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              Orgoglio afgano e pregiudizio nostrano: 
              col burqa per Firenzedi Cinzia Gorini
 
 Firenze. Con una grata di tessuto davanti agli occhi è necessario 
              tenere lo sguardo basso, se non si vuole inciampare. Nei giorni 
              scorsi ho indossato un indumento acquistato anni fa a Kandahar, un 
              ciadorì (di quelli che la nostra stampa chiama comunemente 
              “burqa”, termine che, confesso, non ho mai sentito in Afghanistan) 
              e, velata, sono andata in giro per Firenze. Ho fatto quello che 
              faccio normalmente, a parte guidare. Sono andata anche ad un 
              convegno in Palazzo Vecchio. Per strada, in autobus, nei negozi, i 
              commenti delle altre donne mi arrivavano come in un soffio: 
              “Poverina. Ma come fa a respirare”. “E si parla di tolleranza”. 
              Oppure: “Ma che razza di libertà hanno le donne se devono andare 
              in giro conciate così?” Imbarazzo e insolenza, perlopiù, nella 
              voce dei pochi uomini che hanno osato esporsi con qualche battuta 
              solitaria: “Mamma mia che paura”, ho sentito dire mentre passavo 
              tra i banchi dei mercatini fiorentini. E ancora: “Oh chi c’è 
              sotto?”. Ho incontrato alcune donne musulmane, delle africane, 
              avvolte in chador colorati che lasciano il volto scoperto, 
              bracciali d’oro ai polsi. Mi hanno sorriso, parlottanto tra loro. 
              Un’anglosassone, quasi certamente una statunitense, vedendomi ha 
              esclamato: “My Good”. Gli uomini africani e magrebini che ho 
              incrociato per strada, presumibilmente musulmani, mi hanno appena 
              sfiorata con lo sguardo. In generale le persone sono state gentili 
              con me. Più gentili e disponibili, nei gesti, negli sguardi e 
              nelle parole, quando quel poco che si intravedeva da sotto il 
              ciadorì (le scarpe e l’orologio, che ho cambiato varie volte per 
              verificare le reazioni di quanti incontravo) aveva l’apetto 
              vecchio e malandato. Come se gli afgani, per riscuotere la nostra 
              simpatia, dovessero essere per forza miserabili.
 
 Quando ero in Afghanistan, anni prima dell’avvento dei Talebani, 
              molte donne erano libere di scegliere se indossare o no il 
              “ciadorì”, questo costume plissettato, di una “seta sintetica” 
              chiamata “sondé”. Lo indossavano tranquillamente con i gioielli e 
              gli accessori che preferivano e che possedevano. Spesso sopra 
              abiti occidentali. La “grata” in tessuto era abbassata sul volto 
              oppure sollevata sopra la fronte. L’impressione che ebbi fu che il 
              “ciadorì”, portato liberamente - e solitamente solo nelle città - 
              rappresentasse l’attaccamento alle tradizioni di un popolo 
              orgoglioso e molto tollerante. Certo, erano le donne delle classi 
              socio-economiche più elevate quelle che potevano permettersi il 
              lusso intellettuale di indossare o meno questo abito tradizionale, 
              mentre le più povere e quelle che lavoravano in campagna, usavano 
              pezzi di tessuto per coprirsi i capelli e gli abiti. Se ci si fa 
              attenzione, anche nei servizi televisivi che arrivano in queste 
              settimane dall’Afganistan e dai campi profughi pakistani, non 
              tutte le afgane hanno il ciadorì: si vedono anche figure femminili 
              avvolte in teli di stoffa.
 
 Ma torniamo a Firenze e ai giorni scorsi. Di particolare interesse 
              è stato l’effetto che il mio ingresso in ciadorì ha prodotto in 
              Palazzo Vecchio durante il convegno sull’Islam e l’Occidente: ero 
              entrata da pochi minuti nel Salone dei Dugento, dove si svolgeva 
              il meeting ed ero stata accolta da qualche risatina (il ciadorì ha 
              scatenato l’ilarità di alcune persone solo tra i banchi del 
              mercato e in Palazzo Vecchio…) quando sono stata bloccata dalla 
              polizia che mi ha chiesto di uscire dalla sala e di scoprirmi. Ho 
              fatto immediatamente quanto mi veniva chiesto, comprendendo 
              l’esigenza delle forze dell’ordine di accertare l’identità dei 
              presenti ai fini della sicurezza. Ho inoltre mostrato subito il 
              mio tesserino di giornalista professionista e detto che stavo 
              conducendo un’inchiesta. Il mio tesserino è stato ignorato. 
              Maggior attenzione ha ricevuto il mio passaporto, ma sono stata 
              “rilasciata” solo dopo un controllo effettuato attraverso il 
              terminale della Questura. A fermarmi sono state delle poliziotte 
              in borghese, determinate ma gentili. Per la cronaca, dal 16 
              ottobre sono state adottate delle misure di sicurezza 
              straordinarie: metal detector e controlli personali per chi entra 
              in Palazzo Vecchio.
 
 19 ottobre 2001
 
 
              
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