| La Repubblica imperiale di Virgilio Ilari
 
 La storia è come la religione: quando ci pensiamo, vuol dire che 
              stiamo passando un grosso guaio. Il confronto analogico tra 
              passato e presente è la base di tutte le scienze umane; e, dal 
              punto di vista della retorica, la spiegazione storica è una 
              metafora trovata per analogia. Ma anche la profezia lo è. Quando 
              una catastrofe irrompe nella nostra vita, quel che sappiamo o 
              crediamo del passato si proietta all’improvviso davanti alla 
              nostra immaginazione mostrandoci la sorte che fatalmente ci 
              attende. L’apocalissi è la forma necessaria del dissenso radicale: 
              ma anche la propaganda a favore dell’ordine costituito è una 
              profezia, sia pure rassicurante.
 
 Nella “Fine del mondo antico” Santo Mazzarino ricorda che le prime 
              profezie sul “declino” di Roma sono anteriori alla sua “ascesa”. 
              La nemesi non ha alcuna evidenza storica, è semplicemente la 
              morale implicita della tragedia greca. L’apocalisse non è una 
              previsione ma una maledizione. Tale è con tutta evidenza “Empire” 
              di Toni Negri e Michael Hardt, che Rizzoli sta per pubblicare in 
              italiano. La morale è tragica (“ogni organismo porta in sé le 
              cause della sua morte”) e l’analogia principale scontata 
              (“Occidente come Roma”), come pure scontata è l’idea di attribuire 
              la fine di Roma al cristianesimo. La novità consiste nel parallelo 
              con la globalizzazione, prodotto dall’Occidente e destinata a 
              distruggerlo, almeno nella sua forma capitalista.
 
 Il parallelo con Roma non è certo nuovo. L’idea moderna di 
              “progresso” è uno sviluppo del parallelo tra antichi e moderni di 
              cui si discusse per tutto il Settecento. I protagonisti della 
              rivoluzione francese si atteggiavano ad antichi romani (e quelli 
              della rivoluzione sovietica interpretavano il loro presente 
              secondo lo schema della rivoluzione francese). Hans Delbruck, il 
              più famoso storico militare tedesco, interpretò la strategia di 
              Federico II durante la guerra dei Sette anni mettendola a 
              confronto con quella di Pericle durante la guerra del Peloponneso. 
              Tutte le grandi potenze che negli ultimi quattro secoli si sono 
              affrontate per il controllo delle risorse mondiali e il dominio 
              del futuro, hanno riflettuto sul proprio destino identificandosi 
              di volta in volta a seconda delle circostanze, ora con i romani, 
              ora con i cartaginesi. Fu Raymond Aron, trent’anni fa, a definire 
              gli Stati Uniti una “Repubblica imperiale” come era stata la 
              Repubblica romana dal IV al primo secolo avanti Cristo.
 
 Nel 1976 Luttwak propose un paragone con l’Impero romano classico 
              dal primo al terzo secolo dopo Cristo, dalla cui strategia 
              intendeva trarre ammaestramenti per il presente. Ognuno trova 
              paragoni con ciò che conosce meglio: Luciano Canfora, specialista 
              di Storia greca, pensa che l’Impero americano (come quello 
              britannico) assomigli piuttosto alla talassocrazia ateniese del V 
              secolo avanti Cristo. Nel 1974, quando studiai il sistema militare 
              dell’Italia romana del IV-I secolo avanti Cristo non mi resi conto 
              dell’analogia con la Nato. Me ne accorsi negli anni seguenti, 
              studiando la storia della Nato e della prima Repubblica italiana. 
              Da allora non smetto di pensare a Polibio. Come suo padre Licorta, 
              capo della Lega Achea, anche lui voleva difendere l’indipendenza 
              greca contro i romani: comandò anche un reggimento di cavalleria. 
              Ma a Pidna i greci furono sconfitti e Polibio fu inviato in 
              ostaggio a Roma. Qui continuò la guerra greca nell’unico modo 
              possibile: spiegando ai greci chi fossero i romani e grecizzando i 
              romani. E’ la strategia dei popoli forti: come gli inglesi che, 
              detronizzati dai “barbari” americani hanno deciso di diventarne i 
              maestri e consiglieri: ma senza mai confondersi con essi.
 
 1 novembre
              2001
 
 
 
 
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