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              La guerra di chi resta di Giuseppe Sacco
 
 Quando un paese è impegnato in un conflitto, combattere non tocca 
              solo a quelli che vanno in prima linea. C’è una guerra di chi 
              parte e c’è una guerra di chi resta. Speriamo davvero di vedere, 
              tra qualche giorno la portaerei “Garibaldi”, il gioiello della 
              nostra flotta, solcare le acque dell’Oceano Indiano. Ma ciò non 
              può bastare a mettere a posto la nostra coscienza. In soccorso 
              dell’Afghanistan, e del mondo islamico, che il virus terrorista 
              minaccia più che chiunque altro, c’è molto da fare anche restando 
              al nostro normale posto di lavoro. Berlusconi ha già dato una 
              indicazione in questo senso quando ha parlato della 
              indispensabilità di un “Piano Marshall” per porre le basi di una 
              pace stabile in Medio Oriente. Ma il problema si pone in realtà 
              per tutti i paesi del Terzo Mondo. Basta scorrere le previsioni 
              demografiche e ambientali contenute nel Rapporto reso pubblico il 
              6 novembre dall’Un Population Fund, e dalla Ong che lo rappresenta 
              in Italia, l’Aidos. La popolazione mondiale, che oggi raggiunge i 
              6,1 miliardi di anime, aumenterà del 50 per cento in 48 anni, e 
              supererà i 9 miliardi nel 2050. Ma – a meno di un formidabile 
              processo di sviluppo economico e scientifico – non aumenterà in 
              egual misura la capacità planetaria di sostenere tutte queste 
              nuove vite, tanto più che la disponibilità di risorse continua ad 
              essere atrocemente sbilanciata: un neonato in un paese 
              industrializzato contribuirà all’aumento dei consumi e 
              dell’inquinamento più di 30-50 bambini del Terzo Mondo, e comunque 
              più della capacità di recupero del pianeta.
 
 A meno di un formidabile processo di sviluppo economico e 
              scientifico, abbiamo detto. E lavorare a questo processo è la 
              guerra di chi non parte con la nostra portaerei, con i nostri 
              blindati Centauro, con i nostri soldati. Sul “fronte interno”, 
              insomma, non basterà il sostegno “politico” a chi parte: un 
              sostegno che è talora puramente verbale, tanto che ad esso ha 
              potuto aderire anche una parte dell’opposizione. Ci vorrà uno 
              sforzo di altra natura, che consenta, dopo l’alluvione di bombe di 
              cui oggi è sommerso, di “invadere” pacificamente l’Afghanistan, il 
              vacillante Pakistan, e tutto il mondo islamico. Ma di invaderlo 
              con le armi dello sviluppo tecnologico ed economico e della 
              conseguente modernizzazione sociale, invaderlo cioè coi benefici 
              tangibili dell’occidentalizzazione.
 
 L’Italia, come gli altri paesi dell’Occidente, dovrà per questo 
              far ricorso a tutta la propria capacità progettuale e 
              imprenditoriale, alla propria immaginazione creatrice. Lividi di 
              rabbia, alla notizia dell’intervento italiano a fianco degli 
              anglo-americani, gli speakers della televisione francese hanno 
              definito “virtuale” il contributo italiano alla guerra per 
              liberare l’Afghanistan dalla cappa di estremismo e di fanatismo 
              reazionario che oggi l’avvolge. Toccherà ai nostri piloti e a i 
              nostri specialisti dimostrare il carattere assai “reale” 
              dell’apporto italiano a questa difficile spedizione militare. Ma 
              un contributo – in certo senso “virtuale”, ma non per questo meno 
              importante - ci sarà. E consisterà nel lavoro di quelli che 
              restano a combattere sul “fronte interno” - il fronte quotidiano 
              delle fabbriche, dei laboratori di ricerca, delle università, dei 
              media, delle agenzie di sviluppo. Consisterà nella capacità di 
              quelli che restano di non farsi distrarre dalle operazioni 
              militari, di “non parlare di politica e di alta strategia”, di 
              continuare ad impegnarsi con tenacia e pazienza nell’opera 
              quotidiana di risanamento del paese, della sua economia, delle sue 
              istituzioni. E al tempo stesso di dedicare professionalità e 
              risorse allo sviluppo anche di quella parte del Terzo Mondo che 
              non è stata ancora investita con la stessa gravità del mondo 
              islamico dalla mala pianta del terrorismo.
 
 Perché - siamo sinceri - nessuna parte del pianeta potrà essere 
              considerata “non a rischio” sino a quando le società più ricche ed 
              evolute del mondo cristiano non si dedicheranno a promuovere la 
              crescita materiale, morale e civile dei paesi poveri con la stessa 
              dedizione, buona volontà, impegno politico di cui oggi fanno prova 
              solo alcune Ong. E soprattutto è assolutamente prioritario che non 
              ci si faccia ingannare dal clima dell’emergenza bellica, e che non 
              si accettino vincoli straordinari alla nostra prassi politica e al 
              nostro modo di vita. E' assolutamente prioritario continuare a 
              proteggere - anzi rafforzare - i principi fondatori delle libertà 
              da noi acquisite: la libertà della persona e delle sue opinioni, 
              la trasparenza del sistema informativo e di quello giudiziario, il 
              meccanismo del mercato e la non interferenza dello stato in esso. 
              Che sono poi gli elementi su cui si fonda tanto la forza che la 
              legittimità del nostro intervento: che non è semplice 
              rappresaglia, ma missione finalizzata a trasmettere agli altri 
              popoli il “virus” della ragione e della libertà.
 
 9 novembre 2001
 
 saccogi@hotmail.com
 
              
 
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