| Ma per l'Afghanistan il difficile viene 
              ora di Rodolfo Bastianelli
 
 Dopo oltre vent'anni l'Afghanistan si appresta forse a voltare 
              pagina. Tuttavia, nonostante la positiva conclusione della 
              conferenza di Bonn e il raggiungimento di un'intesa tra i diversi 
              gruppi presenti alla trattativa, i problemi non possono certo 
              dirsi risolti, dato che sul successo di quanto sottoscritto negli 
              accordi e sulla loro corretta applicazione pesano degli 
              interrogativi che rendono tuttora estremamente incerto il futuro 
              del paese. Il primo riguarda la tenuta della coalizione che ha 
              rovesciato il regime dei talebani. Composta da gruppi messi 
              insieme più per convenienza che non per identità di idee, 
              l'Alleanza del Nord anche stavolta potrebbe disgregarsi e 
              dividersi al suo interno in diverse fazioni in lotta tra loro, 
              come già accadde nel 1992, quando dopo aver sconfitto il 
              presidente filo-comunista Najibullah i vari leaders della 
              guerriglia anti-sovietica cominciarono una devastante guerra 
              civile che finì proprio per favorire l'ascesa al potere del regime 
              teocratico dei talebani.
 
 Un altro problema riguarda poi sia l'estrema frammentazione delle 
              forze politiche afgane che la composizione etnica del paese. I 
              quattro gruppi presenti alla conferenza - quello di Roma vicino 
              all'ex re Zahir Shah, quelli di Peshawar e Cipro composti da 
              elementi legati rispettivamente al Pakistan ed all'Iran e quelle 
              del "Fronte Unito" in rappresentanza delle forze dell'Alleanza del 
              Nord - sono stati spesso in contrasto su diverse questioni, mentre 
              nella scelta dello stesso premier incaricato di guidare il governo 
              di transizione e nella designazione dei vari ministri si sono 
              dovuti usare dei criteri che evitassero una rottura tra le 
              delegazioni presenti. Se la nomina dell'esponente legato all'ex re 
              Ahmed Karzai è stata infatti decisa proprio per assicurare ai 
              pashtun, che costituiscono l'etnia maggioritaria del paese, un 
              ruolo di primo piano nel nuovo governo ed evitare che questo 
              potesse essere visto come l'espressione della sola Alleanza del 
              Nord e quindi delle popolazioni tagike ed uzbeke, la conferma come 
              responsabili dei ministeri-chiave della Difesa, degli Esteri e 
              degli Interni degli attuali esponenti rappresenta sia un 
              riconoscimento del ruolo avuto dalle forze antitalebane nella 
              caduta del regime di Kabul ma anche un segnale che la comunità 
              internazionale vuole puntare su elementi più aperti al dialogo 
              rispetto a quelli fino ad ora presenti nell'opposizione.
 
 L'esclusione da ogni incarico ufficiale nel nuovo esecutivo 
              dell'attuale presidente Rabbani, ritenuto troppo legato alla 
              Russia e all'Iran e da molti accusato di voler ostacolare le 
              trattative, dimostrerebbe come la comunità internazionale e gli 
              Stati Uniti vogliano puntare proprio sul ministro degli Esteri 
              Abdullah e su quello degli Interni Qanooni, ritenuti più moderati 
              e favorevoli all'occidente. La questione però è essenzialmente se 
              questo compromesso potrà reggere alla prova dei fatti. L'accordo 
              infatti prevede che il governo e la "Loya Jirga" - l'assemblea 
              tradizionale dei notabili afgani - di transizione rimangano in 
              carica sei mesi, per essere in seguito sostituiti da un'altra 
              "Loya Jirga" con il compito di redigere la Costituzione e da un 
              nuovo esecutivo che nei successivi 18 mesi dovrà organizzare 
              libere elezioni. Un periodo lungo, in cui tra i vari gruppi 
              politici potrebbero emergere dei contrasti tali da rendere 
              impossibile il raggiungimento di un'intesa e la pacificazione del 
              paese. Per non ripetere l'errore di dieci anni fa, è necessario 
              che la comunità internazionale rimanga in Afghanistan ed eserciti 
              tutta la sua influenza sulle parti per favorire una soluzione ed 
              impedire il riesplodere della guerra civile. Ed è proprio il ruolo 
              della forza internazionale a costituire il problema più 
              importante, viste le difficoltà che la missione presenta.
 
 Se in Bosnia il contingente internazionale si è impegnato in 
              un'operazione di "peace enforcing" per garantire l'applicazione 
              degli accordi di pace in un paese dove esistevano un governo ed 
              una struttura statale, in Afghanistan si dovrebbe procedere invece 
              alla totale ricostruzione di uno stato devastato da venti anni di 
              conflitti, privo di un apparato politico ed amministrativo e con 
              una economia in rovina, dove l'unica risorsa è costituita dalla 
              coltivazione dell'oppio. Per ora l'unica operazione di questo tipo 
              decisa dalla comunità internazionale è stata quella attuata 
              dall'Onu in Cambogia nel 1991; anche in quel caso si trattava di 
              ricostruire un paese devastato da un decennio di guerra civile, ma 
              a differenza dell'Afghanistan esisteva una parvenza di struttura 
              statale su cui appoggiarsi e lo scenario era radicalmente diverso, 
              dato che il regime cambogiano non era caduto a seguito di un 
              conflitto ma in conseguenza della fine del sostegno politico che 
              Hanoi gli garantiva con il suo contingente militare. Come si vede, 
              i rischi di insuccesso per un'operazione di questo tipo sono molto 
              elevati.
 
 L'ultima questione da prendere in considerazione riguarda il ruolo 
              che avranno gli stati confinanti. Tra questi chi ha tratto 
              vantaggio dal crollo del regime talebano sono sicuramente la 
              Russia e l'Iran, che da sempre hanno sostenuto l'Alleanza del 
              Nord. Per Mosca infatti è fondamentale contare su uno stato che 
              impedisca la penetrazione del fondamentalismo islamico nelle 
              repubbliche dell'Asia centrale, senza contare che grazie al 
              conflitto in Afghanistan Putin è tornato a vedersi riconosciuto un 
              ruolo di primo piano sulla scena internazionale. Allo stesso modo 
              l'Iran aspira non solo ad emergere come potenza regionale, ma 
              anche ad approfittare della crisi afgana per rilanciare il dialogo 
              con gli Stati Uniti. Per ora il solo perdente è il Pakistan. 
              Caduto il regime talebano, il rischio per Islamabad è infatti 
              quello di trovarsi con due regimi ostili, l'India e l'Afghanistan, 
              posti alle sue frontiere, uno scenario che potrebbe alla lunga 
              indebolire il governo del presidente Musharraf. La decisione di 
              formare a Kabul un governo di larghe intese, riflette l'intenzione 
              degli Stati Uniti di non creare rischi per la stabilità interna 
              del Pakistan ed evitare che il paese possa trasformarsi in una 
              base d'appoggio per i gruppi fondamentalisti islamici. Il successo 
              della conferenza sull'Afghanistan costituisce un importante punto 
              di partenza per la ricostruzione del paese. Saranno però i 
              prossimi mesi a dirci se a Kabul sia effettivamente cominciata una 
              nuova era.
 
 14 dicembre 2001
 
 rodolfobastianelli@tiscalinet.it
   
              
 
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