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        Sinistra tra Porto Alegre e Porto Tristedi Pierluigi Mennitti
 
 A Porto Alegre sono radunati, per la seconda volta, gli esponenti del 
        mondo antiglobal. Le cronache ci fanno sapere che la delegazione 
        italiana, composta da un migliaio di persone, è la più numerosa dopo 
        quella brasiliana, che però gioca in casa. A testimonianza che 
        l’anticapitalismo, dalle nostre parti, è duro a morire e che avere avuto 
        il partito comunista più forte d’Occidente (e oggi i partiti 
        postcomunisti più resistenti dello stesso emisfero) è una penale che 
        sconteremo ancora per molto tempo. A Porto Alegre non ci vanno solo i 
        ragazzi descamisadi. Ci vanno i leader. Quelli che contano. Nella folta 
        delegazione italiana ci sono Bertinotti e Veltroni e Pecoraro Scanio e 
        Diliberto, promossi dagli elettori. E ci sono Agnoletto e Casarini e 
        Caruso, promossi a rappresentanti prima dal ministro Ruggiero e poi da 
        Michele Santoro. Ad ognuno la sua legittimazione. Gli italiani, e tutti 
        gli altri, cercheranno in queste giornate di elaborare qualche concetto 
        e qualche teoria che sia un po’ meno ostica di quelle offerte in questi 
        giorni dal professor Tony Negri, uno che – per quanto sia commovente il 
        tentativo di dare spessore a una protesta che non ne ha – fa ancora 
        venire i brividi solo a nominarlo. E i mal di testa a leggerlo. Meglio i 
        pensierini quizzaroli di no logo che le elucubrazioni sociologiche sugli 
        imperi. Ne converranno i giovani dei centri sociali.
 
 Allegra e caciarona, la comitiva del postcomunismo italiano che ancora 
        riesce a spassarsela al sole del Sud America resterà insensibile al 
        dialogo che pure economisti e leader mondiali propongono da New York, 
        sede del contemporaneo World Economic Forum. Un dialogo che parte però 
        da una constatazione molto semplice (perché molto documentata dalle 
        cifre, la cosa che più conta in economia): la globalizzazione ha fatto 
        del bene, tanto bene a molte nazioni che, solo venti anni fa, affogavano 
        nell’indigenza e nella povertà. Chissenefrega, penserà Bertinotti, che 
        prima di tutti, a sinistra, ha intuito le potenzialità della nuova 
        utopia mondiale e l’ha cavalcata con cinismo e costanza per insidiare la 
        sinistra tradizionale.
 
 In Italia sono rimasti quelli di sinistra meno allegri. E in una specie 
        di Porto Triste, un luogo tetro e malinconico lontano mille miglia 
        dall’utopia solare brasiliana, s’è consumato l’ennesimo parricidio in 
        seno all’Ulivo. Un vertice a porte e finestre sbarrate nel quale i 
        rappresentanti ufficiali della sinistra ufficiale hanno rappresentato un 
        nuovo atto del teatrino politico messo in scena dal 13 maggio. Anche qui 
        diamo una sbirciata alle cronache giornalistiche che parlano di 
        “macelleria dell’Ulivo” (Geremicca, La Stampa), “irrefrenabile Dracula 
        [D’Alema, ndr] che spolpa chi gli viene a tiro per buttarlo via subito 
        dopo l’uso” (Teodori, il Giornale) e altre amenità dello stesso genere 
        splatter. Il problema non è solo nel genere scelto dai congiurati per 
        saldare le proprie pendenze politiche. E’ nel fatto che, da almeno due 
        anni, quello che fu l’Ulivo non litiga sui temi ma sugli uomini. Invece 
        che un laboratorio di strategie politiche, di analisi concrete, di 
        proposte operative per governare l’Italia, il centrosinistra è 
        impelagato in una serie di regolamenti di conti che fanno apparire la 
        coalizione più come un’organizzazione criminale in crisi che un 
        raggruppamento politico. Prodi, Rutelli, D’Alema, Fassino, Castagnetti, 
        Parisi, Amato, Berlinguer, Salvi… si salvi chi può. Se può. E ci 
        restituisca un’opposizione forse un po’ meno “alegra” ma seria.
 
 1 febbraio 2002
 
 pmennitti@hotmail.com
 
          
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