I dubbi e le paure di Tel Aviv
di Stefano Magni
La “guerra contro il terrorismo” ha già prodotto la sua prima
importante vittima: Israele. Il governo Sharon sperava che, con
gli attentati dell’11 settembre, gli Stati Uniti prendessero
maggiormente coscienza del pericolo costituito dal terrorismo
islamico e venissero più concretamente in aiuto del loro
tradizionale alleato mediorientale, da quasi un anno coinvolto in
una nuova, lunga e sanguinosa guerriglia contro i palestinesi. La
politica dell’amministrazione Bush, invece, riflette la strategia
già scelta dal generale Powell per la Guerra del Golfo contro
l’Irak: convincere Israele a rimanere neutrale e, quando
possibile, a scendere a maggiori compromessi con gli arabi in
fatto di concessioni territoriali. Il primo risultato di questa
strategia è un maggior raffreddamento nei rapporti
israeliano-statunitensi, con alcune punte di crisi.
Il primo grande confronto diplomatico fra Tel Aviv e Washington è
avvenuto subito dopo il misterioso abbattimento di un aereo russo
sui cieli del Mar Nero i cui passeggeri erano tutti di nazionalità
israeliana. Alle richieste di chiarimenti da parte del Mossad, i
servizi segreti statunitensi hanno risposto in termini vaghi,
liquidando la questione come un incidente avvenuto nel corso di
un’esercitazione ucraina. Mentre esiste ancora il sospetto che
l’aereo sia esploso in seguito ad un attentato terroristico. Solo
due giorni dopo Sharon, con la sua dichiarazione (ormai famosa) in
cui paragonava l’abbandono di Israele dai suoi alleati
tradizionali all’abbandono della Cecoslovacchia dopo Monaco nel
1938, mostrava per la prima volta esplicitamente insofferenza nei
confronti della politica di Washington. Gli ulteriori inviti di
Powell a continuare con le operazioni di ritiro dell’esercito
israeliano dai territori occupati, anche in seguito al gravissimo
omicidio del ministro dimissionario Zeevi da parte di militanti
palestinesi, non fanno che allargare questa crepa.
La strategia di Powell per affrontare questa crisi è fortemente
condizionata dalla paura di unificare contro gli Stati Uniti tutto
il mondo islamico. Powell spera non tanto di ripetere l’esperienza
della coalizione araba del 1990, dato che questa volta non si
tratta di una guerra fra stati arabi, quanto quella di cercare di
ottenere la collaborazione di più regimi possibili nella lotta
contro quella parte dei loro paesi che ha dichiarato guerra
all’Occidente. Oltre a questo timore esistono anche considerazioni
di carattere strategico: la guerra che gli americani stanno
combattendo è un conflitto segreto contro una rete terroristica di
integralisti sunniti che operano, anche ad altissimo livello, in
Arabia Saudita, Egitto e Pakistan. In un conflitto di questo tipo
la necessità americana è quella di infiltrare questa rete
appoggiandosi soprattutto a chi sta già agendo in questo senso:
non gli israeliani che, da anni, combattono contro un’altra rete
terroristica.
Tuttavia, come fanno notare gli israeliani, il problema non è così
semplice. In primo luogo, non esiste la certezza della
collaborazione di regimi come quello pakistano o quello arabo.
Tantomeno di regimi, fino a poco tempo fa considerati “canaglia”,
come quello siriano, che, per la sua collaborazione, è stato
ammesso al consiglio di sicurezza dell'Onu, nonostante la resistenza diplomatica israeliana.
Inoltre, non è escluso che anche i siriani abbiano la loro
responsabilità nell’attacco dell’11 settembre, dato che tre
terroristi ricercati dagli americani fanno parte della rete degli
Hezbollah e sono tuttora protetti dal regime di Damasco in Siria.
Infine, nel lungo periodo, continuare questa politica nei
confronti di Israele potrebbe costituire una grande vittoria per
gli artefici della strategia del terrore. Sharon è consapevole del
fatto che ogni concessione viene interpretata come una vittoria
dall’altra parte e non come un invito a scendere a compromessi. Invitare Israele a fare altre concessioni, nel corso di
una guerra che si presume lunga, può innescare un effetto domino
che può compromettere la sua stessa esistenza. E abbandonare una
nazione di sei milioni e mezzo di individui che lottano per la
loro stessa esistenza da mezzo secolo (oltre che l’unico stato
democratico nel Medio Oriente), sarà sicuramente vista da tutti
gli integralisti islamici come una grandissima sconfitta del mondo
occidentale e un invito a procedere oltre nella guerra contro il
Grande Satana.
1 novembre
2001
stefano.magni@fastweb.it
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