Reportage. Sulle strade dell’enigma nord-irlandese
di Pierluigi Mennitti
Percorrendo la National Road numero 13, in direzione est, l’unica avvisaglia di confine è l’infittirsi di auto con le targhe nordirlandesi. Qui, 13 chilometri ad
ovest di Londonderry, ancora qualche anno fa avremmo trovato garritte, filo spinato, soldati armati e colonne di auto in attesa del via. Oggi non è rimasto più nulla. Nessuna traccia di quello che fu uno dei muri d’Europa, la divisione tra l’Irlanda e l’Irlanda del Nord, l’Eire e l’Ulster. Si fila liscio verso la città dal doppio nome (Derry per gli irlandesi, Londonderry per l’ufficialità britannica), costeggiando le stesse stazioni di servizio, le stesse case e le stesse baracche industriali. Semmai è più sostenuto il traffico in direzione inversa. Il cambio della moneta favorisce i sudditi di sua maestà che alimentano quel turismo di confine fatto di ristoranti scontati e pieni di carburante a buon mercato. Da sempre il commercio ha spazzato via i rancori della politica. E oggi non si trova un irlandese di confine (ma, appunto, quale confine?) pronto a rivangare incomprensioni del passato.
Gli accordi di pace tra Gran Bretagna e Irlanda del 1995 avevano in qualche modo certificato la stanchezza delle popolazioni per una guerra guerreggiata che durava ormai da più di vent’anni e che, dopo la fine della Guerra Fredda bipolare, molti ritenevano non avesse più senso. L’Europa torna ad essere unita e senza più barriere da Ovest ad Est, diceva la retorica di quegli anni, come si può permettere che un muro divida ancora l’Irlanda? In realtà la politica ha incontrato intoppi e ostacoli. Il processo di pace è risultato più impervio del previsto e negli ultimi anni gli scontri tra le fazioni estremiste degli unionisti e dei cattolici sono tornati ad infiammare le notti estive di Belfast. Ma la stragrande maggioranza degli abitanti ha accompagnato con speranza e fiducia la svolta e pare non volerne più sapere di conflitti nazionalistici, religiosi e quant’altro. Per trovare tracce del fuoco che ancora cova sotto la cenere, bisogna entrare nei bassi cattolici di Londonderry, dove i murales raccontano storie di dolore e di tragedia, lacrime e sangue, martiri ed eroi.
“Welcome to free Derry” è dipinto su un muro all’ingresso del quartiere e tutt’intorno sventolano le bandiere verde-bianco-arancio della Repubblica. Si entra nel ghetto, non appena lasciata alle spalle la collina del centro antico, aristocratico borgo lindo e ordinato, dall’atmosfera very british, compresa la grande caserma in cima al colle ancora circondata da robusti presidi spinati. Lassù il mondo dorato degli “inglesi”, qui giù il sobborgo sgarrupato degli irlandesi, grigio e triste, con le case basse e i giardinetti ampi come francobolli, le inferriate alle finestre, i cortili abbandonati dentro i quali si accumula l’immondizia. Non è più politico il discrimine tra le due popolazioni ma economico. Qui, nella Derry irlandese e cattolica, macchiata del sangue del Bloody Sunday nel gennaio del 1972 quando la polizia sparò sui dimostranti, gli abitanti ancora sbirciano da dietro le finestre con lo sguardo un po’ torvo e si muovono lungo le strade dipinte dai murales come ombre scure su uno sfondo in bianco e nero. Solo i bambini, capelli rossi e facce da scugnizzi come nella migliore iconografia irish, sorridono sguaiatamente, inseguendoti come uno sciame d’api rumoroso e allegro. Eccoli gli irlandesi dell’Ulster, i poveri che guardano con rabbia gli “inglesi” e con invidia i cugini della Repubblica baciati dal nuovo miracolo economico. E si chiedono: perché?
Anni di battaglie sulle barricate, di attentati e scontri con le forze speciali, troubles, bombe, terroristi dell’Ira e protestanti, carceri di massima sicurezza e scioperi della fame hanno lasciato, oltre a una scia di morti, povertà e miseria. E solo negli ultimi anni, a seguito di un processo di pace ancora incerto ma fortemente difeso dalla cosiddetta maggioranza silenziosa, la situazione sembra cambiare. I muri di Belfast raccontano le stesse tragedie di quelli di Londonderry. I martiri cattolici le cui effigi campeggiano circondate da armi e bandiere nazionali e l’iconografia protestante, teschi e conquistatori sotto lo slogan “No surrender”. E poi il muro vero e proprio, l’ennesima palizzata lunga chilometri che divide i quartieri cattolici da quelli protestanti. Anche qui come a Berlino. Con la differenza che in Germania quel muro è crollato e a Belfast invece è ancora in piedi e divide case e uomini, coscienze e abitudini, odii e amori. E’ un muro che si attraversa facilmente, da un lato all’altro della città divisa, da Falls Road a Shankill Road, rispettivamente il fronte cattolico e quello protestante negli anni dei troubles. Ma resta la grande diffidenza tra le genti e la scritta della nostra guida, un cattolico che si fa chiamare Popeye e che ha vergato con lo spray sul muro la non originalissima frase: “Give peace a chance”.
A volerla cercare c’è anche la nuova Belfast, quella che ha salutato con gioia il processo di pace e spera di recuperare il terreno perduto, sia nei confronti della Gran Bretagna che dell’Irlanda. E’ la Belfast della cultura con gli studenti che affollano le aule della Queen’s University e alla sera riempiono i pub sulla Malone Road. O la Belfast che guarda all’innovazione, orgogliosa dell’avvenieristica struttura dell’Odyssey, il centro polifunzionale (cinema, teatri, concert hall, caffè, centro scientifico, shopping mall) che è divenuto il simbolo del riscatto. La città industriale, famosa per i cantieri Harland & Wolff dai quali uscì il transatlantico Titanic, sta cambiando pelle. Abbandonati i bossoli dei mitra e le polveri degli esplosivi ha deciso di affrontare la sfida dell’innovazione. Spera che la politica risolva una volta per tutte un conflitto che sa di Balcani più che di Europa. E punta le proprie carte sul tavolo del commercio e delle nuove tecnologie.
6
luglio
2001
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