L'Islam, l'Italia e la guerra
colloquio con Dario Rivolta di Giuseppe Sacco
L'onorevole Dario Rivolta, vicepresidente della Commissione Esteri
della Camera dei Deputati, ha accumulato, prima di entrare in
politica, una ricca esperienza sia in materia internazionale che
sui problemi dell'immigrazione. Tra l'altro conosce bene il mondo
islamico per aver vissuto e lavorato in Algeria in un'epoca in cui
la vita politica e sociale di quel paese non era ancora stata
sconvolta dall'estremismo religioso. La presidenza
dell'Associazione di Amicizia Italia-Libano gli dà inoltre una
prospettiva privilegiata sulle drammatiche questioni
mediorientali. Questa conversazione è quindi dapprima focalizzata
sui problemi dell'immigrazione islamica alla luce degli eventi
degli ultimi due mesi, e poi sui problemi più specificamente
internazionali e di difesa.
A suo avviso, negli ambienti dell'Italia del
Nord, nel cuore industriale d'Italia, quale preoccupazione è
prevalente? Quella per eventuali atti di terrorismo che
coinvolgano anche l'Italia, o quella per un possibile
peggioramento dei nostri rapporti col Medio Oriente, che è molto
importante per l'economia italiana, e non solo come fornitore di
energia?
Allo stato attuale, non vedo seri problemi con i fornitori di
energia. E ciò sia per una rete di buoni rapporti che l'Italia ha
stabilito da lungo tempo, sia per le iniziative recenti, che
tendono a consolidare tali rapporti. Inoltre non bisogna
dimenticare le diversificazioni delle fonti da tempo instaurate.
Per ciò che riguarda i rapporti col Medio Oriente mi pare che la
lotta in atto è contro il terrorismo e non contro i Musulmani.
Anche l'Amministrazione Bush, del resto, fa grande attenzione a
rendere tutto ciò chiaro. Si vede, me lo lasci dire en passant,
una differenza di stile diplomatico rispetto all'epoca della
Signora Albright. Qualche preoccupazione per il clima bellico
comunque c'è, e sarebbe strano che non ci fosse. Anche la minaccia
batteriologica qualche allarme lo desta, ma non c'è vero
allarmismo, e in realtà mi sembra che si possa escludere un serio
pericolo. L'Italia - come è noto - può difficilmente essere un
obiettivo, sia per quella tradizione di rapporti cui accennavo
prima, sia perché siamo piuttosto marginali, almeno in questa
crisi.
Ritiene che il clima internazionale creato
dalla guerra afgana possa creare problemi con gli immigrati, di
cui l'economia italiana ha bisogno?
Alcuni problemi con l'immigrazione li abbiamo già. Non sono gravi
come in altri paesi, ma li abbiamo. Va comunque notato che in
Italia esiste una domanda di immigrazione proveniente dal settore
artigiano e industriale: anche se possiamo avere qualche problema
a breve termine, nel medio e lungo termine le conflittualità
naturali dovrebbero attutirsi. Il clima internazionale aumenta la
diffidenza nei confronti dello straniero, soprattutto se arabo, ma
non credo si possa arrivare ad un vero stato di tensione.
Ritiene che i coinvolgimenti col terrorismo,
che l'indagine sulla moschea di Milano sta mettendo in luce, non
avranno conseguenze serie?
Esiste una differenza che va sempre tenuta presente tra persone di
religione e cultura islamica e coloro che hanno fatto la scelta
politica del terrorismo invocando l'Islam come un alibi. Se
accettassimo di considerare ogni musulmano un potenziale
terrorista, visto ciò che succede in Irlanda del Nord, dovremmo
ugualmente considerare potenziali attentatori tutti i cristiani o
almeno quelli irlandesi. Io vorrei comunque sottolineare che per
tanti motivi - posizione geografica, carattere aperto della
società - l'Italia è sempre stata utilizzata come base logistica o
via di passaggio per i terroristi, ma questi non hanno mai messo
veramente radici nella società. Certo, se le indagini dovessero
dimostrare una infiltrazione vera dei terroristi tra la
popolazione di religione islamica nel nostro paese, la prospettiva
cambierebbe. Però su tale ipotesi non si è ancora appreso molto.
