Vite sotto scorta: "Ma l'Eta non mi fermerà"
intervista a Carmen Gurruchaga di Pierpaolo La Rosa


Ha resistito agli avvertimenti e alle minacce. Non si è lasciata intimidire dalle bombe molotov lanciate contro il suo ufficio. Ma quando, il 22 dicembre del 1997, i terroristi dell'Eta hanno cercato di ucciderla con una bomba piazzata davanti alla porta di casa, non ce l'ha più fatta e con i due figli si è trasferita da San Sebastiàn - la città dei Paesi Baschi in cui è nata - a Madrid. Parliamo di Carmen Gurruchaga, 45 anni, giornalista del quotidiano El Mundo, nel mirino degli "etarras" che la vogliono morta ad ogni costo. Guardata a vista 24 ore su 24, la Gurruchaga rappresenta il simbolo della resistenza al terrore e all'oppressione dell'Eta; il suo coraggio, la sua determinazione le sono valsi lo scorso novembre il premio dell'associazione Reporter senza frontiere per la libertà di stampa. In questa intervista-confessione rilasciata in esclusiva a Ideazione.com, la giornalista basca ripercorre le tappe della sua battaglia contro il movimento armato separatista.

Signora Gurruchaga, quando sono iniziati i suoi problemi con l'Eta?

Ho cominciato a lavorare nei Paesi Baschi, per la precisione a San Sebastiàn, nel 1980, per un quotidiano nazionale che si chiama Diario 16. In seguito, nel 1989, sono stata tra i fondatori dell'edizione regionale di El Mundo. I miei problemi con i terroristi, o con l'ambiente che gravita intorno a loro, iniziarono molto presto, anche se a quei tempi l'Eta non uccideva ancora giornalisti. Erano polemiche forti, questo sì, ma sempre dialettiche; a volte potevano anche apparire in città volantini contro di me. A partire dal 1995, la situazione si fece però più difficile: iniziarono a gettare bombe molotov contro il mio ufficio finché, nel dicembre del 1997, collocarono una bomba davanti alla porta di casa.

Lei non può andare al cinema, non può vedere quasi nessuno, insomma non ha una vita privata. Come si sente a essere scortata 24 ore su 24? I suoi figli hanno risentito della situazione?

Posso fare molte cose, a patto che siano organizzate per tempo, ma devo essere scortata sempre da almeno due persone. Qualche volta vado al cinema e, soprattutto, viaggio. Certo, per i miei figli è risultato molto difficile accettare il trasferimento da San Sebastiàn a Madrid.

Ha paura? Le minacce dell'Eta hanno condizionato il suo lavoro?

Con la paura non si può vivere, perché la paura immobilizza; altro conto è invece essere coscienti del rischio. Le minacce dei terroristi hanno sì influito sul mio lavoro, nel senso che se devo essere accompagnata da due guardie del corpo, non posso svolgere il medesimo mestiere che facevo prima. Le mie idee sono però le stesse.

La spirale di violenza portata avanti dall'Eta contro i giornalisti nei Paesi Baschi, così come in tutta la Spagna, è sempre più pesante. Il sette maggio del 2000, José Luis Lòpez de Lacalle è stato assassinato, mentre un altro professionista dell'informazione - Carlos Herrera - è emigrato a Miami dopo essere sfuggito ad un attentato. Quali sono le ragioni che l'hanno spinta a restare in Spagna e a continuare la battaglia contro i terroristi?

José Luis Lòpez de Lacalle lavorava per il mio giornale e Carlos Herrera era il direttore di un programma politico, trasmesso dalla Rne (la radio nazionale iberica, ndr), a cui continuo peraltro a partecipare. Sono rimasta in Spagna perché i Paesi Baschi sono la mia terra, e desidero dare il mio contributo affinché diventino un luogo in cui si possa vivere in pace e in cui la libertà sia uguale per tutti i cittadini.

Secondo i terroristi, i suoi articoli seguirebbero le indicazioni del ministero dell'Interno, accusato di attentare alla libertà degli organi di informazione vicini agli ambienti indipendentisti. Cosa replica a queste accuse?

In primo luogo, dico che è una bugia e un'infamia. Da molto tempo sono perseguitata dall'Eta e il ministero dell'Interno ha cambiato titolare e partito politico. Per anni, fino al 1996, c'erano i socialisti che certamente mi odiavano perché sono stata tra i primi giornalisti a denunciare il legame tra il dicastero dell'Interno e i Gal, un gruppo terrorista organizzato su istanze governative per combattere l'Eta. In seguito, nel 1996, arrivò Jaime Mayor Oreja che, come me, è di San Sebastiàn e che svolse il suo lavoro politico nei Paesi Baschi. I socialisti dicevano che io ero amica degli "etarras", i quali sostenevano a loro volta la mia contiguità con il governo, per cui deduco che sto facendo bene il mio lavoro.

E' così difficile fare giornalismo nella regione basca?

Sì: informare sull'Eta, sul nazionalismo o sulla politica basca è veramente difficile. Credo inoltre che gran parte dei giornalisti che vivono lì esercitino un'autocensura, dato che i terroristi possono aggredirti e perfino ucciderti. I miei colleghi tengono ben presente queste circostanze quando scrivono, parlano o esprimono un parere.

In questo contesto di violenza e di minacce di morte che investono i giornalisti, qual è il ruolo giocato dal Partito nazionalista basco (Pnv) e dai mezzi di comunicazione vicini ai sentimenti indipendentisti? Hanno delle responsabilità nella creazione del mito di "Euskal Herria", la leggendaria patria basca?

Io sono basca e non credo che l'esistenza di "Euskal Herria" sia un mito. E' vero che non è mai esistita come nazione, ma è anche vero che gli antichi vasconi erano sudditi del regno di Navarra ed esistevano come popolo distinto, o almeno così appare sui libri. Per quanto riguarda l'attuale situazione, sono dell'avviso che le responsabilità di una parte del gruppo dirigente del Pnv siano molte. Ripeto e so, perché nella mia famiglia ci sono numerosi nazionalisti, che il nazionalismo non è intrinsecamente perverso ma che ci sono persone perverse. All'interno del mondo nazionalista c'è chi crede, come l'Eta, che tutto valga - incluso l'assassinio - per raggiungere un obiettivo politico: l'indipendenza. Ma il nazionalismo basco si può salvare solo se l'Eta viene sconfitta.

Il suo impegno contro il terrorismo è incessante: l'anno scorso ha pubblicato un libro, "El arbol y las nueces" ("L'albero e le noci"), contestato dai nazionalisti e partecipa regolarmente a conferenze e dibattiti sul problema basco. Secondo lei, quale può essere il contributo degli organi di informazione per la soluzione del conflitto nei Paesi Baschi?

Come mezzi di comunicazione possiamo e dobbiamo contribuire a offrire un'informazione veritiera, affinché i cittadini si dotino di propri criteri nel votare alle elezioni politiche. Dobbiamo anche denunciare gli abusi di potere o le prepotenze o le irregolarità che possano commettersi e, in definitiva, essere i notai della realtà e riportare cosa succede veramente. Possiamo anche segnalare in convegni internazionali quello che accade, o invitare giornalisti di altri paesi a visitare la regione basca per far sì che si rendano conto di come vivono le persone, non ascrivibili al nazionalismo, implicate nel conflitto.

20 marzo 2001

pplarosa@hotmail.com

 

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