| Un Islam liberale? di Omar Camiletti
 
 Nel consueto stile da neolingua orwelliana - manipolare abilmente 
              le parole e i loro significati - i nemici della società aperta 
              dipingono il mondo globalizzato come un universo uniforme, il cui 
              solo equipaggiamento intellettivo consentito consisterebbe in un 
              desolato “pensiero unico”. Al contrario, l’autentica cultura 
              politica liberale è consapevole che la satira di Orwell al Grande 
              Fratello era rivolta proprio contro chi disprezzava il mercato e 
              le diversità. Ed è in questo quadro che il liberalismo non deve 
              avere timori di affrontare e misurarsi con le sfide della 
              postmodernità. A cominciare da ciò che oggi è uno dei veri e 
              propri “punti di svolta”: il rapporto con le esperienze religiose 
              e, alla luce della recente diffusione in Occidente, con l’Islam. 
              Le società aperte consentono infatti di orientare pienamente la 
              propria vita secondo i propri valori, quando ovviamente ciò non 
              sia in aperto contrasto con le libertà, i beni e l’integrità degli 
              altri. In questo post-disincanto del mondo, l’Islam va allora 
              preso in considerazione - come sottolineato dall’intervista a 
              Seyyed Hossein Nasr (pubblicata sempre su questo numero di 
              ideazione.com, ndr) - non solo per l’importanza geo-economica 
              assunta dai paesi fornitori di energia - un ampio scenario che va 
              dai paesi del Golfo fino all’Asia centrale - ma anche perché è 
              divenuto una salda variabile geopolitica nel panorama mondiale: 
              basti pensare alle vicende dell’Iran e alla sconfitta russa in 
              Afghanistan.
 
 E’ un fatto che ben tre dei nove stati con i più alti tassi di 
              crescita - più del 5 per cento annuo - appartengano al mondo 
              islamico: Egitto, Marocco e Qatar. Un approccio, questo, 
              confermato anche dalle esperienze dei paesi definiti le “tigri 
              asiatiche”. Esemplare il caso di Kuala Lampur - nella Malaysia dei 
              miracoli economici - dove ragazze in minigonna e tacchi alti si 
              trovano accanto a giovani avvolte dalla testa ai piedi nella 
              pudica veste islamica. Realtà che certo indigna un 
              islamo-gauchista come Tariq Ramadan, il quale ne parla così: 
              “McDonald’s con carne halal le cui cameriere portano il velo? 
              Musulmani americanizzati? No grazie!”. Ma al di là di qualsiasi 
              opinione o indignazione passatista, la globalizzazione è una 
              realtà e occorre prenderne atto. I televisori sono ormai 
              dappertutto e nessun governo si può illudere di controllarli: 
              anche a Teheran ci si sintonizza sulla Bbc e si ascolta via 
              satellite Teheran Jeles Music, musica prodotta dagli iraniani di 
              Los Angeles.
 
 Un discorso analogo va declinato in Europa, dove ormai le 
              problematiche sull’Islam non sono più tanto esotiche. Anche nel 
              vecchio continente la presenza dell’Islam ha infatti raggiunto un 
              livello significativo: nella sola Italia, al di là del balletto 
              delle cifre, risiedono probabilmente non meno di ottocentomila fra 
              uomini, donne e bambini di religione musulmana. Un dato che porta 
              l’Islam ad essere di gran lunga la seconda “effettiva” religione. 
              Non diversi i dati dell’Unione Europea dove dodici milioni di 
              musulmani fra cittadini e immigrati pongono urgentemente tutta una 
              serie di questioni che sarebbe sciocco eludere o anche 
              semplicemente rinviare. In questa prospettiva, l’Europa dei 
              prossimi decenni sarà un sorprendente laboratorio perché dovrà 
              essere in grado non soltanto di esprimere un mercato unico per una 
              sola moneta ma anche di integrare stati e sottosistemi regionali 
              che si sono contrapposti per molti secoli. Certo, è naturale che 
              l’identità islamica a cui si richiamano milioni di nuovi arrivati 
              sollevi dubbi e imponga interrogativi. Si tratta però di capire se 
              l’insediamento di una tale minoranza sia per il vecchio continente 
              una sfida da vincere o un rompicapo irresolubile.
 