Quanto ai rischi che provengono dall'opinione pubblica, in
generale, c'è la possibilità che qualche esagitato porti ad una
radicalizzazione. Quando si incontrano sullo stesso territorio
culture diverse, con gruppi sufficientemente numerosi per
autopercepirsi come una comunità, è naturale che si corra il
rischio di una contrapposizione "noi-loro". Una società sana e
forte è quella che riesce ad integrare i "diversi", impedendo o
riducendo nel tempo la possibilità di una contrapposizione.
Radicalizzare e sottolineare le differenze rende più difficile il
fenomeno dell'integrazione e aumenta il rischio dei conflitti
sociali. E' auspicabile che nel "durante" del conflitto in
Afghanistan si attui nei fatti una politica dell'immigrazione che
riduca, almeno temporaneamente, i flussi di nuovi arrivi. Ma va
fatto con strumenti discreti. E' inoltre auspicabile che si aiuti
ad allentare le potenziali tensioni attraverso una politica più
dura nei confronti della clandestinità, così dando la sensazione a
tutti che il fenomeno è sotto controllo. D'altra parte il
clandestino proprio per la sua condizione è quello che ha meno
chance di integrazione, e quindi anche se pieno di buona volontà,
rappresenta un fattore di instabilità e di rischio.
Non ritiene quindi che potrebbe essere più
prudente per l'Italia riorientare la propria politica migratoria
cercando di incoraggiare più l'immigrazione proveniente
dall'Europa dell'Est che dal Terzo Mondo?
Da gran parte dell'Europa centrale, man mano che andrà avanti il
processo di allargamento, diventerà possibile trasferirsi in
Italia su una base legale completamente diversa da quella
destinata a regolamentare l'immigrazione degli extracomunitari. E
poi, vorrei aggiungere che incentivare oggi l'immigrazione dai
paesi dell'Europa centrale danneggerebbe fortemente, privandoli
dei loro elementi più attivi e più istruiti, questi paesi che noi
vogliamo invece integrare in blocco nell'Europa. Io non credo
insomma che esista un'alternativa tra immigrazione proveniente
dall'Est e immigrazione proveniente dal Sud. Non è così che
dobbiamo affrontare il problema dell'immigrazione. Dobbiamo
affrontarlo migliorando il processo d'integrazione. Ma in questo
campo, però, vedo che le cose non vanno come dovrebbero. Non vedo
cioè sostanziali miglioramenti.
Venendo ai problemi posti dalla guerra
afghana e dalla sua rapida evoluzione, ci può dire la sua opinione
sulla natura del nostro contributo all'impegno occidentale in
quell'area?
La natura del nostro contributo non può che dipendere dalle
risorse che abbiamo disponibili. Al momento attuale, la prima fase
della guerra sembra giunta a conclusione e si profila una fase due
che consiste nel ristabilire la legge e l'ordine nel paese. Ci
sarà poi la terza fase quella della ricostruzione, in cui noi
potremmo impegnarci di più. Ma in realtà non sappiamo quando
questa potrà avere inizio, dato che essa richiede una vera
pacificazione. Anche la natura di questo impegno è ancora poco
chiara, ma è facile prevedere che sarà anche quello un momento
pericoloso. La presenza italiana potrà perciò coinvolgere solo dei
professionisti. Il nostro problema, che è quello della nostra
Difesa, è che con questo ultimo impegno, abbiamo dato fondo alla
nostre reali possibilità di intervento sulla scena mondiale. Non
esistono né mezzi né uomini preparati da poter essere utilizzati
in caso di nuove crisi o per incrementare la nostra presenza ove
già esistente. E' necessario che si rilanci l'appetibilità
dell'arruolamento nelle forze armate per veri professionisti
attraverso incentivi sugli stipendi e le carriere, ma soprattutto
è necessaria, una politica di adeguamento e modernizzazione delle
nostre tecnologie anche non immediatamente legate agli armamenti.
Va bene avere meno militari, vista l'abolizione del servizio di
leva, ma quelli che ci sono devono essere tutti ai massimi livelli
e l'esercito non può essere un ripiego per i disoccupati.
Non vede quindi ostacoli di ordine
politico-internazionale all'impegno italiano per sanare le
situazioni che hanno reso possibile il regime talebano in
Afghanistan?
