Albania,
Italia: così vicine, così lontane
I VICINI RITROVATI
di Pierluigi Mennitti
Le luci di Durazzo
appaiono all’improvviso sulla linea dell’orizzonte, dritto oltre la prua
della nave, a squarciare il buio denso e angosciante della notte adriatica.
In piedi sul ponte del traghetto “Palladio” ci lasciamo trasportare
verso il mistero Albania cullati dalle onde del mare e da una nenia
balcanica trasmessa dalla radio di bordo. Le luci della città si fanno più
intense e vicine mentre l’umidità avvolge tutto in un alone di magia e i
fari rossi e verdi del porto sfilano silenziosi sul fianco della nave.
L’Albania si presenta così: il calore di un porto, la tranquillità di
una città sprofondata nel sonno, i raggi violacei dell’alba che spunta
dietro le montagne. Quattro ore più tardi Tirana ci presenterà l’altro
volto. Immersi nel caos di Piazza Skanderbeg, pronti a schivare le ruote
minacciose di un fuoristrada giapponese con targa tedesca o a rifiutare
generose offerte di cambio al nero, con gli occhi gonfi per la polvere che
il vento solleva a mulinelli, saremo faccia a faccia con le contraddizioni,
le speranze e i problemi di un paese che, da otto anni, è tornato a
confinare con l’Italia.
Da quando
nell’inverno del 1991 gli studenti dell’università di Tirana avviarono
quella protesta che in pochi mesi travolse il regime comunista di Ramiz
Alia, il successore del despota Enver Hoxha, l’Albania è ricomparsa sulla
carta geografica d’Europa, a sole trenta miglia dal castello di Otranto.
Salendo sui torrioni di quel forte salentino, nelle mattinate di bel tempo,
quando l’aria è secca e il sole ancora non troppo alto, scrutando
l’orizzonte dal lato del mare, la brulla costa albanese si intravvede a
occhio nudo. Da quella costa, da quelle montagne di pietra, sono arrivate in
otto anni migliaia di persone alla ricerca di un benessere che noi non
potevamo soddisfare. Su quella costa e su quelle montagne, centinaia di
antenne satellitari captano ventiquattro ore al giorno per
trecentosessantacinque giorni all’anno la cultura e il modo di vivere
degli italiani che la televisione inevitabilmente deforma. Su quella costa e
tra quelle montagne migliaia di persone hanno imparato a parlare, pensare,
vivere in italiano. Tifano per la Juve, la Lazio o il Milan, si commuovono
con Raffaella Carrà, sospirano per il commissario Montalbano, partecipano
ai dibattiti tra Berlusconi, Fini e D’Alema. Se potessero, li voterebbero
pure, costretti come sono a scegliere tra Fatos Nano e Sali Berisha.
L’Albania è entrata nelle nostre case con i suoi emigranti carichi di
miseria e speranza. L’Italia è entrata nelle case albanesi con le sue
televisioni cariche di illusioni ed effetti speciali. Ci vorrà molto tempo
e tanta, tanta pazienza per superare i pregiudizi e i luoghi comuni che
questi due specchi deformanti hanno costruito nelle menti dei due popoli:
non sarà possibile farne a meno, vicini come siamo.
L’Albania del 1999,
retrovia del conflitto balcanico che ha infiammato il cuore dell’Europa e
che oggi si avvia verso una precaria e incerta soluzione, appare una nazione
per molti versi in ripresa. Lasciatisi alle spalle la spaventosa crisi
economica seguita al fallimento delle piramidi finanziarie, gli albanesi
hanno ricominciato a lavorare e a ingegnarsi.
Gli aiuti che
l’Italia ha fornito loro sono stati preziosi, sia sul piano strettamente
finanziario che su quello politico. I primi sono serviti per tamponare
l’emergenza. I secondi hanno consentito di ristrutturare le istituzioni
statali di un’Albania allo sbando. Le camionette di polizia e carabinieri
italiani che sfrecciano zigzagando per i boulevard del quartiere
ministeriale di Tirana testimoniano di un impegno ancora presente, di una
tutela assai apprezzata. E’ per questo, forse, che gli albanesi hanno
digerito il ribaltone telecomandato che ha spodestato Sali Berisha e posto
sul ponte di comando, in un primo momento, Fatos Nano. Passata la prima
emergenza e rimasto sullo stomaco il leader socialista, si è trovato il
modo per far fuori anche lui. Oggi il Paese è guidato da Pandeli Majko,
leader giovane e incolore, da tutti considerato persona di grande onestà (e
in Albania è già un grande titolo di merito), la cui preoccupazione
principale sembra quella di non farsi riprendere di profilo dalle telecamere
della tv per via di un naso troppo lungo e decisamente poco fotogenico.
Politica a parte, che
resta assieme alla strapotenza della criminalità organizzata il grande
tallone d’Achille di questo Paese, l’economia sembra essere ripartita.
