| Maometto e la rivoluzione: ipotesi sui 
              conflitti futuri di Stefano Magni
 
 E’ sempre più frammentato il dibattito sulla “radice” del problema 
              che ci affligge in questi mesi: il terrorismo islamico. Vecchie 
              teorie marxiane sulla disparità del benessere nel pianeta sembrano 
              prendere piede ovunque, anche al di fuori degli ambienti della 
              sinistra extraparlamentare e di quei governi che hanno fatto del 
              terzomondismo la loro bandiera già da decenni. La richiesta di un 
              intervento economico più deciso per sostenere i “poveri del 
              mondo”, accompagnata dall’istanza sempre più universalmente 
              accettata di risolvere la questione palestinese, è diventata il 
              mainstream di tutte le diplomazie occidentali ed europee in 
              particolare.
 
 A partire dalla nascita del problema del radicalismo islamico, 
              tuttavia, si può rintracciare un’altra lettura generale della 
              questione da cui è possibile ancora trarre lezioni interessanti. A 
              prescindere dalla lettura dello scontro di civiltà, troppo di 
              lungo periodo per poter suggerire azioni di breve-medio termine, 
              in contrapposizione alla tesi delle disparità di benessere e dei 
              conflitti irrisolti, i neoconservatori americani, alcune branche 
              del libertarismo d’oltre-oceano (gli “oggettivisti” seguaci di Ayn 
              Rand) e buona parte degli opinion-leader israeliani, propongono 
              un’altra chiave di lettura: quella secondo cui ci troviamo di 
              fronte al sorgere di una nuova potenza rivoluzionaria tesa ad 
              esportare la sua rivoluzione nel mondo. Una potenza rivoluzionaria 
              che non è mossa tanto da motivi esogeni (la politica militare 
              americana e israeliana nel Medio Oriente, sfruttamento economico 
              ed embarghi) quanto da cause endogene: la fede in un islamismo 
              radicale e rivoluzionario, l’opposizione ai regimi attualmente al 
              potere, il progetto di lungo periodo di esportare l’islamismo 
              radicale anche in Occidente. Contrariamente alle potenze 
              rivoluzionarie del passato, come la Germania nazista e l’Urss, 
              questa non ha un unico centro direttivo e non si identifica con un 
              unico stato, ma è costituita pur sempre da regimi radicali 
              tacitamente alleati fra loro: le reti terroristiche di cui tanto 
              si parla sono costituite e foraggiate da questi stessi regimi. Il 
              comportamento di questa nuova potenza rivoluzionaria sarebbe 
              comunque “classico” nel suo genere: uso spregiudicato della 
              diplomazia per coprire una politica estera segreta espansionista, 
              uso del compromesso solo per attendere rapporti di forza più 
              favorevoli, non rispetto dei patti.
 
 Curioso il fatto che questa analisi del radicalismo islamico come 
              nuova potenza rivoluzionaria, nel passato recente degli anni 
              Ottanta, fosse comune sia al premier Thatcher che ai vertici 
              sovietici. Gli studi di Primakov, maggior esperto sovietico nel 
              Medio Oriente, vedevano nella rivoluzione iraniana del 1979 un 
              evento positivo. L’islamismo radicale veniva assimilato dai 
              sovietici al nazionalismo delle ex colonie europee in Asia e in 
              Africa: un movimento rivoluzionario che poteva essere considerato 
              come alleato, sia per il suo forte anti-occidentalismo militante, 
              sia per la sua visione dell’economia radicalmente antitetica allo 
              stesso sistema di libero mercato. Dall’altra parte della cortina 
              di ferro, specularmente, Margareth Thatcher vedeva nella prima 
              manifestazione del radicalismo islamico, il sorgere di un nuovo 
              grande nemico dell’Occidente, di una nuova potenza rivoluzionaria, 
              appunto, con cui non era possibile il dialogo.
 
 Oggi coloro che vedono questa crisi ancora attraverso queste 
              lenti, si oppongono radicalmente a come viene condotta la guerra 
              dai vertici americani. Il problema, si dice, non si può risolvere 
              pacificando i conflitti locali, né, tantomeno, diminuendo la 
              presenza occidentale nel Medio Oriente. In questo modo non si può 
              che garantire loro una prima grande vittoria, permettendogli di 
              passare alle fasi successive della grande strategia. I nemici 
              veri, in quest’ottica, non sono i bin Laden e la rete Al Qaeda: 
              quelli non sono che bravi esecutori di menti che si trovano nei 
              palazzi del potere di Tehran, Damasco, Baghdad, Karthoum e anche 
              in alcuni palazzi di Islamabad, Il Cairo e Rijad. La soluzione del 
              problema alla radice, dunque, non si troverebbe nello stroncare il 
              terrorismo, né nella risoluzione pacifica dei conflitti locali, né 
              nell’aumento del benessere locale. La soluzione si troverebbe 
              nella fine di questi regimi.
 
 16 novembre 2001
 
 stefano.magni@fastweb.it
  
              
              
 
 
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