L’Islam di fronte alla modernità
intervista a Seyyed Hossein Nasr di Karim Mezran
Seduto nel suo ampio studio, tutto vestito di nero, Seyyed Hossein
Nasr, professore di Islamic Studies alla George Washington
University, ricorda nella pacatezza dei modi e nel tono della sua
eloquenza quegli antichi saggi dell’Oriente tramandatici da una
sapienza millenaria e che sembrano tornare in auge in questa fase
di crisi del fondamentalismo. Come un viaggiatore e pellegrino
d’altri tempi, ha attraversato l’Oriente e l’Occidente e grazie a
un soggiorno in Marocco abbracciò anni or sono il sufismo, la via
mistica dell’Islam. Nato a Teheran nel 1933 da una famiglia di
medici e con un padre ministro dell’Istruzione ai tempi dello
Shah, Nasr si è laureato al Mit di Boston e si è successivamente
specializzato ad Harvard in Filosofia e storia della scienza,
conseguendo nel 1958 anche il dottorato in Cosmologia e scienze
islamiche. Era quello il periodo in cui accanto alla effervescenza
della cultura giovanile e alla rivoluzione dei costumi degli anni
Sessanta si stavano delineando nuove sintesi di pensiero. In
particolare, intorno a Giorgio de Santillana, un italiano emigrato
negli Stati Uniti a causa delle leggi razziali - autore del noto
Il mulino di Amleto e di un tuttora insuperato Manuale di Diritto
Islamico - si coagulava una cerchia di studiosi provenienti dalle
più disparate regioni del globo per riproporre - aggiornata -
tutta una conoscenza spirituale non isterilita da opposizioni
preconcette alla modernità. Accanto all’iraniano Nasr, che fu
allievo di Santillana, c’erano il tedesco Frithjof Schuon, lo
svizzero Titus Burckhardt, l’inglese Martin Lings, il greco Marcos
Pallis e l’indiano Ananda Coomaraswamy. Il fecondo dialogo tra la
modernità dell’Occidente e la sapienza delle tradizioni
dell’Oriente che questi studiosi contribuirono ad innescare
rappresenta ancora oggi un valido antidoto agli stereotipi sullo
“scontro delle civiltà”. In Italia, il merito di aver proposto
questa esperienza intellettuale va ascritto all’editore Rusconi e
al suo direttore editoriale Alfredo Cattabiani, i quali tra
l’altro pubblicarono diversi titoli di Nasr: Ideali e realtà
dell’Islam (1974), Il sufismo (1975), L’uomo e la natura (1977).
Nel febbraio del 1977 sarà la Feltrinelli a dare alle stampe uno
dei testi chiave dell’intera opera di Seyyed Hossein Nasr, il
monumentale Scienza e civiltà dell’Islam. Dopo la rivoluzione
iraniana del 1979, Nasr si è stabilito negli Stati Uniti,
insegnando prima nella Temple University e poi presso la George
Washington University nella capitale americana, dove tuttora
dirige l’Istituto di Studi Islamici. I molteplici interessi di
questo straordinario studioso spaziano dalla scienza alla
metafisica, dall’arte alla filosofia, dalla matematica
all’astronomia. Nasr ha infatti scritto più di quaranta libri ed
oltre quattrocento saggi ed articoli, riguardanti sia i più
svariati aspetti della civiltà islamica che argomenti come la
critica dello scientismo illuminista, le radici filosofiche della
crisi del mondo contemporaneo, la questione ecologica. I suoi
lavori, scritti in persiano, arabo, inglese e francese, sono stati
tradotti in molte lingue sia occidentali che orientali. Lo abbiamo
incontrato per approfondire uno dei nodi centrali nel dibattito
politico-culturale dello scenario internazionale: il rapporto tra
l’Occidente e l’Islam.
Professor Nasr, la sua visione del rapporto
tra Occidente ed Islam s’impernia sul concetto di tradizione. Cosa
intende esattamente?
Nelle lingue e nelle culture europee la parola tradizione ha
assunto e assume diversi significati. Io, seguendo René Guénon,
Frithjof Schuon ed altri autori, la uso riferendomi alla
comprensione di una sacralità nella natura che ci è stata
rivelata. Si tratta di una verità metafisica che trova espressione
e applicazione nelle civiltà per questo definite “tradizionali”.
La metafisica risulta perciò essere la scienza del reale,
dell’origine e del termine delle cose, dell’Assoluto e, nella sua
luce, del relativo. La tradizione è, quindi, per principio il
contrario di un modernismo autosufficiente e fine a se stesso.
Nella filosofia occidentale, però, sin dai tempi di Aristotele
invalse l’infelice criterio di considerare la metafisica come una
parte della filosofia, sicché con il sorgere del dubbio filosofico
moderno, anche la metafisica venne screditata. Nel mondo islamico
la tradizione viene invece tradotta con al sunnah nel suo senso
letterale o addirittura con il termine Din che sta direttamente
per religione, il cui significato non va mai confuso con la
ripetizione vuota e sterile di forme e strutture passate. Essa non
è mai consuetudine, fissità sterile ed immobilità, poiché i suoi
riti inverano continuamente e perennemente il Sacro.