 Il passaggio d’epoca appena iniziato, descritto come il secolo 
              della globalizzazione totale, di cui Internet risulta l’avatar, si 
              prospetterà però solo un secolo di stampo americano oppure sarà 
              marcato in egual misura dalla riscossa europea? Gilles Kepel - 
              autore di “Jihad, ascesa e declino. Storia del fondamentalismo 
              islamico”, Carocci, 2001 - contestando in una intervista al Pais 
              del 9 agosto scorso la teoria di Giovanni Sartori sulla 
              incompatibilità dell’Islam con la società occidentale, sembra 
              propendere per la seconda ipotesi: “Non credo sia così, se ci si 
              riferisce a gente proveniente dai paesi islamici: lo dimostra 
              l’evoluzione degli ultimi anni in Francia. In un recente viaggio 
              in Brasile quando dicevo di essere francese era inevitabile 
              sentirmi dire francese come Zidane. Zidane è il francese più 
              popolare al mondo. Il berbero della Cabilia Zidane viene oggi 
              visto come la quintessenza del francese. La società francese ha 
              integrato e “digerito” culture estranee con molta facilità, basta 
              aprire la guida telefonica per rendersene conto. Sono convinto - 
              conclude Kepel - che una società dinamica riesca ad assorbire 
              l’altro trasformandosi reciprocamente”. Se questo è lo scenario in 
              prospettiva, è però vero che sinora hanno prevalso le diffidenze. 
              Soprattutto a causa di contesti e ambienti nei quali l’Islam è 
              poco conosciuto perfino dalle persone di buona cultura. Del resto, 
              come sottolinea Nasr, il vero Islam si farebbe conoscere 
              “imparando a comunicare”. E decostruendo l’impalcatura dei luoghi 
              comuni.
 
 Da quando il terrorismo di matrice islamica ha straripato 
              nell’informazione e nei commenti, l’Islam ha infatti finito per 
              trasfigurarsi nel volto del nemico “irriducibile”, prendendo 
              nell’immaginario il posto del comunismo, con l’esito di fare di 
              tutta l’erba un fascio. Si aggiunga lo scarso interesse dei media 
              a conoscere realmente le pieghe del mondo islamico, privilegiando, 
              come interlocutori, proprio chi agisce solo nell’ambito di una 
              militanza ideologica. Infine, la rapidità del diffondersi 
              dell’Islam in Occidente non ha sinora consentito la selezione di 
              una leadership equilibrata. Dell’Islam si ignora quasi tutto, 
              perfino le affinità di molte voci della sua storia con i pilastri 
              della stessa cultura europea e occidentale. Ora, come ogni grande 
              civiltà e al pari di ogni altra vicenda storica e umana, sempre 
              troppo umana, l’Islam ha espresso in sé vette sublimi ed abissi 
              spregevoli. Ciò che però sembra contraddistinguerlo è una tensione 
              a permeare ogni esperienza umana della Rivelazione - che Allah 
              (Dio in arabo) ha reso all’umanità - senza vivere alcun 
              antagonismo tra la vita umana, materiale, e la vita propriamente 
              spirituale. Se infatti analizzassimo non superficialmente gli 
              argomenti maggiormente nel mirino per via degli stereotipi 
              (l’Islam rapportato a democrazia, libertà, diritti delle donne dei 
              non musulmani, teocrazia, orientamenti economici) potremmo forse 
              scoprire - se il termine non viene preso nell’accezione di 
              licenziosità etica - un insospettato e inatteso “Islam liberale”, 
              come del resto attestato da un’ampia letteratura, sviluppatasi 
              soprattutto nei paesi anglosassoni.
 
 In questo senso, osservando la storia “sine ira ac studio” 
              potremmo vedere come in realtà l’Islam non sia un sistema 
              ideologico chiuso ma, al pari del pragmatismo anglosassone, sia 
              estremamente duttile: può manifestarsi in monarchie come in 
              repubbliche e, sebbene la sua storia sia segnata dal dispotismo, 
              si stanno sviluppando di recente delle forme di partecipazione 
              popolare alla gestione della società (Marocco, Iran e Turchia). 
              Così, il pluralismo (la shura) fa parte a pieno titolo della sua 
              dottrina: sia come pratica vissuta delle prime generazioni 
              dell’Islam sia nel ricordo dei secoli in cui gli studiosi 
              dibattevano di giurisprudenza in libertà e senza condizionamenti 
              gerarchici. Non si può imputare alla religiosità islamica il 
              mancato sviluppo economico e politico dei musulmani, che è invece 
              causato da molti altri fattori. Non si deve dimenticare che molti 
              immigrati sono partiti non solo in cerca di migliori condizioni ma 
              anche per fuggire da luoghi dove ci si deve “accontentare” di 
              vivere. L’Islam in Europa è dunque qualcosa di assolutamente nuovo 
              e non può essere abbandonato a se stesso: solo con una azione 
              decisa dei governi si potrebbero produrre benefìci. L’Europa 
              dovrebbe favorire quella disposizione alla democrazia e alla 
              fiducia nelle sue istituzioni che sviluppandosi nelle fibre di una 
              comunità, cresce e finisce per tramandarsi spontaneamente.
 
