Per non dimenticare
di Pierluigi Mennitti
E’ passato appena un mese da quella mattina assolata e poi
terribile di Manhattan. Il mondo ci è cambiato sotto gli occhi,
minuto dopo minuto, ora dopo ora. Sono trascorsi trenta
lunghissimi giorni che a voltarsi indietro e a pensare come
eravamo “prima di” sembra davvero passato un secolo. Oggi siamo in
guerra. Una guerra che si annuncia incerta, lunga e piena di
insidie. Non abbiamo confini questa volta, non conosciamo i
limiti, i contorni, le frontiere del mondo che abbiamo appena
iniziato ad attraversare. La reazione degli Alleati è partita. Da
quattro giorni bombardiamo l’Afghanistan, alla ricerca di un uomo
che abbiamo conosciuto attraverso i fotogrammi di un videotape e
con la speranza di abbattere un regime medievale che abbiamo
foraggiato (Arlacchi, do you remember?), poi tollerato e solo
adesso combattiamo. Ma non basterà. Tutti dicono che ci vorrà
dell’altro. Che la nuova guerra sarà lunghissima. E dunque
condizionerà un periodo della nostra vita. Augurandoci che quello
che verrà dopo, sarà comunque un periodo migliore.
Ma mentre raccontiamo, giorno per giorno, il dipanarsi di un
conflitto inaspettato, oggi è d’obbligo tornare con la memoria
agli attimi in cui gli Stati Uniti d’America, il cuore del mondo
libero nel quale ci riconosciamo, sono stati sotto l’attacco dei
terroristi. Gli istanti in cui aerei dirottati sono stati
trasformati in bombe volanti e sono stati fatti schiantare con il
loro carico umano contro le Torri gemelle di Manhattan, contro gli
edifici del Pentagono di Washington. Ricordare le ore drammatiche
nelle quali un presidente, che tutti consideravano un inetto, è
stato costretto a volare da una base militare all’altra per
sfuggire alla morte. O i secondi tremendi in cui un pugno di eroi,
su uno dei voli dirottati, votava a maggioranza per aggredire i
terroristi e schiantarsi al suolo piuttosto che assecondare il
disegno stragista.
Sì, oggi dobbiamo tornare a fermarci per qualche minuto. E
ricordare da dove è partito tutto l’orrore che cerchiamo di
combattere. Ricordare le fiamme che avviluppavano le torri colpite
e ne consumavano, secondo dopo secondo, la resistenza. Gli occhi
terrorizzati dei newyorkesi che cercavano di mettersi in salvo
mentre cento, duecento, trecento pompieri e poliziotti saltavano
dentro quelle torri di fuoco per salvare gli impiegati e fare il
loro dovere. Dobbiamo ricordare quell’uomo che lassù, al centesimo
piano, sventolava un drappo bianco aggrappato alla finestra,
penzolante nel vuoto. E poi non ce l’ha fatta più, ha lanciato il
drappo e s’è lanciato pure lui, nel vuoto, assieme ad altre decine
di sventurati che hanno preferito sfracellarsi al suolo piuttosto
che arrostire all’interno delle torri. E poi anche le torri non
hanno resistito più e hanno dichiarato la resa polverizzandosi e
polverizzando tutti gli uomini e le donne che erano rimaste
dentro.
Non sapremo mai il conto dei morti. Ma a New York e a Washington,
da un mese, i funerali si susseguono a ritmo continuo. L’America
ha pianto le sue vittime e i suoi eroi ma ha fatto capire al mondo
che nessuno l’avrebbe piegata. Tante cose sono cambiate dall’11
settembre. Quell’uomo che molti consideravano un inetto è
diventato il presidente degli Stati Uniti. Ha preso per mano un
paese smarrito e spaventato e lo ha rigenerato moralmente e
politicamente. Quell’uomo ha pianto con la sua gente e poi l’ha
subito ricaricata. E’ sceso tra i soccorritori e gli ha detto che
non erano soli, che lui poteva sentirli e che tutto il mondo li
avrebbe sentiti. E loro hanno gridato il nome del loro paese,
“Iuessèi, Iuessèi”, e noi li abbiamo sentiti. Tutti li hanno
sentiti. Quel paese smarrito e spaventato è uscito dall’angolo, ha
creato attorno a sé una coalizione grandissima. Ha organizzato
un’offensiva militare ma prima di lanciarla ha lavorato
politicamente per isolare questo nemico infido. I suoi detrattori,
che sono tanti e prolificano numerosi anche dalle nostre parti,
non sanno più che dire. Sostengono che bisogna dare risposte
politiche, che non si possono colpire i civili, che bisognerebbe
aiutare gli afgani. E Bush sta facendo tutto questo. Ha spiazzato
anche loro, l’inetto.
Nessuno può dire come andrà a finire questa guerra, se alla fine
la vinceremo, dopo aver perduto la prima battaglia, e quante
vittime costerà. E’ difficile pure immaginare come si svilupperà:
saremo attaccati con autobombe, con altri dirottamenti, con
attacchi batteriologici, con armi chimiche? O riusciremo a
prevenire tutto questo? L’unica cosa che possiamo fare, oggi, è
fermarci ancora un minuto, stringerci nel ricordo delle vittime e
farci forte della dignità che, da quel giorno, gli americani hanno
mostrato a tutti noi.
10 ottobre
2001
pmennitti@hotmail.com
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