Ogni considerazione di ordine politico-internazionale va fatta
sulla base della constatazione che c'è oggi un accordo preliminare
di fondo tra Usa, Russia e Cina per quel che riguarda l'Asia
centrale. Di questo accordo triangolare vanno dette due cose. In
primo luogo, che esso porta ad una certa emarginazione dell'Europa
di cui anche la politica estera italiana dovrà tenere conto. E in
secondo luogo, che si tratta di una coincidenza d'interessi ancora
troppo recente per vedere se essa ha natura solo
tattico-occasionale, oppure potrebbe stabilizzarsi e diventare una
coincidenza di scelte strategiche. Naturalmente bisogna tenere
conto anche del fatto che tante altre cose stanno cambiando. In
particolare i sistemi di difesa stanno evolvendo in maniera che
altera la natura degli equilibri fra gli Stati. Da ogni parte si è
fatto notare ad esempio che la guerra in corso non può essere
risolta né solo, né principalmente, con mezzi militari, ma che
richiede un enorme contributo dei mezzi d'informazione. Ma questo
non è che uno degli aspetti dei cambiamenti nella tecnologia
militare che incidono profondamente sui modi e sui vincoli della
politica internazionale. L'11 settembre ad esempio, avrebbe potuto
succedere quel che è successo anche se fosse stato già attivo lo
Scudo Spaziale di cui si è molto parlato negli ultimi mesi. Ciò
implica che, se prima di quella data l'esistenza dello scudo
avrebbe marcato una inviolabile barriera tra i paesi che lo
gestivano e gli altri, questa barriera oggi, non esiste più perché
anche un piccolo stato, senza ricorrere a vettori spaziali o
missili, può essere ugualmente pericoloso e letale. In altre
parole gli attentatori dell'11 settembre non hanno solo dimostrato
che lo Scudo Spaziale non sarebbe bastato a garantire
l'invulnerabilità americana, ma hanno rimescolato le carte dei
metodi di gerarchizzazione tra soggetti politici internazionali.
Oggi, in un certo senso siamo tutti più uguali. Ma nessuno ha
ancora analizzato a fondo queste conseguenze.
Ma l'attacco alle Torri Gemelle ha fatto
anche emergere e dimostrato la potenza di un soggetto
non-statuale. Per due mesi abbiamo visto tutti i media presentare
una guerra che si svolgeva tra un uomo solo e un'alleanza che
comprendeva tutti gli stati del mondo.
Alcune forme di guerra si sono dimostrate accessibili a basso
costo finanziario e organizzativo, e quindi parzialmente
accessibili a organizzazioni non governative, come è in un certo
senso quella capeggiata da bin Laden. Ma per altre forme di guerra
si resta sempre a livello degli stati, cioè non sono possibili se
non con l'impegno diretto o almeno col sostegno clandestino di
organizzazioni statuali. Tutto un altro discorso degno di un
approfondimento riguarda le forme di aggressione non
immediatamente violente che comunque fanno parte di una guerra
futura: attacchi di hakers ai sistemi informativi strategici,
crisi finanziarie provocate volontariamente, cataclismi naturali
indotti, attacchi biologici. Compito di una difesa futura è di
cominciare a considerare questi come rischi bellici. In altre
parole, chi vuole intendere intenda, per poter monitorare questi
rischi occorrerà scegliere, il più democraticamente possibile, se
si vorrà privilegiare la sicurezza o la libertà.
Questo per quello che riguarda la guerra. Ma
per quanto riguarda la pace, è possibile fare a meno degli stati?
Non credo. Anche nella guerra contro i Talebani e la
organizzazione di bin Laden, che è appunto una guerra che presenta
molte di queste caratteristiche "nuove", il ruolo degli stati sarà
indispensabile per concludere una pace. E del resto già si è
delineato un raggruppamento dei paesi confinanti, più Russia e
America, per negoziare una pace stabile, non comunque facile, in
Afghanistan. E' molto importante che di questo gruppo di paesi
faccia parte anche l'Iran, che è una potenza regionale che potrà
probabilmente svolgere una funzione assai positiva in questa
ambigua situazione in cui la guerra è contemporaneamente tra
stati, tra tribù e tra sette religiose. Il fatto che l'Iran sia
una repubblica islamica nata dalla rivoluzione che vent'anni fa ha
molto spaventato l'Occidente, non deve trarre in inganno. Il
presidente iraniano Khatami non rinuncia certo né a un ruolo guida
nell'Islam, né a sfruttare i punti deboli dell'Occidente per
cercare di giungere ad un ordine mondiale meno squilibrato.
Tuttavia egli è sostanzialmente un nazionalista riformatore,
certamente più disponibile al dialogo con noi degli integralisti
sciiti del suo paese.
23 novembre 2001
saccogi@hotmail.com
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