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              Ds, a congresso un partito smarritodi Paolo Zanetto
 
 A ogni congresso perdono una lettera. Dopo la svolta della 
              Bolognina divenne Pds, con la “Cosa Due” divenne Ds, domani 
              chissà: c’è ancora spazio per una svolta, ma non di più, o della 
              sigla non rimarrà più nulla. Forse nemmeno del partito è rimasto 
              molto: il dibattito interno ai Democratici di sinistra dopo la 
              sconfitta elettorale è stato davvero avvilente. Prima la querelle 
              sul comitato di reggenza del partito, poi la rissa per eleggere i 
              capigruppo in Parlamento. Ci si aspettava dall’ultimo partito 
              “storico” uno scatto d’orgoglio, una riflessione profonda sulla 
              visione della politica e del mondo, sui temi alti. Abbiamo avuto 
              soltanto il confronto tra un candidato di struttura e un candidato 
              “storico”, nel senso che alla tenera soglia degli ottant’anni 
              Giovanni Berlinguer appartiene alla storia più che all’attualità.
 
 Ma l’elemento più indicativo dello stato del partito è la scelta 
              del luogo del congresso. I Ds vanno a Pesaro, ridente paesello 
              delle Marche che conta 80mila anime, e la cui precisa collocazione 
              geografica è stata controllata sulla cartina da quasi tutti i 
              delegati e i giornalisti. Sono lontani i tempi in cui, D’Alema al 
              comando, il congresso l’avevano fatto a Torino, la culla della 
              leadership del Pci. A Torino, grazie a gente come Gramsci e 
              Togliatti, è nato il rigore sabaudo che ha reso il Partito 
              comunista indistruttibile. Dalla scuola di Torino negli anni 
              successivi nascono i dirigenti politici migliori della sinistra di 
              nuova generazione, gente come Giuliano Ferrara e (poi) Piero 
              Fassino. A Pesaro, con tutto il rispetto per chi ci vive, non si 
              ha notizia di tradizioni simili. Pesaro è la scelta di una classe 
              dirigente che vuole nascondersi, che ha paura del giudizio del 
              paese.
 
 La campagna congressuale ha già un vincitore: Piero Fassino sarà 
              il prossimo segretario dei Ds. Ed è una fortuna che la Base, 
              questa entità metafisica che aleggia nei discorsi di tutti i 
              partiti di massa, abbia saputo riconoscere l’uomo con la visione 
              giusta per il futuro. Il domani dei Ds è fatto di socialismo 
              europeo, di riformismo moderno, senza retorica né nostalgie. Il 
              domani dei Ds passa da quelli che hanno capito che la politica 
              deve stare al passo con il mondo. Quelli che hanno capito che può 
              morire un partito (il Pci), che può morire una Repubblica (la 
              Prima), ma che la politica – tra mille difficoltà – continua. E’ 
              necessario un progetto riformista ambizioso, un “new labour” 
              all’italiana. Serve uno come Tony Blair, che non abbia problemi a 
              prendere a calci il sindacato e le gerontocrazie del partito, un 
              leader che sappia indicare la direzione ai cittadini prima ancora 
              che ai “quadri”. Non è ancora chiaro se Fassino lo sarà, oppure se 
              sarà nelle condizioni di farlo. Il congresso Ds serve a capire 
              proprio questo.
 
 Il dibattito pre-congressuale invece ha dimostrato un solo fatto: 
              se uno sta in un grande partito per tutta la vita non è detto che 
              impari che cos’è la politica. Fabio Mussi è stato capogruppo alla 
              Camera del partito di maggioranza relativa per cinque anni: oggi 
              il suo più alto discorso politico è una barzelletta sporca contro 
              D’Alema. Giovanna Meandri invita al congresso Ds Vittorio 
              Agnoletto, decretando il suo ruolo di vero leader della sinistra. 
              Pietro Folena dopo un dibattito con una ideologa come Naomi Klein 
              - l’autrice del best-seller “No Logo”, una che ai tempi buoni 
              sarebbe finita a ciclostilare in una sezione di provincia - 
              annuncia che i Ds devono imparare dal popolo di Genova. Se c’è una 
              cosa che il Pci avrebbe dovuto insegnare è proprio il primato 
              della politica, che deve guidare i movimenti di piazza, e non 
              farsi guidare da questi. Altrimenti la piazza degenera, arriva 
              l’estremismo, e non ci si può appellare agli slogan tipo “né con 
              lo stato né con le Br”. Lo sapeva bene Enrico Berlinguer, che 
              schierò il Pci da una parte precisa. Lo sa bene Massimo D’Alema, 
              che ha combattuto una battaglia perché i Ds fossero schierati 
              contro il terrorismo nel voto in Parlamento. Sembra però che non 
              lo sappia Giovanni Berlinguer, che dimentica il suo cognome 
              predicando un pacifismo politically correct, ma anche molto 
              codardo. Rimane aperta la questione della presidenza del partito. 
              Eletto il segretario, il congresso sembra un referendum su 
              D’Alema. Potrà essere meno lucido del solito, di certo non ha 
              brillato sull’Usa day. Ma una cosa è certa: è il più bravo di 
              tutti. E molti, giustamente, ne hanno paura.
 
 16 novembre 2001
 
 zanetto@tin.it
 
              
 
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