Se l’economia diventa un campo di
battaglia
di Massimo Lo Cicero
La guerra si sposta dagli eserciti ai mercati. Anche questa è una
conseguenza del tragico September Eleven di New York. Nascono da
questa conseguenza problemi difficili da risolvere e questioni
assai delicate da prendere in considerazione. Partiamo dalla
radice dell’albero. Una società libera, che eccita la libertà di
impresa e favorisce gli scambi, è l’ambiente più amico del mercato
e del benessere che si possa immaginare. C’è un ritorno positivo
per tutti gli individui di quella società perché la produzione
cresce più velocemente e consente di allargare il benessere di
ognuno. Sorge, evidentemente, un latente e distruttivo conflitto
distributivo. Nelle scienze sociali è molto noto questo paradosso.
Se una comunità aderisce ad un progetto, fondato sullo scambio e
la reciproca cooperazione, si eccita la sua produttività interna:
il prodotto comune risulta maggiore della somma dei prodotti
individuali che avrebbero potuto essere generati.
Ma se gli individui non condividono i criteri con cui questo
surDaily è ridistribuito la comunità si sgretola mentre la mancata
risposta, a questa domanda di equità catallattica, si traduce in
una perdita di efficienza. Efori è un nome che Sparta riservava ai
magistrati con il potere di giudicare i re e che Schumpeter rese
famoso: affermando che i banchieri sono gli efori del capitalismo,
perchè decretano la vita e la morte dei progetti imprenditoriali.
Se, invece che ai banchieri, questo potere di controllo viene
affidato ai tutori della lealtà reciproca tra gli individui, ai
“custodi” dei valori ultimi, si cade in un altro paradosso: chi
custodirà i custodi? Chi difenderà il cittadino leale dal giudice
o dal delatore che, per opportunismo personale, lo incolperanno di
slealtà verso la comunità?
Benedetto Croce, che della libertà si era occupato attentamente,
polemizzò su questo tema con una robusta affermazione di Carducci.
Aveva scritto il poeta che “giustiza e libertà sono le estreme
deità”. Croce ribatteva che la libertà sola è alla radice dei
valori e va difesa sempre mentre la giustizia rimane solo un
aspirazione e non è certo conseguibile “alla pari” con la libertà.
La libertà è un rischio ed è giusto che sia così: non darebbe
vantaggi a nessuno se non fosse pericolosa ed insidiosa. Ecco
perché si deve correre il rischio che altri la utilizzino contro
di te o correre il rischio che il custode della libertà tradisca
il suo mandato e distrugga, per perseguire proprie finalità
opportunistiche, la libertà altrui.
Sembra filosofia ma questo ragionamento ha un impatto pesante
sulle questioni economiche. Facciamo tre esempi: il riciclaggio di
“denaro sporco”; la responsabilità penale delle organizzazioni
economiche, cioè le società di capitali; il sequestro di
patrimoni, quando la loro provenienza sia riconducibile ad azioni
criminose ed illegali. Sono tre ipotesi classiche della guerra
alla criminalità economica. Sono i tre terreni sui quali dovrà
combattere il mondo per stanare i terroristi e ridurre la loro
capacità di aggredire la nostra libertà. Vediamo dove si cela il
rischio per ognuno dei tre casi. Il riciclaggio di “denaro sporco”
è un indizio ma non può essere un reato in se: a meno che non si
dimostri che il riciclatore è consapevole di completare, con la
sua azione, il processo che cancella il legame tra quel denaro ed
il reato che ne ha generato la disponibilità. Non a caso gli
americani chiamano il riciclaggio money laundering.
Le “lavanderie” sono un reato perchè il “lavandaio” è consapevole
di aiutare il criminale a fare scomparire le tracce del suo
rapporto con il reato. Ma ogni transazione economica si fonda
sullo scambio tra merce e denaro, o tra merce e titoli, e io che
vendo obbligazioni o vendo case o gelati, posso essere il
colpevole di un reato puntuale se, non essendo e non dovendo
essere consapevole delle attività con cui la mia controparte si è
rifornito di fondi monetari, accetto lo scambio? E i soci o gli
amministratori di una banca, un impiegato infedele della quale
abbia usato la propria posizione per riciclare fondi, sono
penalmente responsabili di associazione per delinquere con
l’infedele impiegato e con i suoi complici criminali? Dove sarebbe
l’associazione se essi erano ignari per definizione, essendo
infedele l’impiegato, delle azioni che erano poste in essere?
Infine, ma non per importanza, chi comprasse case per la propria
famiglia da un’impresa di costruzioni, che era il paravento di
attività criminali organizzate, può rassegnarsi al sequestro della
propria proprietà se, in buona fede, aveva stipulato e concluso
quel contratto di acquisto?
Insomma, sui mercati la fonte di informazione è il prezzo che
viene accettato dal venditore e dal compratore: non c’è progetto
comune tra i due se non quello di cambiare denaro con merci o
titoli ovvero cambiare merci o titoli con denaro. Dobbiamo pagare
un prezzo per difendere la libertà, insomma, ma questo prezzo non
può arrivare ad essere la scomparsa dei mercati: perchè una
società diretta e controllata da “grandi fratelli” benevoli
somiglia proprio all’ordine teocratico delle società chiuse che
non ammettono la libertà individuale. Non possiamo diventare
simili ai nemici dell’occidente per difendere l’occidente senza
perdere noi stessi. La guerra sui mercati presenta le medesime
difficoltà della guerra sui campi di battaglia.
Di fronte a questo dilemma San Bernardo affermava che uccidere un
infedele è un malicidio e non un omicidio: il danno di stroncare
una vita era considerato il male minore rispetto al danno di
perdere i propri valori di civilità. Anche nelle guerre economiche
si può e si deve colpire quando sia evidente la relazione tra il
bersaglio e l’obiettivo strategico. Altrimenti, creare un regime
di terrore finanziario travolge proprio la strategia da perseguire
e non il nemico. Il dramma del governo, nelle società liberali, è
che esso si deve assumere la responsabilità di un strappo
puntuale, rispetto ai principi, per difendere i vantaggi
collettivi che vengono da quei principi. Sua è la responsabilità
dello strappo perchè al governo, democraticamente controllato, è
riservato il monopolio della forza e della violenza. Se quel
monopolio si trasforma in un regime di polizia si perde la
democrazia. Se l’economia si trasforma in una rete di barriere,
controlli ed autorizzazioni, il mercato diventa un regime da piani
quinquennali che ristagna nella miseria collettiva ed alimenta le
fortune individuali di controllori opportunisti.
28 settembre
2001
maloci@tin.it
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