Questa dimensione della tradizione non
sembra però esclusiva all’Islam...
Infatti, questa stessa accezione la ritroviamo anche nel contesto
della cristianità. In questo momento storico, tuttavia, gran parte
della cristianità occidentale mostra una maggior secolarizzazione
rispetto alle realtà delle altre religioni. E’ un fatto che i
cristiani sono meno legati al cristianesimo tradizionale di quanto
i musulmani lo siano nei confronti della loro tradizione. Anche se
è vero che ancora adesso - questo va precisato - molti cristiani
sentono e praticano un orientamento tradizionale nella loro vita
del tutto simile a quello provato dai musulmani.
A questo proposito lei si è occupato di
dialogo inter-religioso. Qual è la sua opinione al riguardo?
Il dialogo inter-religioso deve assumersi il compito di
comprendere il nucleo delle diverse religioni e di cercare di
creare l’accordo migliore fra esse sulla base sia dei principi
comuni che dell’accettazione delle differenze. Questo dialogo
dovrebbe basarsi sul riconoscimento delle altre religioni rivelate
e sul rispetto delle loro verità. Purtroppo gran parte del dialogo
inter-religioso odierno si basa più sulla convenienza e sulla
diplomazia di facciata che sulla sostanza. E’ troppo sbilanciato
sulla caducità delle umane nature.
E allora, come si può conciliare la
spiritualità con la scienza e la tecnologia moderne?
Quando si concepisce la scienza moderna come verità assoluta si
crea un’ideologia, lo scientismo, e allora non è possibile alcuna
riconciliazione o alleanza. In quanto alla tecnologia moderna,
essa si basa su un paradigma faustiano e il suo utilizzo è spesso
mescolato all’avidità umana e alla sete di potere che
costituiscono il pericolo più grande per la stessa sopravvivenza
dell’umanità, come dimostrano le gravi emergenze ambientali.
Quando, invece, la scienza viene vista per quello che davvero è, e
cioè una conoscenza determinata del regno dell’esistenza fisica
basato sull’aspetto della quantità, allora essa può integrarsi in
forme più alte di conoscenza.
Certo, le società occidentali hanno preso
coscienza di questa complessità. Ma come riesce l’Islam a
integrarvisi?
Personalmente, in quanto pensatore islamico tradizionale, ho una
posizione nettamente contraria ai dogmi filosofici dell’ideologia
modernista, basata com’è su utilitarismo, empirismo,
individualismo e deificazione dell’umano. Tuttavia credo che i
musulmani debbano capire profondamente la modernità e offrire le
loro risposte alle sue sfide. Tanto è vero che il passato ha già
fornito esempi di questo genere. Basterebbe ripensare al fatto che
la figura del matematico, che in Occidente era una sorta di
proscritto fino al tardo Medio Evo, nell’Islam svolgeva un ruolo
sociale importante già dall’inizio. Due secoli dopo la diffusione
del cristianesimo nel Medio Oriente, l’Occidente cristiano era
ancora immerso nella barbarie. Al contrario, dopo soli duecento
anni il mondo islamico, sotto la guida del califfo Harun al-Rashid
era culturalmente molto più attivo del contemporaneo mondo
carolingio.
A proposito di corsi e ricorsi storici,
venti anni fa intellettuali come Michel Foucault in Europa o
Norman Brown negli Usa si impegnarono a capire l’Oriente e in
particolare l’Islam. Oggi, invece, gli studi sembrano confinarsi
nell’ambito degli stereotipi e dei luoghi comuni. Cosa è successo?
Non mi sembra che la situazione attuale vada in questa direzione.
Anzi devo notare con soddisfazione che molti intellettuali
occidentali, primo tra tutti John Esposito, stanno continuando a
proporre una comprensione globale e approfondita dell’Islam anche
se è forse vero che le loro voci e i loro studi vengono sommersi
dal rumore del media system, spesso dominato da luoghi comuni che
tendono a perpetuare gli stereotipi negativi sulla realtà
islamica. Le stesse notizie vengono filtrate, spesso
maliziosamente, in maniera tendenziosa e questo - al di là di
quello che si pensa - più in America che in Europa, soprattutto
quando entrano in ballo questioni che riguardano i paesi islamici
e in particolare la questione palestinese. Tuttavia, resto
ottimista: oggi in Occidente, tranne piccoli circoli
pregiudizialmente anti-islamici, vi è maggiore attenzione e
comprensione dell’Islam rispetto solo a vent’anni fa. E si tratta
di un interesse diffuso soprattutto tra la nuova generazione di
intellettuali.
