Gianfranco Miglio:
un gigante del pensiero politico
di Carlo Stagnaro
E' nel silenzio di tutti che, il 10 agosto 2001, Gianfranco Miglio ci ha abbandonati. Un silenzio spietato, tagliente, interrotto quasi soltanto dagli starnazzamenti di qualche ex amico e dai primi, maldestri tentativi di appropriazione da parte di chi sta a Miglio come Hitler sta al Talmud. Tra i pochi ricordi che gli sono stati dedicati dalla stampa, solo due hanno saputo cogliere la genialità del professore: Marcello Staglieno su "il Nuovo" e Alberto Mingardi su "Libero". Due, due soltanto, in mezzo al maremoto di parole a vanvera che ogni giorno flagella le pagine dei quotidiani.
Certamente, Miglio non aveva i requisiti per ottenere tonnellate di "coccodrilli", né per avere l'omaggio dai giornalisti e l'onore delle armi dai nemici politici.
Il professore era antipatico, perché diceva ciò che pensava e faceva quel che diceva. In un certo senso, era un "talebano culturale": non accettava mezze misure, compromessi, giri di parole. Ogni volta che apriva la bocca, lo faceva per demolire i dogmi della modernità e affermare, novello Zarathustra, che sulle macerie del "secolo breve" poteva costruirsi una società più libera e migliore. E ha pagato per questo.
Miglio non era uno che piacesse "alla gente che piace". I suoi giudizi netti, le sue idee rivoluzionarie, la lucidità del suo pensiero hanno sempre dato fastidio. Vale la pena dunque ricordarlo per questo, in maniera tale che la sua memoria resti sempre legato alla sua limpidezza, e la sua eredità culturale non possa essere razziata dai saccheggiatori di tombe in una delle loro scorrerie ideologiche.
Al centro del pensiero migliano è la consapevolezza che "l'epoca della statualità" è finita. Interprete del realismo politico di Carl Schmitt e allievo di Alessandro Passerin D'Entreves, Miglio sosteneva la possibilità di assestare il colpo decisivo allo "jus publicum europaeum" attraverso la dissoluzione delle forme che avevano caratterizzato lo Stato moderno. Il superamento dei rapporti basati sull'obbligazione politica (che erano stati capaci di generare i mostri sanguinari del Ventesimo secolo) poteva avvenire solo attraverso l'accettazione di istituzioni pattizie, tali da legare le comunità secondo formule analoghe a quelle del contratto privato. Per esempio, tali vincoli non potevano essere eterni, ma dovevano rimanere legati alla generazione che li aveva stretti: da qui, la proposta di una Costituzione a termine, che durasse un trentennio.
E' nell'ambito di questa riflessione che il neofederalismo migliano emerge con prepotenza e assume una statura tale da garantirgli visibilità e fama a livello mondiale. Di fronte al "vecchio professore", notava Giuseppe Motta su "Enclave", "su molti temi e problemi chiave della politologia moderna, non solo Giovanni Sartori e Norberto Bobbio - gli italiani più noti - ma anche scienziati della politica americani letteralmente impallidiscono". E, a ben guardare, le ragioni della sua emarginazione sono tutte lì: Miglio da un lato aveva messo in dubbio la religione laica e il suo dio (lo Stato), dall'altro minacciava di oscurarne e sconfiggerne gli apostoli e i profeti con le armi della dialettica e della ragione.
Non deve allora stupire che, poco prima di abbandonarci, Miglio abbia affermato: "Giunto alla fine della mia carriera sono diventato libertario". L'adesione all'"estremismo liberale" affonda le proprie radici nel passato e nell'onestà intellettuale che ha sempre contraddistinto il professore. Se proprio bisogna trovare un "momento della svolta", però, questo va situato nel 1993: anno in cui viene dato alle stampe "Disobbedienza civile", che affianca un saggio del grande pensatore comasco all'omonimo scritto di Henry David Thoreau.
In tale libro, Miglio critica fortemente le fondamenta stessa dello Stato moderno - il meccanismo democratico, il potere delle maggioranze, la facoltà di tassare,… - e giunge a sostenere che il regime cui i cittadini italiani sono sottoposti è talmente asfissiante da giustificare l'insorgere del "diritto a resistere". (In particolare, il professore si riferiva all'istituzione dell'ISI, ora ICI, e ne contestava la legittimità). Da lì alla difesa della secessione, il passo fu breve: anche perché il professore aveva sempre sostenuto la necessità per le regioni del Nord di aggregarsi in un'unica "macroregione" o cantone padano.
Pur ignorato dai grandi media, Miglio ha un posto nel cuore e nel ricordo di molti, che non negano il proprio debito intellettuale, culturale e morale nei confronti della sua opera. Questa è la ragione per cui La Libera Compagnia Padana, associazione culturale di cui il professore fu membro fin dalla nascita nel 1995, gli dedicherà un numero speciale dei "Quaderni Padani": che ospiterà contributi dei più competenti studiosi del pensiero migliano, da Alessandro Vitale a Carlo Lottieri, da Rocco Ronza a Marcello Staglieno, da Antonio Cardellicchio a Gilberto Oneto, direttore della rivista. In realtà, va detto che l'iniziativa era già stata programmata da tempo, ma oggi assume un significato e un senso nuovi e diversi.
Scopo della pubblicazione è collocare Gianfranco Miglio nella giusta ottica, e riconoscerne la grandezza. I pochi che hanno riferito della sua morte ne hanno parlato soprattutto come di un politico. Checché se ne pensi, non lo era: al contrario, è stato strenuo avversario della politica, la quale - parole sue - "è fatta completamente di cose inventate: anche il concetto di interesse è un'invenzione". Quello a cui bisogna rendere onore è il maestro, il pensatore, lo studioso appassionato. Che ci ha lasciato anche una sorta di testamento intellettuale: "Se la mia vita ha avuto uno scopo - ha affermato - non era certo di avere un posto nella storia d'Italia. Semmai nella storia del pensiero politico". E' andata proprio così, professore.
7
settembre 2001
cstagnaro@libero.it
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