Chi vince e chi perde nel grande gioco
dell’Asia
intervista a Valeria Fiorani Piacentini di Giuseppe Mancini
Clan, solidarietà tribali, rivalità e vendette istituzionalizzate,
uno spietato codice dell'onore (Pukhtunwali), feudalesimo non
ancora tramontato, centralità geopolitica, abbondanza di vicini
potenti, droga, petrolio e oleodotti. Che lo stato in Afghanistan
non esista non è allora un mistero, in più dopo un ventennio di
guerre e guerre civili. Ma, una volta liberatisi dei talebani, in
che modo ricostruire un sistema politico-istituzionale solido e
resistente? In che modo evitare che l'intervento militare e le sue
tragiche ed inevitabili ricadute sulla popolazione civile rendano
l'instabilità definitivamente ingovernabile, con effetti domino
incontrollabili in tutta l'Asia centrale? Lo abbiamo chiesto a
Valeria Fiorani Piacentini, professore ordinario di Storia e
istituzioni del mondo musulmano presso l'Università Cattolica di
Milano, impegnata a più riprese in ricerche sul campo in Asia
centrale, autrice di fondamentali testi sul pensiero militare nel
mondo musulmano e sulla sicurezza in Asia centrale.
Professoressa Piacentini, parliamo prima
degli scenari regionali. Quali tra gli attori politici della
Regione - repubbliche ex sovietiche, Russia, Cina, India,
Pakistan, Turchia, Iran - hanno da guadagnare dall'intervento
militare statunitense in Afghanistan? E chi invece rischia di
rimetterci?
Prima dell'11 settembre, in Afghanistan era già in corso una
guerra civile tra la cosiddetta Alleanza del Nord, sostenuta da
Russia, Cina, India ed Iran, contro i talebani sostenuti dal
Pakistan. E' evidente, allora, che i sostenitori dell'Alleanza del
Nord avranno dei vantaggi. La Russia, soprattutto, potrà meglio
contrastare il separatismo ceceno, che dall'Afghanistan riceveva
basi, addestramento ed armi, e più in generale il fondamentalismo
islamico che imperversa un po' in tutti gli stati dell'Asia
centrale. Tra la repubbliche ex sovietiche, l'Uzbekistan è quello
che più ha da guadagnare: avendo offerto basi per operazioni
militari agli Usa, le ricadute economiche in forma d'aiuti saranno
cospicue; inoltre, la stabilizzazione dell’Afghanistan consentirà
una lotta più adeguata al narcotraffico che in Uzbekistan, luogo
di consumo e non solo di passaggio, sta creando danni sociali
ingenti e nuove forme di destabilizzazione politica.
Destabilizzazione causata dal consumo di droga, in questo caso di
oppio, comune anche alla Cina e al Pakistan, che proprio per
interromperne il flusso hanno appoggiato l'Alleanza del Nord in
funzione antitalebana. A proposito di equilibri della regione, non
va sottovalutato un fatto cruciale, di portata storica: gli Stati
Uniti, con le operazioni militari, entrano per la prima volta in
una regione dove non erano mai stati, in cui avevano sempre agito
per stati interposti, principalmente Pakistan e Turchia. Tutto sta
ora a sapere se ci rimarranno, e con quali obiettivi.
Riguardo al Pakistan, lo stato maggiormente
coinvolto nella crisi afgana, quali sono i rischi che nel paese
abbiano il sopravvento le forze della destabilizzazione?
Il precedente governo di Sharif ha convintamente e concretamente
sostenuto i talebani: militarmente, diplomaticamente,
economicamente. L'obiettivo era quello di unificare l'Afghanistan
sotto un governo forte, che portasse stabilità: ma il progetto è
fallito. Con l'assunzione del potere da parte del generale
Musharraf, il 12 ottobre 1999, c'è stato un ripensamento
complessivo della politica del Pakistan: interna, con la lotta
alla corruzione generalizzata; esterna, con il tentativo di
normalizzazione in Afghanistan e Kashmir, fonti di insostenibili
spese. Ne sono evidente testimonianza i colloqui in luglio con
l'India ed il tentativo di accordo tra le fazioni in lotta in
Afghanistan, fallito solo per l'assassinio del comandante Massud.