 Ma come l’Islam concepisce la forma-stato? Intanto sarebbe errata 
              un’analogia comparativa con la storia europea. Storicamente è 
              infatti vero che i primordi dello stato moderno - l’assolutismo 
              del re Sole in Francia e le rivoluzioni gloriose in Inghilterra - 
              nascono proprio sulle ceneri di quelle guerre di religione 
              combattute contro privilegi e limitazioni alle libertà poste dal 
              feudalesimo e dal Papato nella loro lotta per il potere. Ma il 
              contesto culturale in cui si pone l’Islam è nettamente diverso. 
              Non esiste al suo interno un potere retto da una casta di 
              sacerdoti. In realtà la figura di un intermediario tra Dio e i 
              fedeli è sconosciuta all’Islam sunnita, tanto che mai il potere 
              politico è storicamente coinciso con l’autorità religiosa. Semmai 
              l’Islam si potrebbe definire una “nomocrazia”, in cui l’autorità 
              di chi governa deriva solo dal suo ruolo di esecutore della Legge: 
              ma anche questo “nomos” - che ha fatto versare mari d’inchiostro - 
              merita una precisazione ulteriore: gli stessi musulmani spesso 
              usano come sinonimi shariah e fiqh confondendoli e sfortunatamente 
              riducendo il tutto ad un sistema di pene e di punizioni. Nel testo 
              sacro, il Corano, shariah indica “l’ampia via”, la base dei 
              principi generali che per i sunniti sono appunto il Corano e la 
              tradizione (sunna) del Profeta Muhammad, la strada sulla quale va 
              incamminata la vita dei musulmani. La vita religiosa islamica è lo 
              sforzo di seguire la hukm di Allah e del suo Messaggero, dove hukm 
              può essere tradotto come la sapienza nell’intendere la qualità 
              delle situazioni, da quando Allah attraverso l’ultimo suo 
              Messaggero (Muhammad) usò il linguaggio umano, l’arabo del Corano, 
              per comunicare.
 
 L’essenziale è la “comprensione” (fiqh) del Messaggio, poiché 
              nonostante i tentativi di cristallizzarla e di uniformarla nel 
              tempo e nello spazio, la quintessenza della shariah resta 
              incentrata sulla hukm. Privilegiando il pentimento sincero ed una 
              espiazione “concreta” ad un tormento indefinito la shariah apre 
              l’Islam ad una interazione particolare che lo rende vivente in 
              ogni luogo ed in ogni epoca: essere umani è essere immersi 
              nell’ambiguità, nel conflitto. Questa “ambiguità” viene 
              attraversata da tutto il discorso legale-spirituale (tafaqquh 
              ruhani). Il focus del fiqh, intendere la legge, è la storia con i 
              suoi contesti, è il linguaggio umano. Ogni nuova situazione 
              presenterà delle scelte da fare: scegliere il giusto, il migliore 
              ed appropriato comportamento dipenderà dalla valutazione e dalla 
              comparazione degli articolati “insegnamenti” della Rivelazione con 
              quella situazione. Per l’autentico Islam nessuna legge può essere 
              indipendente dalla razionalità e dai criteri degli esseri umani 
              (Allah vuole facilitarci e non vuole caricarci di difficoltà: 
              Corano 2, 185). E’ la ragionevolezza dei musulmani - il parere dei 
              sapienti che ottengono il consenso della comunità - che determina 
              come e quando applicare una disposizione divina. Questo è il 
              processo di autentica interpretazione - l’ijtihad (non quello 
              promosso dagli orientalisti contro la sharia) - e forse la sola 
              fondamentale differenza tra l’Islam e le altre forme di 
              organizzazione socio-politica è che gli altri sistemi possono 
              essere, nelle loro utopie, o interamente umani o interamente 
              divini, ma l’Islam attraverso le dinamiche interagenti della 
              razionalità e della Rivelazione unifica allo stesso tempo l’umano 
              e il divino.
 
 Da un punto di vista della dottrina, sebbene l’Islam non si limiti 
              alla sfera personale del credente - ma investa l’individuo di 
              doveri nei confronti degli altri attraverso considerazioni e 
              delibere normative che presuppongono l’adesione ad una visione 
              improntata sul profondo valore della comunità umana - l’importanza 
              dell’individuo non viene mai meno. Anzi: è proprio sull’individuo 
              che si fonda la comunità ed è solo la fede individuale che la 
              rende vitale. La stessa libertà di pensiero è sottolineata con 
              vigore da un detto dello stesso Muhammad: “cercate la conoscenza 
              anche se si trattasse di andare in Cina”. Tutti i principali 
              pilastri (arkan) religiosi sono diretti alla persona - dalle 
              preghiere rituali (salat) al digiuno del mese di ramadan fino al 
              pellegrinaggio - e ciò comporta come scritto nel Corano che “non 
              ci può essere costrizione nella fede” (la ikrah fi din). Il perno 
              “teologico” dell’Islam è l’esperienza della responsabilità di 
              fronte a Dio quale preziosa eredità della discendenza adamitica in 
              cui ricordiamo non c’è peccato originale ma solo un errore di 
              disattenzione: questa impronta “ottimistica” è il migliore 
              antidoto contro qualsiasi forma di “stato etico”. Non c’è niente 
              di più antitetico alla visione islamica di un interventismo 
              statalista “dalla culla alla tomba” che sottrae le responsabilità 
              individuali di provvedere al proprio sostentamento, di educare i 
              figli, di non abbandonare la propria famiglia, di assistere i 
              genitori anziani. All’opposto il cosiddetto fondamentalismo non è 
              altro che una terza “imitazione” da parte del mondo arabo - dopo 
              il nazionalismo e il socialismo - dello statalismo occidentale. Ma 
              come dimostrano le esperienze del Sudan o del Refah in Turchia, il 
              fondamentalismo non mette al riparo da abusi e corruzione e dallo 
              smodato disinteresse verso il bene pubblico caratteristico 
              dell’arretratezza di una società.
 