Sarà l’effetto collaterale della guerra, sarà che il capitale lecito e
più spesso illecito accumulatosi nel Paese è stato messo in circolo, sarà
l’onda lunga degli aiuti finanziari internazionali o le commesse degli
albanesi emigrati all’estero, Tirana non è più quella città moribonda e
disastrata di due anni fa, quando le bande criminali avevano preso il
sopravvento e il suono cupo dei kalashnikov costringeva i suoi abitanti a
rintanarsi in casa e a nascondere terrorizzati la testa sotto i cuscini. Sarà
bene attendere che qualche dato statistico confermi quella che oggi è solo
un’impressione. E tuttavia, percorrendo in lungo e in largo le strade
della capitale, colpisce la moltiplicazione degli esercizi commerciali, i
cantieri edili che si aprono ovunque, i mercati alimentari affollati di
merci e compratori. Così come fa un certo effetto ritrovare lungo la
riviera di Durazzo una specie di Rimini albanese, fatta di bar, pub e
discoteche strapiene fino all’inverosimile nelle afose notti estive.
Certo, non tutta l’Albania è come Tirana o Durazzo.
I miseri banchetti di
salsicce e feta di Scutari, le banchine del porto di Valona sorvegliate dai
boss mafiosi del contrabbando di clandestini, il disarmante squallore dei
palazzetti di Kukes ci ricordano continuamente i drammi con cui questo Paese
deve confrontarsi. La criminalità, innanzitutto. Feroce, onnipresente,
vincente. Penetrata ormai in tutti i gangli vitali dell’economia e della
politica. Legata a doppio filo con le mafie italiane e montenegrine. Capace
di corrompere tutto e tutti e di imporre una cultura dell’illegalità che
è diventata modello di vita quotidiana. Eppure, per chi vuole guardare
oltre le strettoie del presente è possibile imbattersi in un’Albania
vitale che insegue l’Occidente non attraverso la scorciatoia
dell’illusione televisiva e dell’arricchimento a tutti i costi. Si sta
sviluppando una sorta di ceto medio borghese e laico, costituito dai
commercianti più intraprendenti, dai funzionari dell’amministrazione
pubblica rientrati in patria dopo esperienze all’estero, dai giornalisti
della nuova generazione o dagli intellettuali lontani dai circoli ufficiali.
Questo spicchio di popolazione, estraneo per convinzione e più spesso per
età al vecchio apparato comunista, rappresenta una piccola élite che
tenta, non senza difficoltà, di trasformarsi in classe dirigente. E di
imprimere al Paese una modernizzazione delle istituzioni e dei costumi per
chiudere con un passato di arretratezza e un presente di incertezze.
C’è poi l’eredità
della guerra che ha rappresentato per gli albanesi una sorta di catarsi
generale. Innanzitutto, una terra da sempre ai margini degli interessi
geopolitici mondiali si è venuta a trovare di colpo al centro
dell’attenzione generale. La Nato vi ha trovato un’indispensabile testa
di ponte per le operazioni militari in Kosovo, l’ha invasa con le sue
truppe, i suoi mezzi militari, i suoi soldi. E l’Albania s’è fatta
invadere con gioia, quasi con entusiasmo, riemergendo dalla periferia del
mondo e riscoprendo quella voglia di Occidente, di Europa e soprattutto di
America, che le difficoltà degli ultimi anni avevano frustrato. In più, la
grande prova di forza che la popolazione ha saputo sostenere, ospitando con
enormi sacrifici le centinaia di migliaia di profughi kosovari, ha suscitato
in questo popolo un orgoglio da molto tempo sopito.
La capacità di tener
testa ad un’emergenza così vasta, la solidarietà dimostrata verso gente
più sfortunata, la consapevolezza di aver riscattato, in un impeto di
commozione generale, anni e anni di insipienza e pigrizia ha dato agli
albanesi una buona dose di fiducia in se stessi. Se saremo capaci di fornire
a questo Paese i sostegni giusti, di esportare un nostro modello di
convivenza civile, di valorizzare la nuova società albanese, forse tra
qualche anno potremo sperare di avere dei vicini di casa meno turbolenti e
più stabili. Ma qui sta il punto. E’ in grado, un Paese come il nostro,
privo di identità nazionale, di un modello forte di politica e convivenza
civile, di assolvere a un compito tanto gravoso? Sono anni che ci proviamo.
Ma mentre siamo bravissimi a gestire le emergenze – siamo una grande
protezione civile che interviene con generosità e tempestività nei momenti
più drammatici della vita albanese con le nostre Caritas, i nostri
volontari, il nostro esercito – quando si tratta di impostare una politica
a lungo termine di risanamento dell’Albania registriamo puntuali
fallimenti. Siamo proprio sicuri di non aver sbagliato anche noi qualcosa?
Pierluigi Mennitti |
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