Rumsfeld, il nuovo uomo forte di
Washington
di Stefano da Empoli
Kabul era caduta nelle mani dell’alleanza del Nord il giorno
prima. Verso le nove del mattino, le telecamere della Cnn e della
Msnbc indugiano sulle macerie del World Trade Center. Tutto fermo.
Non perché nessuno fosse arrivato sul posto di lavoro. Piuttosto
pompieri e poliziotti, al gran completo, assediavano un visitatore
appena giunto, per chiedergli l’autografo. Un’accoglienza da
rockstar, sibilava un esterrefatto commentatore televisivo. No,
non era una rockstar. Non era neppure il presidente degli Stati
Uniti, in tempi normali l’unica figura politica che in terra
d’America riesca a competere in termini di popolarità con i divi
dello spettacolo e dello sport. Si trattava di Donald Rumsfeld,
sessantanovenne ministro della Difesa. Una visita programmata sui
luoghi dell’attentato alle due Torri Gemelle che è finita per
coincidere con un trionfo. Una delle rare volte in cui la
conferenza stampa con i giornalisti ha visto il padrone di casa,
Rudy Giuliani, ridotto al ruolo di spalla.
La guerra è ancora lunga, dicono all’unisono alla Casa Bianca e al
Pentagono. “Il difficile viene ora” ha affermato Bush mentre i
primi marines mettevano piede in Afghanistan. Non c’ è dubbio però
che Rumsfeld stia fin qui emergendo come il personaggio simbolo
dei successi militari americani. Il suo tono duro e arrogante non
gli aveva garantito molte simpatie prima dell’11 settembre. La sua
ferma volontà di adeguare l’apparato militare statunitense alle
nuove sfide del dopo-Guerra Fredda si era scontrata con una
fortissima resistenza interna al Pentagono. Nei circoli del potere
washingtoniano si mormorava che la prima testa
dell’amministrazione Bush a cadere potesse essere proprio quella
di Rumsfeld. Anche perché è uno dei pochi a non appartenere alla
cerchia ristretta degli amici di famiglia. Tutt’altro. Quando alla
fine degli anni Settanta, dopo essere stato il più giovane
ministro della Difesa della storia americana, Rumsfeld mise nel
mirino la Casa Bianca, incontrò sulla sua stessa strada un
tecnocrate moderato come lui, George Bush senior. Che alla Casa
Bianca non andò ma che perse onorevolmente contro Ronald Reagan,
tanto da meritarsi la vice-presidenza.
Non è un segreto che Rumsfeld non l’abbia presa bene, tanto più
che il suo disprezzo per le qualità intellettuali di Bush padre
era cosa risaputa negli ambienti repubblicani. Fatto sta che
Rumsfeld ripose in un cassetto le sue ambizioni politiche e
ripiegò sul settore privato. Dove negli ultimi due decenni ha
guidato grosse imprese, come la Searle, azienda farmaceutica, e la
General Instrument Corporation, prima a sviluppare la tecnologia
della tv digitale ad alta definizione (Hdtv). Finché non è
arrivato il momento del rientro nella politica, dalla porta
principale, di nuovo al timone del Pentagono. Per ironia della
sorte, nominato dal figlio del suo rivale di ieri, George W. Bush.
Su pressione del suo vice Cheney, che a Rumsfeld, grande talent
scout, deve tutto. Fu il neo-segretario alla Difesa infatti a
portarlo nel lontano 1969 dall’ufficio di un oscuro congressman
del Wisconsin alla Casa Bianca, durante l’amministrazione Nixon,
di cui Rumsfeld dirigeva l’Ufficio per le opportunità economiche.
Fu sempre quest’ultimo a volerlo come suo vice cinque anni più
tardi, quando divenne capo di gabinetto del presidente Ford.
Quando poi passò alla Difesa, toccò a Cheney rimpiazzarlo a soli
trentaquattro anni. Il rapporto era così stretto che, come
racconta David Halberstam nel suo recentissimo saggio “War in Time
of Peace”, Bush senior ci pensò molto prima di nominare Cheney
ministro della Difesa nel 1989 perché per lui “Cheney significava
Rumsfeld”.
Il trentennale sodalizio con il vicepresidente non è stato
comunque l’unico motivo dietro l’inaspettata nomina di Bush. Oltre
a garantire esperienza, Rumsfeld aveva guidato nel biennio 1998-99
la “Commissione per la minaccia missilistica agli Stati Uniti”.
Che aveva concluso i lavori suggerendo l’adozione di uno scudo
spaziale. Un progetto centrale nella politica della difesa del
neo-presidente americano. Ora che è diventato di fatto ministro
della Guerra, Rumsfeld sta riscuotendo successo anche tra i
critici di pochi mesi fa. Le sue conferenze stampa sono giudicate
di gran lunga le migliori tra quelle offerte dall’amministrazione
Bush. La consegna del silenzio impedisce a Rumsfeld di entrare nei
dettagli delle operazioni militari. Ma ciò non si traduce in noia
e grigiore. Grazie al suo stile preciso e secco, intercalato da
uno humor brutale, che fa la gioia dei giornalisti e del pubblico
a casa. Se poi vince pure le guerre, Rumsfeld si candida
seriamente ad un trattamento da rock star. Classe 1932. Per la
serie non è mai troppo tardi.
29 novembre 2001
sdaempol@gmu.edu
|