| Ai terroristi processi militari. Così 
              l’America si vuol blindare di Stefano da Empoli
 
 Negli Stati Uniti è tempo di Thanksgiving ma in questi giorni poco 
              hanno da ringraziare i discendenti dei padri pellegrini, ai quali 
              si deve la più tradizionale delle feste americane ma anche la 
              prima appassionata difesa di quei valori di libertà così radicati 
              nella società americana. In un crescendo di attacchi sempre più 
              vigorosi ai diritti civili, l’amministrazione Bush sta alzando il 
              tiro della guerra giudiziaria al terrorismo. Che dopo l’11 
              settembre qualcosa dovesse cambiare nell’ordinamento giuridico 
              statunitense era da mettere in conto. Quello che ha fatto 
              traboccare un vaso già quasi colmo è stata però la decisione di 
              Bush di prevedere processi militari per i presunti terroristi 
              arrestati nel corso delle indagini, laddove il presidente degli 
              Stati Uniti lo ritenga oppurtuno. A prima vista, il provvedimento 
              è coerente con la ferma convinzione dell’amministrazione americana 
              che si stia combattendo una vera e propria guerra contro il 
              terrorismo. Se di guerra si tratta, bisogna tirarne le 
              conseguenze, sembrano dire alla Casa Bianca e al Pentagono.
 
 Un discorso che in apparenza non fa una grinza ma che nella 
              sostanza aumenta esponenzialmente la probabilità e gli effetti di 
              errori giudiziari. E’ vero che combattiamo contro un nemico 
              spietato come il nazismo ma, come viene riconosciuto da tutti, 
              questo nemico ha delle caratteristiche del tutto peculiari. Dopo 
              la seconda guerra mondiale si trattava di disquisire sulle 
              responsabilità personali di esponenti riconosciuti del governo 
              tedesco o di quello giapponese. Oggi si tratta di stabilire in 
              primo luogo se gli imputati appartengano o meno al campo nemico. 
              Con una possibilità più che concreta di prendere lucciole per 
              lanterne. Dei mille e più sospettati di terrorismo incarcerati 
              negli Usa dall’11 settembre ad oggi, pochissimi hanno collegamenti 
              certi con bin Laden e la sua organizzazione. Sarebbe un fatto 
              grave se molti dei detenuti risultassero alla prova dei fatti 
              innocenti. Ma almeno il danno di una detenzione ingiusta rimane 
              limitato, qualora sia riconosciuto tempestivamente. Non è detto 
              però che questo accada in un processo le cui regole sono stabilite 
              ex novo dal segretario alla Difesa. Il quale decide la 
              composizione del panel giudicante, la soglia probatoria necessaria 
              a condannare l’individuo processato nonchè il tipo di evidenza che 
              può essere usata dall’accusa. Solo il presidente e lo stesso 
              segretario alla Difesa sono titolati a ribaltare la sentenza 
              emessa in primo grado dalla corte militare.
 
 Gli elementi inquietanti del provvedimento di Bush non finiscono 
              qui. Per condannare a morte un imputato basta il voto favorevole 
              di due terzi dei membri della corte, contro l’unanimità prevista 
              attualmente dal codice militare statunitense. Che è molto più 
              garantista della versione aggiornata e rivista dalla Casa Bianca. 
              La quale ne estende l’applicazione a tutti i reati compiuti da 
              individui imputati di atti di terrorismo. In poche parole, se uno 
              è accusato di una rapina e marginalmente è indiziato di 
              collegamenti con qualche organizzazione terroristica, potrebbe 
              essere giudicato per il primo capo d’imputazione in segreto da una 
              corte militare, privato dei più elementari diritti di difesa. A 
              questo si aggiunge il progetto, svelato dal Washington Post, di 
              procedere contro i presunti terroristi nella giurisdizione della 
              Virginia (dove ha sede il Pentagono) e non a New York. In modo 
              tale che, anche qualora gli imputati riescano a ricorrere con 
              successo contro le modalità del processo, si troverebbero di 
              fronte le autorità giudiziarie civili più dure degli Stati Uniti. 
              Di uno stato dove solo il 15 per cento delle condanne a morte 
              comminate in primo grado vengono respinte in appello, contro il 40 
              per cento della media nazionale.
 
 E’ lecito e moralmente giusto punire con severità chi si è 
              macchiato di crimini inumani come quelli dell’11 settembre e chi 
              ha voglia di concedere il bis. Prima, però, occorre stabilirne la 
              colpevolezza e, per farlo, un processo giusto è l’unico strumento 
              in grado di prevenire con efficacia possibili errori giudiziari.
 
 23 novembre 2001
 
 sdaempol@gmu.edu
  
              
              
 
 
 
 |