L'11 settembre, pero', rimette tutto in discussione. Con la
concessione di basi logistiche agli Usa che causa malcontento
popolare, diviene imperativo per il Pakistan un controllo fermo ed
attento soprattutto delle militanze islamiche attive nelle zone
montagnose a cavallo con l'Afghanistan, che da sempre sfuggono al
potere centrale. Controllo fermo ed attento che, fino ad adesso,
ha dato i frutti sperati.
Quale ruolo potranno giocare, secondo lei,
le forme istituzionalizzate di collaborazione regionale, come il
Gruppo di Shangai e l'Eco?
In realtà, queste organizzazioni hanno svolto finora un ruolo
meramente formale, al livello di dichiarazioni d'intenti e carte
programmatiche. Sono forme di collaborazione del tutto superate
dal ruolo politico svolto dagli Stati Uniti e dai presumibili
aiuti economici del Fondo monetario e della Banca Mondiale.
Professoressa Piacentini, a suo avviso in
base a quali principi politico-istituzionali occorre ricostruire
l'Afghanistan? E ritiene credibile il tentativo di
riorganizzazione statuale attorno alla figura di Zahir Shah?
La ricostruzione non è pensabile senza un quadro generale politico
ed istituzionale che sappia risolvere due fondamentali problemi:
primo, quello del rispetto delle istituzioni tradizionali
dell'Afghanistan; secondo, quello dell'equa rappresentanza dei
gruppi etno-culturali. L'Alleanza del Nord, infatti, è una
coalizione di tagiki, uzbeki ed hazari che non rappresenta la
totalità del popolo afgano, che non comprende l'etnia dominante
dei Pashtun. In questo contesto, Zahir Shah ha un ruolo importante
da svolgere, quello appunto di simbolo in grado di tenere unite le
diverse componenti etniche dell'Afghanistan. Ha sicuramente
carisma, ma purtroppo ha anche un'età decisamente avanzata, 87
anni. Con la sua morte, si aprirebbe una nuova lotta di tutti
contro tutti per il potere, mentre l'Afghanistan ha bisogno di una
soluzione di medio-lungo periodo. D'altra parte, lo stesso Zahir
Shah non è stato in grado di tenere insieme la coalizione che
governava l'Afghanistan, e la sua destituzione con un colpo di
stato nel 1973 è stata la diretta conseguenza di questo suo
fallimento politico.
Per finire, secondo lei è indispensabile che
esista un Afghanistan indipendente? O non sarebbe forse meglio uno
smembramento, una fusione col Pakistan, una spartizione tra i vari
stati della regione?
L'idea di fusione col Pakistan è assolutamente da scartare, perché
creerebbe degli insostenibili squilibri interni di carattere
etnico e probabilmente porterebbe al crollo del Pakistan come
entità statuale. Una spartizione sarebbe altrettanto pericolosa,
malvista da Cina e India che importerebbero stabilità e dall'Iran,
visto che nella sua porzione rientrerebbero popolazioni persofone
ma sunnite, poco gradite agli sciiti iraniani. Una spartizione
soprattutto assolutamente inaccettabile per le popolazioni che
popolano l'Afghanistan, che verrebbero inglobate in formazioni
politico-istituzionali a loro del tutto estranee. Le conseguenze
potrebbero essere devastanti: radicalizzazione ed esportazione del
fattore Islam, effetti domino, probabili ritorsioni genocidarie.
La suddivisione dell'Afghanistan in 3 o 4 stati indipendenti,
invece, non è da scartare a priori: ma meglio sarebbe che in
questa soluzione fosse implicita una convergenza confederale,
concetto ben presente nel pensiero politico-istituzionale
occidentale, ma anche in quello tradizionale afgano, che sulle
confederazioni tribali ha sempre costruito la sua seppur
momentanea stabilità.
1 novembre
2001
giuse.mancini@libero.it
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