| Il “ground zero” di Israele di Stefano da Empoli
 
 Gerusalemme come New York. Città unite da una folle scia di morte. 
              Dopo lungo tergiversare, questa identità ha trovato finalmente 
              posto nelle affollate lavagne della Casa Bianca e del Dipartimento 
              di Stato. Che, negli ultimi mesi, sono state riempite da formule 
              di ogni tipo, spesso l’una di segno opposto all’altra. Ci hanno 
              pensato le bombe che hanno insanguinato ad inizio dicembre strade 
              e piazze israeliane a mettere la parola fine ai contorsionismi di 
              Washington. Sempre più schiacciata contro un vero e proprio 
              dilemma. Se, dopo gli attacchi dell’11 settembre, il cuore 
              suggeriva una più profonda immedesimazione nella psicologia del 
              terrore nella quale vive il popolo di Israele, la testa spingeva 
              ad incalzare il governo Sharon sulla via della pace. Così da poter 
              incassare un appoggio più convinto dei paesi arabi nella lotta 
              contro bin Laden e soci. Come spesso accade, le ragioni del cuore 
              e quelle del cervello non potevano essere più distanti, almeno in 
              apparenza. Perché poi, in una strategia di più ampio respiro, 
              l’adozione di due standard diversi per valutare organizzazioni in 
              tutto e per tutto simili come Al-Qaeda e Hamas finisce per 
              spuntare l’efficacia della retorica anti-terroristica degli Stati 
              Uniti. A cui non è mai piaciuto barcamenarsi in sottili 
              distinzioni e fragili sofismi per giustificare la propria politica 
              estera. A Washington, il fine può giustificare i mezzi solo nella 
              misura in cui i due piani siano chiaramente distinguibili. Cosa ci 
              sia di distinguibile nei brandelli di carne dei giovani morti del 
              centro di Gerusalemme o del World Trade Center lo sa solo Dio.
 
 Si può dire che Israele ha commesso errori in passato. Si possono 
              citare gli insediamenti nei Territori Occupati oppure gli eccessi 
              nel fronteggiare l’intifada. Così come ci sono sicuramente aspetti 
              criticabili della politica estera americana. Dettagli certo 
              importanti di un quadro che occorre però vedere nella sua 
              interezza. Quello che è successo a Gerusalemme e Haifa è aberrante 
              e senza scuse, allo stesso modo degli attacchi dell’11 settembre. 
              Dopo aver vinto tutte le guerre scatenategli contro, nella sua 
              breve esistenza, da paesi sulla carta molto più forti, Israele ha 
              fatto concessioni importanti. Culminate lo scorso anno nella 
              proposta di restituzione di più del novanta per cento di Gaza e 
              della Cisgiordania e in parti di Gerusalemme Est. Anziché 
              presentare una controproposta, Arafat ha sbattuto la porta in 
              faccia. Seduti in poltrona nell’atmosfera rarefatta di una 
              capitale occidentale, si può pensare che Israele non abbia fatto 
              abbastanza per arrivare ad un accordo. Si possono assegnare colpe 
              e meriti in modo tale che la bilancia rimanga sempre in 
              equilibrio. Una condizione che consente di vivacchiare in un 
              rassicurante status quo diplomatico. Finché ci sono eventi come 
              gli attentati suicidi a Gerusalemme e Haifa che possono essere 
              letti in un modo solo. Vietando equilibrismi del passato ed 
              imponendo ad una delle due parti, l’Autorità palestinese, di 
              intraprendere passi decisi e incondizionati prima di poter 
              riallacciare il filo delle trattative.
 
 Gli accordi di Oslo prevedevano terra ai palestinesi in cambio di 
              pace per gli israeliani. Uno scambio che sarebbe dovuto avvenire 
              parallelamente. Con gradualità ma lungo un percorso di progressivo 
              avvicinamento ad una soluzione definitiva del conflitto 
              israelo-palestinese. Sul primo versante, progressi sono stati 
              fatti. Se Arafat non avesse ribaltato il tavolo della diplomazia, 
              a quest’ora gran parte della questione territoriale sarebbe stata 
              risolta. Quanto alla pace, che i palestinesi si erano impegnati a 
              concedere parallelamente alla restituzione della sovranità 
              territoriale, gli attentati sempre più sanguinosi e indiscriminati 
              contro la cittadinanza israeliana la dicono lunga su come siano 
              andate le cose. Nessun progresso, semmai una palese involuzione.
 
 Si può discutere sul fatto che Arafat sia un terrorista o meno. 
              Non possono però essere disquisizioni a questo punto accademiche a 
              negare a Israele il diritto all’autodifesa. Il che significa che 
              Arafat, terrorista o non terrorista che sia, è chiamato a condurre 
              una battaglia senza quartiere contro i signori della morte. Senza 
              ambiguità e senza reticenze. Senza liberare prigionieri con la 
              scusa di un attacco israeliano contro qualche sede evacuata della 
              sua polizia. Senza veicolare messaggi di pace in inglese e di 
              guerra in arabo. Chiudendo le scuole da cui escono gli uomini 
              bomba e punendo chi le organizza. Riformando i libri di testo che 
              predicano ai bambini di 11 anni le virtù del martirio. Moderando i 
              toni della stampa palestinese, interamente sotto il suo controllo.
 
 Misure dure, che provocheranno resistenza. Se Arafat non è in 
              grado di vincerla vuol dire che non può rivestire i panni di un 
              partner affidabile nella strada che porta ad una una pace 
              duratura. Allora sarà meglio mettere fine il prima possibile al 
              teatrino delle speranze perpetuamente disilluse piuttosto che 
              continuare una farsa che sta assumendo sempre di più i contorni di 
              una tragedia. Nell’ipotesi migliore, il nuovo interlocutore sarà 
              pronto ad assumersi le proprie responsabilità, a differenza 
              dell’Arafat che abbiamo conosciuto sin qui. In quella peggiore, 
              saranno gli oltranzisti ad avere il sopravvento. In tal caso però 
              non ci sarebbe il sorriso di Arafat a salvarli dall’ostilità non 
              solo di Israele ma del mondo intero.
 
 7 dicembre 2001
 
 sdaempol@gmu.edu
 
              
 
 
 |