| Si scrive Bloomberg, si legge 
              Giuliani di Stefano da Empoli
 
 Per chi non lo avesse notato, martedì 6 novembre era giorno di 
              elezioni negli Stati Uniti, non solo a New York City ma anche in 
              due stati, Virginia e New Jersey, dove si eleggeva il governatore, 
              e in altre grandi città, come Miami, Atlanta, Houston e Seattle, 
              dove si rinnovava la carica di primo cittadino. Se all’estero 
              pochi hanno prestato attenzione, in America è andata poco meglio. 
              L’evento televisivo della serata era senza dubbio la prima puntata 
              di “24”, il serial più atteso dell’anno, che prometteva suspense 
              senza precedenti. Proprio quella che mancava totalmente a queste 
              elezioni, almeno fino a quando non è sceso in campo Rudolph 
              Giuliani. Fino a pochi giorni prima del voto ci si aspettava una 
              larga affermazione dei democratici a New York, nel New Jersey ed 
              in Virginia. Se le ultime due previsioni hanno trovato conferma 
              nel responso delle urne, quella che riguardava New York è stata 
              clamorosamente smentita. Pensare che delle tre era forse quella 
              più sicura fino a meno di due settimane dal voto. Secondo un 
              sondaggio risalente al 24 ottobre, il candidato repubblicano, il 
              multimiliardario Michael Bloomberg, aveva sedici punti di 
              svantaggio sul suo rivale democratico, Mark Green, da otto anni 
              difensore civico di New York e politico di professione. Per 
              chiudere il divario, Bloomberg si era inutilmente dissanguato (per 
              modo di dire, visto che il suo patrimonio personale ammonta a 4 
              miliardi di dollari). Fino ad allora era servito a poco o a nulla, 
              a dimostrazione che i soldi in politica aiutano solo fino ad un 
              certo punto se dietro non c’è un messaggio vincente. Più del conto 
              in banca ha potuto Rudolph Giuliani, sindaco uscente ed icona 
              vivente dell’America che ha reagito dopo l’11 settembre. Ad una 
              settimana dal voto, Giuliani ha cominciato a sostenere apertamente 
              Bloomberg. Appoggio culminato in un pranzo davanti a fotografi e 
              cameramen in un ristorante di Little Italy, alla vigilia 
              dell’election day. Ma soprattutto in spot televisivi in cui 
              Giuliani notava come l’esperienza imprenditoriale di Bloomberg 
              fosse il viatico migliore per una veloce e completa ricostruzione 
              della città. Sia pure per interposta persona, Bloomberg ha 
              finalmente bucato il video, venendo alla fine eletto con uno 
              scarto di poco più di quarantamila voti su Green.
 
 Se a Giuliani è riuscito il miracolo a New York, non altrettanto 
              bene è andata in Virginia, dove lo spot che lo ritraeva prodigo di 
              elogi al candidato repubblicano nulla ha potuto per evitare a Mark 
              Earley la sconfitta. Ampiamente preventivata, tanto che da 
              settimane i repubblicani si preoccupavano di far sapere in giro 
              che una eventuale sconfitta avrebbe dovuto essere attribuita più a 
              fattori locali che ad una inesistente onda democratica in arrivo. 
              Ottima analisi di ciò che si è poi puntualmente verificato sia nel 
              New Jersey sia in Virginia. Peccato però che quei fattori locali 
              consistessero in gran parte in divisioni all’interno del Grand Old 
              Party. In Virginia, Mark Warner, candidato democratico, ha avuto 
              buon gioco ad avvantaggiarsi dei dissidi profondi scoppiati in 
              primavera tra il governatore repubblicano e il parlamento locale, 
              a maggioranza repubblicana. Tema del contendere: l’approvazione 
              del bilancio, con una ripetizione in scala minore del dissidio che 
              divise la Casa Bianca e il Congresso nel 1995. Che anche allora 
              fece molto male elettoralmente ai repubblicani ma che, a 
              differenza di quello odierno, era giustificato dal diverso colore 
              politico dei litiganti.
 
 Nel New Jersey, il Gop ha fatto anche di peggio. Il governatore 
              repubblicano pro-tempore Donald Di Francesco si è rifiutato di 
              appoggiare il candidato repubblicano Bret Schundler, dopo che 
              questi all’inizio dell’anno aveva censurato la sua condotta etica, 
              stroncandone le ambizioni politiche. La macchina locale 
              repubblicana ha perfino rinviato le primarie di tre settimane per 
              aumentare le chances di vittoria del candidato alternativo a 
              Schundler. Che, una volta vinto il confronto interno al partito 
              repubblicano, non ha comunque sfigurato nelle elezioni generali, 
              se si considera che nel novembre scorso Bush ottenne nel New 
              Jersey la stessa percentuale di consensi, fermandosi al 42 per 
              cento. Non sembra quindi che in queste elezioni si possano 
              dichiarare chiari vincitori e sconfitti tra i candidati in corsa 
              né tra i partiti che li hanno sostenuti. Bloomberg, McGreevy, 
              vincitore nel New Jersey, e Warner sono tutti e tre dei moderati, 
              che hanno vinto più grazie agli errori degli avversari e alle 
              circostanze locali che grazie ai loro meriti personali. Se però si 
              vuole trovare un vincitore virtuale, allora questo non può che 
              essere Rudy Giuliani. Si dice che Bill Clinton, al contrario della 
              moglie, sia nel cuore dei newyorchesi. L’ex-presidente e Giuliani 
              hanno condotto nell’ultima settimana una campagna elettorale 
              parallela, a fianco di Green e Bloomberg. Una sfida a distanza 
              senza storia. Che smentisce ancora una volta gli ammiratori di 
              Clinton.
 
 9 novembre
              2001
 
 sdaempol@gmu.edu
  
              
              
 
 
 
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