| Con i talebani in rotta pure i pacifisti di Paolo Zanetto
 
 Per indovinare il futuro guardiamo al passato. Non possiamo fare 
              altro: in attesa degli sviluppi della guerra in Afghanistan 
              ripensiamo ai conflitti più o meno recenti, cercando parallelismi. 
              Il segretario alla Difesa Usa, Donald Rumsfeld, ha 
              involontariamente suggerito un paragone inquietante quando, in 
              conferenza stampa, ha sbottato: "Questa guerra non è una palude". 
              Il ricordo del Vietnam è bastato a far vacillare la speranza di 
              molti. Non tanto in America, unita come non mai dal ricordo 
              dell'11 settembre, fortificata dagli opinion leader: il re del 
              talk show spazzatura, Geraldo Rivera, saluta i suoi spettatori con 
              l'ammonimento "do not forget". In Europa, invece, il riferimento 
              al Vietnam è stato uno spunto che ha riportato la mente dei soliti 
              noti al "formidabile '68", e qualcuno è caduto nella tentazione di 
              rispolverare i vecchi slogan. Ma in questo caso non si 
              applicavano, non servivano. Perché il paragone con il Vietnam non 
              c'entra.
 
 Rispetto all'incertezza di pochi giorni fa, adesso siamo più 
              sereni: Kabul è liberata, i bambini tornano a far volare gli 
              aquiloni, le donne a girare senza burqa né veli. La festa nella 
              capitale afgana, tra musica moderna e incertezza sul futuro, non 
              ha nulla a che vedere con gli scontri nel sud-est asiatico o in 
              Irak: sembra piuttosto Parigi nel '44, sembra un momento di 
              liberazione, di quella religione civile su cui la sinistra europea 
              ha costruito un intero impianto retorico e ideologico. C'è chi lo 
              riconosce e si comporta coerentemente: è il caso dei riformisti, 
              vecchi e nuovi. E' il caso di chi conosce l'importanza di tre 
              elementi inscindibili - pace, giustizia e libertà - e della 
              necessità di combattere nel loro nome. Il pacifismo politically 
              correct di chi mostra i cartelli "not in my name" dimostra, 
              davanti alle immagini della libertà tornata per le strade, tutto 
              il suo valore: zero. Sono gli slogan di chi non ha imparato dalla 
              Storia, di chi fa finta di non capire, del pacifismo codardo che 
              genera le guerre, quelle vere.
 
 L'unico paragone forte di questi giorni è con la fine anni Trenta, 
              ai tempi della Germania di Adolf Hitler. Joseph Kennedy, il 
              capostipite della dinastia reale americana, era allora 
              ambasciatore americano a Londra. Fu lui a convincere il primo 
              ministro britannico, Neville Chamberlain, a sottoscrivere gli 
              accordi di Monaco con Hitler e Mussolini. Fu lui il teorico 
              dell'appeasement, della pace a ogni costo. Il risultato fu la 
              caduta della Cecoslovacchia. E poi la Polonia. E poi la seconda 
              guerra mondiale. Ma papà Kennedy non rinnegò mai le proprie tesi: 
              d'altra parte, come era solito dire, c'è abbastanza spazio al 
              mondo per la coesistenza di democrazie e dittature. Il vecchio Joe 
              fece addirittura pubblicare un libro a suo figlio, quel tale JFK 
              che divenne poi leggenda per i "figli dei fiori" pacifisti, in 
              difesa dei suoi consigli "per la pace" in quei giorni. Ma non c'è 
              libro che possa difendere quel pensiero. Roosevelt lo capì 
              benissimo: decise infatti di richiamare in patria Kennedy padre e 
              di trovare un'intesa ben diversa con il nuovo premier, Winston 
              Churchill.
 
 Piero Fassino, nel tentativo di esprimere il pieno approdo 
              riformista del suo partito, ha citato più volte Roosevelt nel suo 
              discorso a Pesaro. E' stato un riferimento importante: significa 
              rinnegare la retorica pacifista, l'anti-americanismo, gli slogan 
              di tanti anche dentro ai Ds. Peccato che siano ancora troppi a 
              rifarsi al modello Joe Kennedy: un progressista illuminato, un 
              radical-chic d'annata, uno che - se fosse nato in Italia - la sera 
              sarebbe andato a via Veneto. Ma non basta fare le anime belle: 
              l'irresponsabilità sognatrice della minoranza pacifista è 
              piacevole e poetica soltanto grazie alla solida responsabilità 
              della maggioranza. E allora, anche nella sinistra italiana, ai Joe 
              Kennedy di giornali e partiti si contrappongono le persone di buon 
              senso. Sarà poco chic, forse anche fuori moda. Ma il common sense 
              rimane una virtù fondamentale per qualunque politico.
 
 23 novembre 2001
 
 zanetto@tin.it
  
              
              
 
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