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              Cattivi pensieri. Dell'arte di insegnaredi Vittorio Mathieu
 
 Quando ero in ruolo, ai professori universitari era consigliato 
              (non prescritto) dal Ministero di tenere almeno 50 lezioni 
              all’anno. Un amico mi ricordò che il movimento operaio, per 
              giungere alle 40 ore settimanali, aveva impiegato un buon secolo. 
              Ora i professori di scuola secondaria minacciano lo sciopero 
              perché le ore settimanali di lavoro prescritte potrebbero passare 
              da 18 a 24. Si tratta di vedere che cosa si intende per lavoro. Il 
              mio compianto collega Giorgio Tonelli (figlio di un celebre 
              matematico, e storico della filosofia ricordato in alcune 
              università tedesche) a fronte di una delle innumerevoli riforme 
              che già allora minacciavano l’università senza riuscire ad 
              ucciderla, commentò : “Ciò che mi allarma non è che prescrivano 50 
              o 70 ore di lezione all’anno: è che pretendano che le teniamo 
              davvero”.
 
 La chiave sta nella parola “scuola”: un termine greco che 
              corrisponde al latino “otium”. L’ozio è attività positiva, la cui 
              negazione è il negozio. Il negozio è necessario per permettere 
              l’ozio. Se nessuno lavorasse, Cezanne non avrebbe potuto inventare 
              quell’attività che, secondo i rustici provenzali, gli permetteva 
              di non lavorare. Ma non lavora anche chi dipinge? Dipende da che 
              cosa si intende per lavorare. La parola lavoro richiama 
              lacerazione e sofferenza: l’aratura dei campi e i dolori del 
              parto. Sono le due condanne per il peccato originale. Può darsi 
              che il lavoro nobiliti l’uomo, ma, in primo luogo, lo condanna. 
              Per contro l’attività lo sublima. E l’attività più alta, secondo 
              Plotino (che segue in ciò Aristotele oltre a Platone) è la 
              contemplazione:“theoria”. Il professore deve professare una 
              teoria: dunque deve contemplare. Senza metter su pancia per la 
              vita sedentaria, deve imitare Buddha, il contemplativo, chiamato 
              per eccellenza “maestro”. Ora, nelle 24 ore settimanali che il 
              Ministero vorrebbe prescrivere, sono incluse anche le ore di 
              contemplazione? Un mio collega di Filosofia del diritto, Luigi 
              Lombardi Vallauri, riuniva una volta alla settimana gli scolari in 
              un’aula semibuia, dove era vietato a chiunque (a lui per primo) di 
              aprire bocca: quest’ora di meditazione andava conteggiata come 
              lezione?
 
 Un buon professore può non incrociare le gambe e le braccia come 
              Buddha, ma deve leggere, viaggiare, coltivarsi, documentarsi: 
              tutte attività di autentico ozio, che spesso, tuttavia, richiedono 
              fatica. Poi, con poche lezioni, formerà la scolaresca meglio che 
              divagando per far passare il tempo in classe. La difficoltà è 
              esprimere una siffatta differenza in tabelle. Più importante 
              sarebbe trovare il modo per selezionare buoni professori, che 
              diano con l’esempio il gusto di coltivarsi. Per questo c’è una 
              selezione artificiale: i concorsi. Ma c’è anche una selezione 
              naturale: offrire all’aspirante professore uno status in cui si 
              guadagna meno, ma si hanno più opportunità di darsi all’ozio (in 
              senso latino, non dantesco); cioè di coltivarsi. Allora per quella 
              professione che, a causa del peccato originale, fa faticare più 
              delle altre, ma offre anche gioia più di ogni altra, si offriranno 
              le persone naturalmente più adatte.
 
 26 ottobre 2001
 
              vmathieu@ideazione.com 
              
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