Bin Laden, l’arte politica del terrore
di Giuseppe Mancini


Altro che terrorista! Il messaggio televisivo di Osama bin Laden, diffuso subito dopo l'inizo dei bombardamenti in Afghanistan dalla televisione del Qatar al-Jazeera, ci aiuta a capire meglio il disegno complessivo dello sceicco saudita. L'idea di una guerra santa per distruggere l'Occidente usando mezzi terroristici è persa in partenza: bin Laden ne è consapevole. Ma la guerra la vuole fare lo stesso, ed ha capito che, nel contesto politico di oggi nel Medio Oriente, le risorse umane e materiali necessarie può trovarle. Ecco allora i primi attentati - la base americana di El Khobar in Arabia Saudita (1995), le ambasciate americane di Nairobi e Dar es Salaam (1998), l'USS Cole nel porto di Aden (2000) - per convincere i suoi fedelissimi che fa sul serio. Il secondo gradino di questa strategia è far sapere al mondo intero di cosa è capace: agli avversari per fargli paura, ai musulmani per tentare di arruolarli. I drammatici eventi dell'11 settembre non sono un'azione di guerra: per quanto assurdo possa sembrare, sono principalmente un'operazione psicologica. Si è voluto colpire il cuore degli Stati Uniti: per gettare la popolazione tutta nello sconorto e nel panico, per provocare le autorità politiche a scatenarsi in ritorsioni indiscriminate.

Probabilmente, bin Laden aveva scommesso su una risposta immediata, dimenticando però che l'amministrazione Bush è poco incline a quelle inconsulte avventure militari di cui si è resa colpevole protagonista la sgangherata accoppiata Clinton-Albright. Il video-messaggio andato in onda in tutto il mondo è stato presumibilmente girato subito dopo l'11 settembre: l'enfasi sugli attacchi agli Stati Uniti è sufficientemente marcata da farlo pensare. Video-messaggio che rappresenta il terzo gradino della strategia politica di Osama bin Laden: chiamare a raccolta le masse per rovesciare con l'arma del radicalismo islamico i governi in carica. Dopo il fallimento delle ideologie modernizzanti (socialismo e nazionalismo arabi), in mancanza di istituzioni democratiche, in presenza di regimi autoritari e cleptocratici, nel pieno di un declino economico apparentemente inarrestabile amplificato da pressioni demografiche sempre crescenti, il progetto di questo nuovo Saladino appare purtroppo credibile. I riferimenti a Palestina ed Iraq che bin Laden per la prima volta ha incluso nei suoi pensieri pubblici, la reiterazione della politica anti-islamica delle monarchie del Golfo, ne sono chiarissime indicazioni.

Un progetto politico ambizioso che si basa su di un'altra, precaria scommessa: la capacità di mobilizzare le masse. Lo ha fatto limitando al minimo il contenuto religioso del suo messaggio: niente riferimenti precisi al Corano, al loro posto formule generiche di devozione ed elementari richiami ad una visione poco sofisticata dell'Islam (ad esempio, la manichea suddivisione tra credenti da una parte, infedeli ed ipocriti dall'altra - categoria più ampia in cui ovviamente rientrano tutti i governi che falsamente si definiscono islamici). Al contempo, Osama bin Laden si è rivolto a tutto il mondo occidentale: ha rinfacciato comportamenti irriguardosi per il popolo islamico (il pluridecennale conflitto palestinese, i bambini che muoiono per l'embargo contro l'Irak), ha dispensato odio, ha promesso battaglia. Ha suscitato rabbrividite preoccupazioni: perchè la sua disarmante, ambigua duplicità fa terribilmente paura. La nuda semplicità (la grotta, il tè da sorseggiare) insieme alla modernità (la telecamera, il fucile-mitragliatore); quel microfono che a tratti sembra infastidire, a tratti sembra impugnato con malcelato godimento; lo sguardo al contempo magnetico ed assente, la calma nell'esaltazione; l'apparente banalità del ragionamento che nasconde una strategia di fanatica complessità. Strategia che cerca, come fine intermedio, una rivoluzione islamista che sappia conquistare, impadronendosi del potere, le risorse umane ed economiche proprie degli stati.

Con queste risorse, sarebbe allora guerra vera, guerra guerreggiata, guerra di distruzione globale. Guerra che va impedita subito, prima che diventi possibile: con un'impietosa e decisa azione militare, con buona pace di chi ha ancora il coraggio di credere che i nemici si combattono con balli, canti e spinelli in piazza; un'ancora più decisa ed impietosa offensiva politica, che sproni alla trasformazione in senso democratico dei regimi autoritari esistenti, che promuova le libertà politiche ed economiche, che determini il rilancio economico dei paesi mediorientali, che riallacci con maggior convinzione il dialogo con l'Iran indispensabile perno di stabilità geopolitica, che abbatta inutili strumenti politici come le sanzioni contro Saddam Hussein, che sappia risolvere con coraggio e creatività - al di fuori di visioni ormai stantie - il conflitto palestinese.

9 ottobre 2001

giuse.mancini@libero.it


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