Su questo versante c’è però ancora molto
lavoro da fare in Europa e in Occidente. L’Islam, la sua cultura e
il suo messaggio sono infatti molto diversi dalla percezione media
che ne ha un occidentale, spesso condizionata dalle distorsioni
rappresentate dai fondamentalisti. E’ d’accordo?
Non ritengo che la distorsione dell’immagine dell’Islam sia dovuta
al solo fondamentalismo. Anzi, questa cattiva percezione esisteva
molto tempo prima che venisse alla luce quel fenomeno che
l’Occidente chiama fondamentalismo: un fenomeno che in realtà
deriva in forte misura dalle reazioni alle invasioni della
ideologia modernista nel mondo islamico. Il paradosso è che queste
reazioni hanno generato risposte che spesso utilizzano elementi
tratti proprio dalle ideologie e dalle esperienze politiche
europee e occidentali del Novecento. Comunque, bisogna cercare e
capire le ragioni di queste reazioni, anche nella loro forma più
estrema. Reazioni che però non dovrebbero essere identificate con
l’Islam più di quanto le crociate o la pulizia etnica operata dai
cristiani contro i musulmani nella Spagna del Cinquecento e di
recente in Bosnia oppure i bagni di sangue fra cattolici e
protestanti nella storia europea non possono essere identificati
con la religione cristiana.
Oggi in Europa è in corso un serrato
dibattito in merito alla presenza nel vecchio continente di
milioni di musulmani, immigrati da vari paesi e trapiantati in una
nuova realtà. Scaturirà da ciò un Islam diverso oppure no? Qual è
la sua opinione in merito?
Non si tratta di una novità. Nel corso di tutta la sua lunga e
ultrasecolare storia l’Islam è riuscito a raggiungere molti paesi
diversi e ad affondare proficuamente le sue radici nel loro
terreno. Pur assorbendo gli elementi culturali e sociali locali è
però sempre rimasto fedele alla sua coerente verità. E questo a
prescindere dal fatto che si sia trovato in una posizione di
dominio o di minoranza, come possiamo vedere nel caso dell’Albania
o in quello della Cina. Oggi per l’Islam essere trapiantato in
Europa non significa essere distaccato da una realtà originaria ma
significa sviluppare una comunità vivente all’interno delle
condizioni della civiltà europea occidentale così come è già
successo in passato in India ed in Cina. Ovviamente, in quei casi
le condizioni erano diverse da quelle che l’Islam si trova oggi ad
affrontare nel moderno Occidente.
A proposito di modernità: sembra che
dall’inizio del Novecento l’Occidente sia riuscito ad
identificarsi solo attraverso lo specchio di un nemico, ieri
nazismo e comunismo, oggi il mondo islamico. Pensa che l’Islam
possa sottrarsi a questa visione e cambiare la sua percezione
all’occhio occidentale?
In realtà l’Occidente si identifica attraverso l’“altro” da molto
prima del Ventesimo secolo. Nel Medio Evo, ad esempio, l’Occidente
si definiva soprattutto attraverso l’unico “altro” che conoscesse
in quel momento e che era proprio l’Islam. In quanto all’oggi,
l’Islam può certamente smontare l’immagine distorta di sé diffusa
in Occidente soprattutto attraverso i media, imparando a
comunicare adeguatamente e a padroneggiare i linguaggi della
comunicazione attraverso i quali soltanto potrà farsi conoscere
efficacemente al pubblico occidentale moderno.
Qual è allora la sua opinione sulla
globalizzazione?
La globalizzazione, naturalmente, è un fenomeno complesso, a più
dimensioni. Mi inquieta quando i suoi effetti possono tendere a
minacciare le culture e le tradizioni locali o quando condizionano
negativamente le vita economica di molte aree del pianeta. Non
dobbiamo vedere la globalizzazione solo come occasione di sfrenata
ricchezza generalizzata. Ma come possibilità per la nostra specie
di preservare l’armonia e l’equilibrio fra i diversi aspetti della
vita. Sarebbe un suicidio spirituale e ambientale distruggere
tutto in nome di un ipotetico benessere materiale.
Nell’ambito di un mondo tendenzialmente
globalizzato c’è una forte tendenza al sincretismo religioso e ad
una forma new age di “religione fai da te”. Cos’ha da dirci in
proposito?
Sono contrario a tutti i sincretismi religiosi. La vera religione
è quella rivelata, mentre il sincretismo è un’operazione
artificiale. Il sincretismo oggi di moda è perciò il contrario
della religiosità autentica e, sebbene in nome della religione,
non fa che allontanare gli uomini dall’unica forza che può
salvarli dalla loro natura di peccatori. La tendenza verso il
sincretismo religioso non è altro che uno degli effetti più
discutibili della globalizzazione.
28 settembre
2001
(traduzione dall’inglese di Barbara Mennitti)
(da Ideazione 5-2001, settembre-ottobre)
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