 Per quanto riguarda i non-musulmani, da un punto di vista 
              rigorosamente dottrinario l’Islam non può trattare i non musulmani 
              come teologicamente inferiori. Non è un caso che mai nella storia 
              si è potuto assistere alle conversioni di intere popolazioni per 
              decreto reale. Gli appelli alla pacifica coesistenza fra i popoli 
              da parte della stragrande maggioranza dei musulmani contrastano 
              con la tendenza degli estremisti a urlare il takfir (dichiarare 
              l’altro kafir, empio), immergendosi in una immaginaria epoca del 
              jihad militare (la guerra giusta contro chi combatte la 
              religione). Al di là degli stereotipi, il Corano parla 
              testualmente della società umana come una comunità e quindi di un 
              legame oggettivo e paritario fra uomini e donne. Certo, 
              storicamente il patriarcato ha stravolto questa dimensione. Tanto 
              è vero che oggi lo status della donna è il banco di prova per 
              l’Islam “liberale”. Decisivo è il recupero dell’emancipazione e 
              liberazione della donna come avvenne nell’Islam degli inizi. 
              Storicamente infatti con l’Islam ci fu la prima legislazione che 
              diede alle donne la possibilità di conduzione dei propri affari, 
              ponendole in una dimensione che non era solo quella di generatrici 
              di prole o di strumenti di piacere. Aisha, la più giovane moglie 
              del Profeta, svolgeva un ruolo di legislatore e di interpretazione 
              della sharia nella società islamica del suo tempo, in un modo che 
              è impensabile oggi: era consultata dagli studiosi sul significato 
              del Corano e sulla vita del Profeta. Questo scenario cozza contro 
              il pregiudizio in cui indugiano buona parte della pubblicistica e 
              dell’opinione comune, basato sull’idea che indossare il velo non 
              sia l’espressione di un credo ma il segno di una evidente 
              subordinazione della donna nei confronti del maschilismo. E molti 
              ne deducono bizzaramente che la libera scelta di una donna 
              consista solo nel mostrare quanto più sia possibile del suo corpo; 
              mentre in tutti i casi in cui la donna opta invece per un 
              abbigliamento sobrio non si tratterebbe che di una imposizione.
 
 L’Islam considera il cambiamento - non ovviamente qualsiasi 
              mutamento - come essenza integrale di un autentico percorso di 
              pratica religiosa. Ma questo va inserito in una particolare 
              accezione della “tradizione”. Come ha scritto Mohammed Khatami, 
              “forse che l’Occidente non si è ridestato con il ripensamento 
              della sua tradizione, forse che gli intellettuali non sono dovuti 
              tornare ai canoni greci del pensiero e dell’arte, alle eredità di 
              Roma? Ed i credenti riscoprire le verità essenziali della 
              religione cristiana? Come dimenticare che ritrovare quelle radici 
              diede origine alla rinascita ed alla ricostruzione di tutto 
              l’Occidente?”. Si tratta di una consapevolezza acquisita. Mohammed 
              Akram Khan, uno studioso che da una terra privilegiata per il 
              pluralismo religioso come l’India si è occupato di questi scenari, 
              è arrivato a tesi simili: “l’Islam non è immobilista e ciò che 
              ristagna non è Islam, l’Islam aspira al progresso della umanità, 
              al benessere degli uomini e delle donne. Per questo l’Islam è di 
              per sé aperto alle innovazioni creative” (perché, come si legge 
              nel Corano, la terra non è che un anticipo del paradiso). Può 
              allora questo Islam contribuire al discernimento di un 
              liberalesimo responsabile nell’orizzonte delle metamorfosi 
              post-moderne del XXI secolo?
 
 28 settembre
              2001
 
 (da Ideazione 5-2001, settembre-ottobre)
 
 
 
 
 
 
 
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