Miklós Vásárhelyi, dal comunismo alla libertŕ
di Antonio Carioti
L'ultimo processo staliniano dell'Est europeo si svolse nel 1958, quando il baffuto despota del Cremlino era defunto da oltre cinque anni. Ma l'assurditŕ dei capi d'imputazione, la malafede di accusatori e giudici, la ferocia della sentenza furono all'altezza dei precedenti. Bisognava punire in modo esemplare i comunisti ungheresi, primo fra tutti Imre Nagy, che durante la Rivoluzione del 1956 si erano schierati dalla parte del loro popolo piuttosto che con l'Unione Sovietica. Tra gli imputati sfuggiti alla pena di morte, c'era un giornalista dagli occhi chiari e dal carattere affabile, che era nato a Fiume nell'ottobre del 1917 (quasi un segno del destino) ed č morto a Budapest quest'estate: si chiamava Miklós Vásárhelyi. Dopo la scarcerazione, avvenuta nel 1960, aveva impiegato tutte le energie a riscattare la memoria dei compagni assassinati. Solo nel giugno del 1989 aveva potuto coronare il suo sogno, con le esequie ufficiali che restituirono ai caduti della Rivoluzione il loro onore di intrepidi patrioti.
C'era anche Achille Occhetto, ancora segretario del Pci, presente a quella cerimonia, quasi a riscattare il ruolo di fiancheggiatore dei carnefici tenuto quarant'anni prima dal suo predecessore Palmiro Togliatti. Sě, perché al processo contro Nagy si arrivň dopo una consultazione svolta tra i capi dei piů importanti partiti comunisti a Mosca, nel novembre 1957. Il polacco Wladyslaw Gomulka, che pure stava dietro la cortina di ferro, fu l'unico a protestare. Invece il leader del Pci non ebbe nulla da obiettare alla macabra messinscena in preparazione a Budapest: si raccomandň tuttavia che la faccenda venisse sbrigata dopo le elezioni politiche italiane del 25 maggio 1958, in modo da non fornire argomenti di propaganda alle forze borghesi. E fu accontentato, perché i conti con Nagy e gli altri vennero regolati in giugno.
Cosě l'impero sovietico pensava di aver chiuso la spiacevole parentesi ungherese, durante la quale si era assistito alla intollerabile ribellione della classe operaia contro quello che, secondo i dogmi pietrificati del marxismo-leninismo, avrebbe dovuto essere il suo stesso potere. Ma la ferita inferta al prestigio del sistema era troppo profonda. Da quel momento a Budapest, cosě come sarebbe avvenuto a Praga dodici anni dopo, il comunismo divenne il rifugio degli opportunisti e dei carrieristi, un catechismo posticcio da recitare a pappagallo per farsi meglio gli affari propri. Perse definitivamente uomini come Vásárhelyi, che alle utopie di Lenin avevano creduto da prima della guerra, quando in tutta l'Ungheria gli iscritti al partito, peraltro fuorilegge, erano poche centinaia.
"Verso la libertŕ" č il titolo del volume, edito da Rubbettino, che raccoglie le due lunghe interviste con Vásárhelyi curate da Federigo Argentieri, lo storico che ha maggiormente contribuito a ripristinare la veritŕ, nell'ambito della sinistra italiana, sulle vicende del 1956 magiaro. Sono pagine in cui la crudezza degli avvenimenti rievocati viene non poco attenuata dalla serenitŕ di giudizio dell'intervistato. Una volta scelta la via della dignitŕ e delle coerenza, Vásárhelyi aveva tirato diritto fino in fondo, pagando un prezzo non indifferente, subendo angherie e attacchi ingiusti anche dopo la caduta del Muro di Berlino. Ma proprio la consapevolezza di aver agito secondo coscienza gli dava una forza che i suoi persecutori non avrebbero mai potuto avere. Oggi il suo nome si puň collocare a buon titolo accanto a quelli di Nagy, di Alexander Dubcek, di Milovan Gilas, di Jiri Pelikan. Comunisti capaci di aprire gli occhi sui loro stessi errori e di invertire la rotta catastrofica tracciata da Lenin e Stalin. Di uscire dal totalitarismo e dirigersi risolutamente, appunto, "verso la libertŕ".
7
settembre 2001
a.carioti@flashnet.it
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