Un piano Marshall per la Palestina
di Giuseppe Sacco
La proposta di una piano Marshall per la Palestina, in modo da
rendere meno squilibrato il rapporto di forze in vista
dell’inevitabile negoziato con Israele, nasce da una visione assai
realistica della situazione mediorientale, ma traduce anche
un’idea assai ambiziosa. L’espressione “piano Marshall” è
diventata, dopo la seconda guerra mondiale, sinonimo di “piano di
sviluppo” efficace e ben riuscito, e in un breve lasso di tempo. E
non c’è dubbio che l’esperienza realizzata in Europa ad iniziativa
del Generale Marshall sia, sotto questo profilo, quella di un
eccezionale successo. Ma l’Europa occidentale del dopoguerra non
era un’area arretrata. Al contrario, era un insieme di economie
che, per le necessità belliche, avevano compiuto uno sforzo di
ricerca e di innovazione senza pari, in cui risorse umane di
altissimo valore affluivano dai territori dell’Europa orientale
occupati dall’esercito sovietico - e si trattava di uomini
duramente selezionati dalla terribile mortalità che ha
caratterizzato quell’esodo. E non mancavano, in quello “anno
zero”, né una fortissima domanda, né capitali accumulati, in
maniera più o meno legittima, dai profittatori di guerra. Era
insomma, l’Europa, una economia largamente distrutta,
disorganizzata e bloccata. Ma non un’economia sottosviluppata. Non
a caso, il Piano Marshall ebbe successo in Germania più che in
Italia - cioè nel paese più distrutto, ma più avanzato - e
nell’Italia del Nord, più che in quella del Sud, dove il problema
delle distruzioni - che erano terribili, soprattutto a Napoli -
era solo aggiuntivo rispetto a quello dell’arretratezza.
Un piano Marshall, in Palestina, è perciò un progetto assai più
ambizioso di quanto l’esperienza europea non possa far pensare, e
dovrà puntare a mobilitare dall’estero non solo risorse
finanziarie, ma anche - come Berlusconi non a caso ha indicato -
risorse di imprenditorialità. Che non possono venire che dal
settore privato. Condizione essenziale perché ciò venga realizzato
è però che la Palestina esca dall’ambito del mercato locale, per
realizzare uno sviluppo trascinato dalle esportazioni. E che si
faccia un uso razionale - cioè l’uso indicato dalle convenienze
del mercato - delle nuove risorse di cui la Palestina dispone.
Queste risorse non sono indifferenti, in particolare nel settore
degli idrocarburi, dopo gli importanti ritrovamenti al largo di
Gaza. Ma non sono neanche tanto abbondanti da consentire uno
sviluppo basato solo sulla rendita mineraria. Dovranno essere
utilizzate per finanziare l’infrastrutturazione di un territorio a
densità umana altissima, e che quindi non ha altra scelta se non
uno sviluppo industriale fondato sull’abbondanza di forza lavoro.
Insomma, la Cisgiordania e - soprattutto - Gaza non hanno altro
possibile modello, se non quello delle “tigri” asiatiche negli
anni Sessanta. Che è un modello anche politicamente omogeneo.
Perché cos’altro erano Hong Kong, Singapore, Taiwan, la stessa
Corea del Sud se non frammenti di paese, residuati della conquista
di gran parte della madrepatria da parte di forze ostili, isole
tagliate fuori dal loro naturale retroterra, e su cui si era
riversata una massa immane di profughi, che non potevano trovare
un ruolo economico se non guardando verso le occasioni che
potevano venire solo dal mare aperto?
12 ottobre
2001
saccogi@hotmail.com
|