Congetture
& Confutazioni
L'EUROPA DOPO HAIDER
di Giuseppe
Sacco
L’indignazione
morale è stata la naturale reazione sollevata, a caldo, dal “caso
Haider”: l’avvento al potere in Austria di un partito il cui leader si
è troppe volte trovato costretto a ritrattare o correggersi perché delle
sue convinzioni profonde non si possa legittimamente sospettare. E’
inutile nascondersi dietro il fatto formale che il programma del nuovo
governo sia “politicamente corretto”. Nel giudizio etico e politico che
ciascuno, e l’opinione pubblica nel suo insieme, ha l’insindacabile
diritto di esprimere, ciò che conta è la sostanza, e non la facciata. E’
vero che analoghi rigurgiti antieuropei ci sono stati in passato, e sono poi
stati eliminati dalle stesse società che li avevano prodotti. E’ vero,
come ha detto Simon Wiesenthal, che non siamo ancora in una situazione in
cui gli ebrei austriaci hanno bisogno che si corra in loro aiuto. E’ vero
che l’Austria di oggi non è fortunatamente quella
dell’entre-deux-guerres, al centro del disegno pangermanista. Al
contrario, è una componente non marginale dell’Unione europea. Eppure,
così come sarebbe un errore sottovalutare il caso Haider sul piano morale,
sarebbe peggio di un errore sottovalutarlo sul piano politico. Sotto questa
angolatura, quella politica, il coinvolgimento dei partners nella questione
austriaca è più che giustificato, sulla base di un nuovo tipo di rapporti
tra le nazioni storiche dell’Europa: un rapporto non tra gli Stati e le
loro arcaiche diplomazie, ma tra le società. E la reazione delle società
europee è stata di generale condanna.
Ciò
ha portato a misure insolite nei rapporti tra i governi della Ue. Misure
talora ridicole, come i distinguo diplomatici tra incontri “tecnici” e
incontri istituzionali – distinguo che al massimo hanno senso nei rapporti
tra i “mostri freddi”, tra Stati intrinsecamente estranei, se non tra
loro rivali ed ostili – , ma misure che sollevano un problema assai più
ampio, e destinato a sopravvivere al fenomeno dell’estremismo xenofobo in
Austria: il problema se sia consentito, a ciascun paese membro, di
allontanarsi dai valori e dagli orientamenti politici comuni. Sembrerebbe
indubbio, se si resta sul piano della diplomazia internazionale, che la
composizione di una coalizione di governo sia una faccenda interna
dell’Austria, o di qualsiasi altro paese membro, e che nessuno dei
Trattati attribuisca agli altri partners, o alle istituzioni di Bruxelles,
un droit de regard su ciò che viene liberamente deciso dagli elettori di
ciascun paese. Ma, ancora una volta, al di là della forma c’è la
sostanza; al di là della Costituzione formale, quella che regola la
dinamica politica è la Costituzione materiale. La Costituzione materiale
dell’Europa, sino ad oggi, è stata quella di una comunità di popoli
decisi a non più tenere i propri destini separati, o opposti, come per il
passato. E se essi debbono costruire insieme una nuova entità politica, i
loro rapporti non possono essere quelli internazionali classici, ma debbono
essere basati su un consenso abbastanza forte da distinguere chi
“appartiene” al gruppo da chi non vi appartiene. La sostanza della
Costituzione europea finisce perciò per stabilire che chi si allontana
troppo politicamente dal consenso morale degli altri si esclude
automaticamente dall’Unione. La condanna per l’umiliante pateracchio
austriaco è – pertanto – fondata e legittima per tutti coloro che
accettano una Costituzione materiale dell’Europa che ne fa qualcosa di più
di quello che credono e vogliono molti tiepidi e recenti adepti dell’idea
europeista. Non a caso, la posizione di Tony Blair nella condanna di quanto
accade a Vienna è stata estremamente moderata e prudente. E c’è da
chiedersi cosa pensino oggi della loro appartenenza alla Ue le classi
politiche di paesi membri come la Svezia, cioè di un paese che chiaramente
sta nella Ue solo per convenienza economica, e che ha nel suo passato non
solo una “neutralità” un po’ troppo benevola verso i nazisti, ma
anche qualche brutta macchia eugenetica e di “difesa della razza”.
Due
questioni politiche importanti discendono perciò dal caso Haider. Due
questioni che occorre, naturalmente, porsi a mente fredda. C’è in primo
luogo il fatto che altri casi del genere saranno probabilmente inevitabili,
data l’ampiezza e la velocità che hanno preso la caduta delle frontiere
ed i fenomeni migratori, ed il ritmo addirittura forsennato che si vorrebbe
imporre all’allargamento della Ue. Di questa eventualità dovranno tenere
conto i troppo entusiasti propugnatori di un allargamento della Ue ad una
dozzina abbondante di paesi con brutte tradizioni di nazionalismo esasperato
e di antisemitismo. E certamente ne terranno conto le opinioni pubbliche
degli stessi candidati all’ammissione nella Ue, che già da qualche tempo
vanno raffreddandosi nei confronti dei vincoli e della disciplina che –
come si è visto col caso austriaco – l’essere membri comporta. La
seconda questione politica è ancora di più grande rilevanza, e si può
riassumere nell’interrogativo di cosa significhi l’impegno europeista
dopo il contemporaneo manifestarsi del fenomeno Haider e del devastante
attacco che è stato scatenato contro il Cancelliere Kohl e la Cdu, cioè
contro l’elemento-chiave dello schieramento filoeuropeo. Le due cose sono
strettamente collegate. Distrutto l’architetto di una riunificazione
tedesca condotta nel quadro di una forte integrazione europea, non solo le
forze moderate della Germania – cioè del paese attorno a cui ruota da un
secolo e mezzo il destino dell’Europa – vengono inevitabilmente respinte
verso destra, ma l’intero progetto europeo rischia di cambiare carattere e
significato politico. Sul processo di integrazione europea si stende
l’ombra di una forte ripresa dell’identità germanica, e della necessità
degli altri popoli del continente di tornare a collocarsi uno per uno
rispetto ad essa. Non a caso, l’attacco dei giudici a Kohl e
l’indebolimento della Cdu hanno coinciso con le prime discussioni serie
sull’ipotesi che la Gran Bretagna possa aderire al Nafta, l’area
nordamericana di libero scambio: un’ipotesi disastrosa per l’Inghilterra
ancora prima che per l’Europa.
Le
forze politiche che hanno sinora combattuto, con risultati assai positivi,
per “europeizzare” sia la Germania che la Gran Bretagna, nonostante un
quadro dinamico che ha visto la prima riunificarsi e la seconda accentuare
la propria interna frammentazione, si trovano così di fronte alla necessità
di difendere quanto sinora acquisito. Esse entrano in una fase in cui sarà
necessario concentrarsi sull’obiettivo di un’Europa geograficamente più
piccola, ma politicamente più coerente. E dovranno spietatamente chiamare
col loro vero nome tutte le sciocchezze “geopolitiche” che hanno, negli
ultimi tempi, portato a dare priorità all’allargamento della Ue rispetto
al cosiddetto “approfondimento”, cioè al suo sviluppo istituzionale.
Esse rischiano altrimenti, e non in senso solo figurato, di lavorare per il
re di Prussia: un re che non è nell’interesse di nessuno, né dei popoli
extraeuropei, né di quelli del nostro Vecchio Continente, vedere di nuovo
sulla scena mondiale.
(Ideazione Marzo-Aprile 2000)
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