verso un modello che
esalti il ruolo del presidente o lo deprima dipenderà fondamentalmente
dalle persone che si candideranno alla carica e dall’uso che sapranno e
vorranno fare di tali poteri.
Si può comunque sin
d’ora affermare che un semipresidenzialismo ben bilanciato deve permettere
al presidente: 1.a) di partecipare alla funzione di indirizzo delle scelte
di governo, quando disponga della maggioranza parlamentare o la controlli;
1.b) di difendere il suo domaine reservé, quando la maggioranza
parlamentare non gli sia favorevole (giacché la scelta dell’esistenza di
un domaine reservé è finalizzata al mantenimento comunque del ruolo di
garanzia del capo dello Stato in questi settori); 1.c) godere di una
funzione di controllo sulla capacità del Parlamento di esprimere
maggioranze compatte e in grado di governare; mentre deve permettere al
governo: 2-a) di svolgere l’indirizzo dato dal capo dello Stato, nel caso
di maggioranze coincidenti; 2-b) di difendere la sua stabilità, possibilità
e capacità di governo, nel caso di maggioranze divergenti.
Per quanto sia vero
che questi confini vengono poi stabiliti dalla prassi e nella prassi, il
testo della Bicamerale non si fa carico di tali questioni; ed è per questo
che su alcuni punti della ripartizione dei poteri tra presidente e governo
appare opportuna qualche ulteriore riflessione.
Il rispetto del punto
1-a richiederebbe così che il presidente possa partecipare al Consiglio dei
ministri, pur senza diritto di voto (non avrebbe senso mettere in minoranza
il capo dello Stato), per indirizzare l’attività di governo; mentre il
rispetto del diritto del governo alla stabilità, anche nel caso di
maggioranze divergenti, presupporrebbe l’eliminazione del potere
presidenziale di autorizzazione dei disegni di legge governativi (in tal
modo il presidente si intrometterebbe pericolosamente tra governo, che ha già
formato la sua opinione, e Parlamento: un modello equilibrato vuole che il
presidente intervenga a monte della formazione della volontà politica del
governo e a valle, dopo l’approvazione parlamentare, con il rinvio).
D’altra parte, il rispetto della funzione presidenziale di cui al punto
1-c presuppone un aumento dei suoi poteri di scioglimento (si è già
notato, di converso, come non appaia consigliabile la presidenza dei
Consigli della magistratura).
Occorre fare dunque un
attento e prudente gioco di scambio: starà all’attenzione ed alla capacità
dei commissari presidenzialisti far sì che nello scambio - necessario per
dare più equilibrio al sistema - non scompaiano (per miracolo non già
divino, ma del profeta) tutti i poteri del presidente!
6. Il vero oggetto del
contendere è stato ed è la legge elettorale: ma questa non è stata
rivelata ai comuni mortali se non per sommi capi. Cosicché oggi sappiamo
solamente che si voterà in due turni, nel primo dei quali verranno
assegnati il cinquantacinque per cento dei seggi in collegi uninominali e il
venticinque per cento con sistema proporzionale, mentre nel secondo si
assegnerà il residuo venti per cento dei seggi, distribuendolo in modo che
la coalizione vincente - delle due che saranno ammesse a questo anomalo
ballottaggio - possa avere un margine sufficiente per governare.
Dentro questa
descrizione ci possono essere - ancora - cose tra loro diverse. Molte delle
cose che già si intravedono non sono, però, belle. E così non è bello
questo rinculare dal maggioritario uninominale (cioè dalla scelta tra
persone, pur se appartenenti a schieramenti), che passa dal 75% dei seggi al
55% e questo aumentare del proporzionale; e ancor meno bello è questo
ritorno della scelta dei parlamentari alle decisioni insindacabili e
incontrollabili dei partiti. E, ancora, non convince il doppio turno di
schieramento, in cui si voterà non già per le persone, bensì per gli
schieramenti, con un indesiderabile effetto di scelta di campi e con il
conseguente rischio di un fortissimo tasso di astensione di tutti coloro che
non si riconoscessero nei due schieramenti passati al secondo turno. E tanto
meno convince - ed è anzi assai pericoloso se combinato con l’elezione
diretta del presidente della Repubblica e con la presenza di un Senato
semipolitico - il fatto che un simile sistema elettorale potrebbe far
vincere al secondo turno (Polo contro Ulivo) lo schieramento che al primo
turno aveva ottenuto un minor numero di seggi, provocando così un problema
tecnico (dove reperire i seggi per far governare il vincitore del secondo
turno, dotato di pochi seggi al primo?) e un problema politico (di quale
legittimazione goderebbe una maggioranza uscita in questo modo?).
Meglio il doppio turno
di collegio? Forse. Meglio, comunque, sicuramente - oltre a non
costituzionalizzare il sistema elettorale - se di questo se ne potrà
discutere serenamente e a carte scoperte, senza che i detentori
dell’accordo politico (e i loro interpreti autorizzati) calino ogni volta
la mannaia a troncare teste e discussioni.
7. Un atteggiamento
costruttivo sta prevalendo, di fronte al testo partorito dalla Bicamerale,
tra gli intellettuali, i costituzionalisti, i politologi, gli esegeti a
vario titolo della Costituzione vigente e di quella futura. Se un
atteggiamento simile allignerà anche tra i revising fathers, forse il
cammino giungerà in porto: l’augurio - oggi - non può che essere quello
di porre fine ad un’interminabile, defatigante transizione, giungendo a
licenziare un testo equilibrato di riforma degli strumenti di governo,
capace di introdurre anche qualche barlume di princìpi costituzionali
nuovi.
Note
1.
Su di un altro aspetto, su cui la Commissione ha fornito risposte
insoddisfacenti, quello dell’autonomia finanziaria delle Regioni e degli
enti locali, si sofferma a lungo Bertolissi nel commento relativo alla forma
di Stato.
(torna
al testo)
2.
Nell’ambito di una presentazione generale, non si può entrare in
dettaglio nel tema delicatissimo della soppressione della giurisdizione
contabile, con correlativa attribuzione di funzioni alla giurisdizione
amministrativa: mi limito a ricordare che la maggior parte dei Paesi europei
prevede un’autonoma giurisdizione contabile.
(torna
al testo)
Beniamino
Caravita
ordinario
di Diritto costituzionale nella facoltà
di Giurisprudenza dell’Università di Perugia |
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